anima



È il greco ἄνεμος, latino anima, il cui primo senso è "aria", poi "respiro, soffio", e, di qui, "principio vitale", come πνεῦμα; dal significato originario, che connette il principio della vita alla funzione biologica del respirare, il termine è passato a indicare la parte spirituale dell'essere umano, spesso contrapposta alla corporeità e, a differenza del corpo, immortale. Intesa nella tradizione cristiana, pur con accezioni e determinazioni diverse, come entità ontologica e metafisica, con forti implicazioni gnoseologiche ed etiche, ha subito successivamente un processo di laicizzazione separandosi sempre più da connessioni di natura religiosa e filosofica. L'approccio empirista, la prospettiva fenomenologica, gli sviluppi della fisiologia, della psicologia e delle neuroscienze hanno inscritto il termine in un significante laico e moderno, riferendolo all'insieme degli stati di coscienza, alle attività della psiche, all'universo della mente.

sommario: Tra religione e filosofia. Lo spiritualismo della tradizione cristiana. L'autocoscienza fondante. Oltre il dualismo anima-corpo. Un archetipo della psiche. □ Bibliografia.

Tra religione e filosofia di Giancarlo Movia

Si può ragionevolmente supporre che siano state l'esperienza della precarietà dell'esistenza e la sofferta cognizione del mondo fenomenico a sollecitare nell'umanità, fin dagli albori della sua storia, il bisogno di fondare la propria soggettività - e, in definitiva, la propria identità - in una dimensione che trascendesse l'esperienza empirica. Il concetto di anima consente infatti sia di esprimere quell'aspetto delle azioni spirituali (o, se si preferisce, dei processi corticali superiori) che è fattore specifico di appartenenza alla specie umana, sia di cogliere la singolarità psicobiologica di ciascun individuo. Nelle culture primitive la visione dell'anima appare fortemente integrata in una interpretazione della realtà di tipo simbolico-religioso. In alcune, essa viene pensata come situata in un organo del corpo, oppure in oggetti impregnati di una particolare energia e che portano in sé l'anima o, se si vuole, lo spirito del donatore, degli avi o delle figure mitiche che hanno dato origine al clan o al villaggio. È interessante notare come già in numerose culture primitive l'anima sia concepita come un principio distinto dal corpo e in grado di sopravvivere oltre la morte di questo; e ancora più interessante è osservare come, nonostante lo scorrere del tempo, il concetto di immortalità permanga costante nelle tradizioni religiose, sia occidentali sia orientali, variando solo il modello esplicativo del modo in cui si perviene all'immortalità: talora immediatamente, talora attraverso una serie di reincarnazioni.Nell'evolversi della storia del pensiero umano un nuovo 'sapere', la filosofia, sottrae gradualmente spazi alla primitiva visione religiosa del mondo per far posto alla razionalità, spostando l'asse di riferimento dal cielo alla terra, cioè da una modalità teologica a una antropologica. In particolare, la filosofia greca opera un importante passaggio in tal senso già sul piano linguistico, preferendo al termine ἄνεμος quello di ψυχή, che, pur significando anch'esso "soffio, respiro vitale", è venuto progressivamente acquisendo il significato di "principio delle attività spirituali" dell'uomo, rimanendo però polisemica la sua valenza semantica e prefigurando quel dualismo corpo-spirito che, per alcuni aspetti, segna ancora la nostra cultura.La nozione di anima nella riflessione filosofica si presenta nei termini di quei concetti che ciascun filosofo assume per definire la realtà stessa. Già per gli orfici l'anima ha un'origine divina e s'identifica con un 'demone' personale, che s'incarna successivamente nei corpi (di uomini e animali), per espiare un'oscura colpa originaria. Essa realizza la sua vera natura soprattutto dopo che si è definitivamente liberata dal corpo. Sono espliciti il dualismo anima-corpo, la credenza nella preesistenza dell'anima e nella metempsicosi, e il fine escatologico della vita raggiunto attraverso pratiche mistiche. Accanto alla concezione dell'anima come δαίμων, c'è però, nell'orfismo, anche quella dell'anima come soffio (πνεῦμα) che, trasportato dai venti, penetra negli animali dall'esterno. Sede dell'anima è il petto.Nella fisica presofistica (6°-5° secolo a.C.) l'anima viene connessa alla natura e al suo Principio. Così, per Talete l'acqua è il principio vitale (la 'natura' e l'origine 'divina') di tutte le cose. L'aria di Anassimene è insieme il principio cosmico e il costitutivo dell'anima, e il fuoco di Eraclito è legge razionale della realtà e sostanza della ψυχή. L'anima è per i pitagorici armonia esprimibile in numeri, attraverso i quali si rivela la struttura stessa del cosmo, mentre gli atomisti, con Democrito, la concepiscono nei termini di una materialità più raffinata di quella del corpo, e costituita di atomi sferici di natura ignea, dotati di movimento incessante. Nelle varie soluzioni, a una concezione mistica si accompagnano visioni naturalistiche dell'anima ed emerge la commistione della prospettiva fisica e di quella religiosa.Con i sofisti e la dottrina del λόγος, l'anima (il principio della vita) si fa non solo cosciente (λόγος-pensiero), ma anche parlante e dialogante (λόγος-parola). Da parte sua, Socrate identifica l'anima-demone con la personalità intellettuale e morale dell'uomo singolo, visto in una dimensione intersoggettiva: 'cura dell'anima' è la ricerca dialogica della verità.La dottrina di Platone sull'anima dipende strutturalmente dall'assunzione del mondo metempirico delle Idee (la 'seconda navigazione'); è infatti l'affinità dell'anima con le Idee che definisce la sua natura immateriale e fonda in radice la sua immortalità e preesistenza. La ψυχή-δαίμων degli orfici e dei pitagorici coincide dunque con l'intelligenza, mediante la quale veniamo a conoscere (o a 'ricordare') le Idee. Caratteristico di Platone è il collegamento del problema dell'immortalità con quello gnoseologico: l'anima può conoscere le Idee, forme ideali di assoluta realtà, solo per reminiscenza. Nel Fedone l'anima è definita un'entità spirituale e 'semplice', in quanto simile alle Idee, ossia in quanto anima intellettiva o razionale. L'anima intellettiva (distinta dall'anima impulsiva e appetitiva, che evidenzia nell'uomo la presenza di istanze e forze alogiche) è immortale, mentre le funzioni inferiori seguono il destino degli organi corrispondenti. A tale concezione metafisica e razionale dell'anima s'accompagna, in Platone, la credenza nella metempsicosi e nel destino escatologico della ψυχή. È con Platone che la distinzione anima-corpo diviene, in realtà, separazione e induce a pensare l'individuo come composto di un principio spirituale nobile e di una realtà corporea materiale di valore inferiore, ciò che finisce per trasformare, a sua volta, la divisione in contrapposizione.Questa visione influenzerà anche il cristianesimo e, per questa via, inciderà notevolmente su tutta una serie di atteggiamenti tendenti a considerare il corpo-materia come ostacolo per l'anima, innescando un modo di pensare talmente forte da portare la prassi cristiana d'Occidente circa il valore del rapporto anima-corpo al di fuori del solco biblico originario. Nella fede biblico-cristiana, corporeità e spiritualità non formano due ambiti separati e contrapposti: designano due aspetti, in reciproca pervasiva correlazione, che costituiscono il soggetto umano, la persona. Lo si evince dal lessema nefesh (anima?), che rappresenta uno dei più importanti elementi dell'antropologia della Bibbia ebraica, significando al tempo stesso "vita, soffio, gola, desiderio, individuo, soggetto".
Le determinazioni che Platone attribuisce all'anima servono di base alle successive trattazioni filosofiche. Tra di esse la più importante è quella di Aristotele, che è stata poi modello di buona parte delle dottrine sull'anima. Nel trattato De anima, Aristotele fa della ψυχή il principio (l''atto primo') di animazione, organizzazione e funzionamento del corpo; essa è insieme la sua causa formale, motrice e finale. L'anima è sostanza, ma non come un sostrato inerte, bensì come un principio attivo e dinamico che fa concorrere gli organi corporei al mantenimento della vita. Il nesso dell'anima con il corpo è ritenuto essenziale da Aristotele, che lo riconduce a quello della 'forma' e della 'materia' nella 'sostanza', nesso che, con la sua inscindibilità, sembrerebbe negare la sussistenza dell'anima indipendentemente dal corpo. In tal modo, Aristotele fonda una concezione generale della biologia, che ruota intorno alla distinzione di tre anime o facoltà (δυνάμεις). L'anima è la causa della vita vegetativa (nutritiva e riproduttiva) nelle piante, di quella sensitiva (e appetitiva) negli animali, di quella razionale (pensiero e volontà) nell'uomo. In ogni essere vivente esiste dunque un'unica anima, come unica è la 'forma sostanziale' di ciascun corpo. L'anima dell'uomo è un'anima intellettiva o, meglio, corrisponde al cosiddetto intelletto produttivo che, oltre a esercitare la propria funzione specifica (la formazione dei concetti universali), adempie pure il ruolo di forma sostanziale ed esercita tutte le funzioni conoscitive, sensitive e nutritive inferiori, quelle più complesse includendo le più semplici. Quest'intelletto sarebbe preesistente, intrinsecamente indipendente dal corpo, e quindi immortale ed eterno, dotato di uno statuto ontologico analogo a quello dei Motori immobili. Più tardi, sarà un grande sforzo dei commentatori medievali stabilire se l'immortalità che appartiene all'intelletto attivo possa attribuirsi anche all'anima individuale, interpretando le teorie aristoteliche in modo da conciliarle con la dottrina dell'anima immortale.

Lo spiritualismo della tradizione cristiana di Marta Cristiani
Alla tradizione del pensiero cristiano, dall'età patristica al Medioevo, si attribuisce la nozione spiritualista di anima che si è poi definitivamente affermata e che utilizza prevalentemente un nucleo di dottrine platoniche. In realtà, alle origini della tradizione latina un importantissimo trattato, De anima, scritto intorno al 210 d.C. da Tertulliano, tenta di affermare, con ricchezza di argomentazioni filosofiche e mediche, quella fisicità dell'anima che il platonismo di Agostino finirà per mettere definitivamente in crisi. Tertulliano parte dalla constatazione che Platone è diventato lo 'speziale' di tutti gli eretici, perché alimenta il dualismo drammatico delle diverse tradizioni gnostiche, fondate ognuna su di un complesso sistema di miti, che riconducono a una contrapposizione originaria fra il divino spirituale e una materia responsabile di ogni violenza e di ogni male. Tertulliano afferma l'unità e la fisicità possente dell'anima, intesa, secondo la tradizione stoica, come soffio vitale, frammento dell'Anima cosmica, che è Logos e, insieme, fuoco artefice o πνεῦμα, direttamente trasmesso al primo uomo dal respiro divino.
La parola della Scrittura, le descrizioni delle sofferenze o felicità delle anime dopo la morte, implicano, secondo la concezione di Tertulliano, la natura sensibile dell'anima, che non è riducibile quindi alla sua parte puramente razionale, al νοῦς-animus, o intelletto, come pretendono invece i platonici, dei quali Tertulliano contesta le dottrine dell'anamnesi, della dimenticanza della verità che coglie l'anima eterna e ingenerata quando si trova prigioniera del corpo, e della metempsicosi. Comune al platonismo, è conservata la dottrina dell'immortalità dell'anima, che trova nella morte una sconosciuta libertà. Oltre un secolo e mezzo più tardi, nel 387, Agostino affronta in termini decisamente platonici, nel De immortalitate animae, i temi che Tertulliano aveva risolto in chiave stoica, e contribuisce in maniera determinante a imprimere un indirizzo spiritualistico alla tradizione cristiana.
L'obiettivo fondamentale, in questa fase del pensiero agostiniano, è quello di affermare il primato della razionalità, intesa platonicamente come conoscenza di forme eterne e immutabili, che non può essere funzione propria di un corpo mortale e mutevole. In un'opera affine, il De quantitate animae, scritta in forma di dialogo, Agostino utilizza l'argomento degli enti geometrici, il punto, la linea, la superficie, che sono privi di fisicità, non sono recepibili dalla percezione corporea, e tuttavia sono dotati di una realtà ontologica superiore alla realtà voluminosa, alla massa (tumor), alla dimensione quantitativa dei corpi. Qui la polemica verte sulla questione, destinata a ripresentarsi nei secoli successivi, se l'anima abbia o meno una dimensione spaziale limitata dalla forma e dallo spazio del corpo. Il tema dello sviluppo delle nature viventi, in particolare della crescita solidale e armoniosa dell'anima e del corpo del bambino, costituisce un'obiezione forte, posta dall'interlocutore, contro il razionalismo spiritualistico affermato da Agostino, a cui questi può solo contrapporre la concezione platonica dell'anima, che reca in sé, per la sua divina natura, tutte le conoscenze, destinate a rivelarsi nel percorso della reminiscenza, che solo apparentemente è un percorso 'progressivo' di sviluppo nel tempo.
Dalla più profonda riflessione di Plotino, massimo esponente del neoplatonismo, trae origine la dottrina dell'anima come vita in sé, fondamento puro della stessa vita biologica, incompatibile per natura con la nozione di morte. Il corpo sussiste in virtù dell'anima e sussiste per il fatto stesso che è animato, sia nella sua realtà universale, in quanto mondo, sia nella realtà particolare di ogni essere animato all'interno del mondo. Agostino, che nelle opere teologiche della maturità svilupperà diffusamente il tema della struttura trinitaria dell'anima, intimo segno della sua natura divina, nel trattato De natura et origine animae affronta problematicamente il tema dell'origine dell'anima individuale, veicolo di trasmissione del peccato del primo uomo. Se infatti si esclude la teoria, definita traducianista, di Tertulliano, che considera le anime generate, attraverso il processo riproduttivo, dal soffio vitale che Adamo ha ricevuto da Dio, perché implica la natura materiale dell'anima, e si afferma, come tende a fare Agostino, una dottrina della creazione divina dell'anima individuale, il problema dell'origine del male assume una formulazione particolarmente drammatica.
È difficile infatti giustificare la dannazione, affermata dall'ortodossia cristiana, dell'anima del bambino incolpevole che non ha ricevuto il battesimo, come ogni altra forma di sofferenza vissuta da un'anima infantile, priva di colpa individuale e creata individualmente da Dio.
I temi agostiniani sono sintetizzati, con chiarezza didascalica, nel De anima di Cassiodoro (6° secolo). Il testo considera una corretta nozione dell'anima la premessa necessaria alla conoscenza di sé, quindi all'insegnamento etico, all'esortazione alla pratica delle virtù cristiane fondamentali. Nel riaffermare la natura spirituale dell'anima, Cassiodoro introduce alcuni spunti originali, a cominciare dalla negazione della dottrina della reminiscenza. Propria di Cassiodoro, anche se appartenente alla logica di una tradizione platonizzante, che privilegia la natura luminosa dello sguardo, è la definizione dell'anima come luce, che supera la dottrina stoica dell'anima-fuoco e assume suggestivo rilievo nella descrizione finale della vita delle anime nella Città celeste, all'origine di una tradizione che troverà nel Paradiso dantesco la sua apoteosi.
L'importanza storica del testo di Cassiodoro è nel formarsi di una tradizione di 'umanesimo cristiano', nella trasmissione letteraria di temi topici sulla dignità dell'uomo, fondata anche sul carattere integralmente significante della corporeità umana e, in primo luogo, secondo un topos antichissimo, della stazione eretta: la comparazione degli occhi ai due Testamenti costituisce un altro esempio caratteristico di una valorizzazione simbolica della corporeità, che non esclude neppure (come non ci attenderemmo facilmente da un autore cristiano) gli organi della riproduzione, soggetti come gli altri organi a un processo di corruzione derivante dal peccato. Verso l'alto tende anche la natura dell'anima, che, pur essendo priva di spazialità e di forma, risiede nel capo, cioè nella parte più nobile del corpo, come la divinità risiede nei cieli. In particolare, Cassiodoro aderisce alla tradizione medica che identifica la sede dell'anima nel cervello, destinata a contrapporsi per secoli a una tradizione cardiocentrica.
Mentre Cassiodoro ha il merito di correggere lo spiritualismo e il razionalismo di Agostino, recuperando elementi del vitalismo antico, una diversa tradizione altomedievale isola dall'insieme articolato dei temi agostiniani un oggetto di discussione di grande rilievo speculativo, cioè la questione della spazialità o a-spazialità dell'anima, che è un aspetto specifico della contrapposizione fra corporeità e incorporeità. Nel 5° secolo il monaco Fausto di Riez rinnova l'affermazione della natura corporea dell'anima, entro i limiti spaziali (localitas) del corpo individuale, perché divina è solamente la pura e assoluta spiritualità, con la quale l'anima individuale non può aspirare a identificarsi, nella speranza di poter superare i propri limiti spaziali, in un eccesso di slancio mistico che sfiora il rischio del peccato di superbia. A Fausto di Riez, perspicace indagatore della tentazione mortale che può nascondersi in ogni forma di angelismo, risponde l'ultimo dei neoplatonici antichi, Claudiano Mamerto, con il De statu animae, che costituisce un'appassionata difesa dell'anima spirituale, caratterizzata da una rigorosa inlocalitas, cui non è preclusa l'unione con la divinità, fino al limite dell'identificazione con essa.
Nell'età delle Università (13° secolo), il francescano Bonaventura da Bagnoregio riprende il tema tradizionale della differenziazione fra l'anima e l'assoluto divino, il quale ultimo solamente può dirsi privo di ogni composizione, mentre l'angelo (quindi, a maggior ragione, anche l'anima) deve considerarsi realtà composta di materia, sia pure diversa dalla materia pesante dei corpi, e forma (dottrina definita con il nome di ilemorfismo).
La diffusione rapida del corpus aristotelico e dei commenti arabi conduce inevitabilmente ogni discussione all'ambito tracciato nel De anima di Aristotele, alle costruzioni teoriche di estrema complessità che dal 2° al 12° secolo, da Alessandro di Afrodisia ad Averroè, si erano innestate sull'aspetto più problematico del trattato aristotelico, sul rapporto cioè tra la funzione conoscitiva, propria unicamente dell'essere razionale, e le altre due funzioni, vegetativa e sensitiva, comuni, rispettivamente, anche alle piante e agli animali. In questa prospettiva, soprattutto fra i maestri domenicani, il problema del rapporto fra anima e corpo risulta inestricabilmente connesso con il problema centrale di tutta la storia del pensiero filosofico, cioè il problema della conoscenza.
Nell'enciclopedia aristotelica del sapere il De anima appartiene ai libri naturales, perché l'anima è concepita come principio formale strutturante, ἐντελέχεια, di ogni realtà biologica, principio per cui viviamo, sentiamo, intendiamo. In quanto tale non può concepirsi come una sovrapposizione di anime separate, secondo uno schema che può facilmente applicarsi alla dottrina platonica; tuttavia si verifica inevitabilmente una frattura tra la facoltà sensitiva (analizzata in profondità da Aristotele, perché a essa è affidata la fase iniziale del processo conoscitivo, in quanto le forme universali sussistono unicamente nel 'sinolo' concreto di materia e forma) e la facoltà intellettiva, che ha per oggetto la forma pura universale, contenuta, attraverso il processo di astrazione, nel fantasma delle cose sensibili prodotto dalla fantasia. Il sentire è infatti un patire, un subire, attraverso i cinque sensi esterni, le impressioni, che si raccolgono in un senso interno unificante (sensorio, o anche senso comune), avente la funzione di produrre, per associazione di sensazioni diverse, la percezione vera e propria; a questa contribuisce però, in maniera determinante, l'immaginazione o fantasia, capace di produrre anche l'immagine dell'oggetto sensibile senza il contributo immediato dei sensi.
L'immaginazione costituisce quindi l'elemento di passaggio e di mediazione fra la sensibilità e l'intelletto, rappresenta il grado più alto di indipendenza della sensibilità dalla materia e implica, negli animali, una facoltà di discernimento (detta dai medievali aestimativa) o, nella natura umana, la funzione primaria, organica, del pensare (detta appunto cogitativa). Poiché la funzione conoscitiva vera e propria consiste però nel rendere universale, intelligibile in atto, il fantasma sensibile, che non è universale ed è intelligibile solo in potenza, questo stadio ultimo del processo di astrazione può essere compiuto solo da una facoltà sottratta ai condizionamenti del sensibile, capace di ricevere tutte le forme, come la tavoletta cerata predisposta per la scrittura. In due testi fra i più tormentati dall'interpretazione filosofica (De anima e De generatione animalium), Aristotele avanza l'ipotesi che l'intelletto possa considerarsi separato dalle funzioni vitali dell'anima e apre la strada alle più complesse soluzioni metafisiche, affermando che soltanto l'intelletto entra nell'uomo dal di fuori, esso solo è divino, poiché con l'atto di esso niente ha in comune l'atto del corpo.
A partire dal commentatore greco del 2° secolo Alessandro di Afrodisia, l'universalità e l'oggettività della conoscenza nell'individuo singolo sarà garantita da una qualche forma di unione con la conoscenza totale, con la verità dell'assoluto intelletto divino. In seguito, una serie di interpreti, fra i quali il greco Temistio e i pensatori arabi Al Kindi, Al Farabi, Avicenna, Avenpace, Averroé e il maestro ebreo di Spagna Mosé Maimonide, distinguono con diverse denominazioni e collocano variamente al di fuori dell'individuo i diversi intelletti, a cui sono affidate le diverse fasi del processo conoscitivo. In particolare, Avicenna identifica l'intelletto agente, cui attribuisce il nome di dator formarum, con l'Intelligenza celeste che muove il cielo della Luna e determina tutti i processi che avvengono nella nostra sfera sublunare, mentre Averroé teorizza la separazione dell'intelletto attivo e passivo dall'anima umana e la loro attribuzione a Dio. Dal punto di vista cristiano, questa linea interpretativa conduce alla negazione dell'immortalità dell'anima individuale, perché sottrae all'individuo l'elemento incorruttibile ed eterno dell'anima, cioè l'intelletto. I più grandi maestri del 13° secolo, Alberto Magno e soprattutto, in forma decisiva, Tommaso d'Aquino, utilizzano tutte le risorse di un maturo aristotelismo per restituire all'individuo l'anima conoscente, razionale e immortale.
Intorno al 1255 Tommaso d'Aquino, alla Facoltà di teologia di Parigi, nel commentare le Sentenze di Pietro Lombardo, si pone la questione se l'anima intellettiva, o intelletto, sia unica in tutti gli uomini, fornendo, al tempo stesso, una lucida ricostruzione delle questioni sollevate dai commentatori greci e arabi intorno al De anima di Aristotele.
Lo stesso tema è affrontato da Alberto Magno nel De unitate intellectus contra Averroim, probabilmente posteriore al 1270, l'anno in cui le dottrine degli averroisti latini Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia sono condannate una prima volta dal vescovo di Parigi Stefano Tempier. La contestazione decisiva della tradizione araba è fondata da Tommaso d'Aquino su una serrata interpretazione del testo aristotelico: annunciata già nella Summa contra Gentiles, la contestazione è successivamente sviluppata nel commentario al De anima di Aristotele, e si conclude nel 1270 con l'opuscolo De unitate intellectus, contra Averroistas. La polemica sfiora il sarcasmo quando Tommaso invoca l'argomento dell'impossibilità di discutere con chi afferma di 'non intendere come individuo'.
Anche se lo stesso aristotelismo di Tommaso rischia di finire coinvolto nella più pesante condanna che il vescovo Stefano Tempier infligge nel 1277 alle dottrine aristoteliche, la difesa dell'individualità del conoscere, propria di un'anima individualizzata dal corpo di appartenenza, costituisce un elemento storicamente determinante nell'evoluzione di una concezione europea dell'individualità, con tutte le conseguenze che da essa derivano sul piano etico e politico.

L'autocoscienza fondante di Paolo Casini

La tarda Scolastica rielaborava l'antica dottrina del dualismo anima-corpo secondo le dicotomie aristoteliche (forma-materia, sostanza-accidente) e adattava la tripartizione dell'anima in vegetativa, sensitiva, razionale e la nozione di 'sinolo' alla fede evangelica nell'immortalità. Profonde modifiche vengono introdotte in questa sistemazione dottrinale quando, a metà del Quattrocento, giungono da Bisanzio in Italia i codici di Platone, degli autori neoplatonici e neopitagorici, il Corpus hermeticum. La sensibilità religiosa degli umanisti riscopre e rivive intensamente il messaggio di salvezza dell'anima attribuito alla tradizione della prisca philosophia.
Alle rigide categorie della teologia scolastica subentra la fede in un'antichissima rivelazione divina all'umanità, trasmessa lungo un'ininterrotta catena di iniziati che dai suoi depositari originari, il greco Orfeo e l'egizio Ermete, giunge a Platone e Plotino, al sapere occulto dei maghi, degli alchimisti e dei cultori della Kabbalah ebraica. Il manuale magico Pimander e i dialoghi attribuiti a Ermete Trismegisto - in realtà compilazioni d'impronta gnostica del 3° secolo d.C. - insegnano segrete pratiche iniziatiche. Il destino dell'anima si compie attraverso un'ascesa graduale dall'oscurità verso la luce divina, in sintonia con la visione platonica dell'immortalità presente nel Fedone e nel Fedro e con la dottrina plotiniana dell'eterno ritorno.
Artefice della nuova sintesi teosofica è Marsilio Ficino, autore del trattato Theologia platonica, dedicato all'immortalità dell'anima. La corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo richiama la dottrina dell'anima mundi del Timeo di Platone e la numerologia pitagorica. La simmetria tra la struttura dell'anima e gli accordi musicali, la disposizione delle gerarchie celesti, l'ascesa dell'anima attraverso le dodici sfere e le costellazioni dello Zodiaco nel contesto dell'armonia universale sono altrettante prove a favore dell'immortalità individuale.
Priva di ogni ombra di materia, l'anima ha anzitutto l'intuizione di se stessa in interiore homine - come aveva insegnato Agostino - e di qui risale alla pura percezione di Dio. In Ficino è centrale il tema platonico dell'amore, il divino raptus che, attraverso un processo di sublimazione, eleva l'anima individuale alla verità e alla luce.
Nelle scuole e nelle università il neoplatonismo non sostituisce la tradizionale autorità della metafisica di Aristotele, ma impone il metodo del confronto tra i due grandi filosofi antichi e la ricerca di una conciliazione tra le loro dottrine. La corrente magico-ermetica accolta da Ficino e Pico della Mirandola ha un ruolo centrale nella mentalità del 16° e 17° secolo, fino a entrare in radicale conflitto con l'ortodossia teologica della Chiesa post-tridentina, in particolare per quanto riguarda la fede nell'immortalità individuale. Tra i casi più noti di tale conflitto vi è il panteismo ermetico di G. Bruno, con al centro l''eroico furore' dell'anima che tende, attraverso l'eros, a risalire al Tutto, e la metafisica di T. Campanella, che tenta di conciliare il panpsichismo (o 'senso delle cose') con l'antica dottrina dell'anima del mondo e con il motivo dell'autocoscienza individuale, propria dell'uomo.
Di diverso orientamento, e oggetto di controversie tra i cattolici fin dall'età della Riforma, è il trattato De immortalitate animae (1516) dell'aristotelico P. Pomponazzi. Il maestro mantovano sostiene che la dicotomia tra il corpo e la mente non è di per sé garanzia di immortalità, giacché l'intelletto umano ha necessità di un supporto corporeo per pensare, ma, d'altra parte, è capace di intuire se stesso e le verità universali che trascendono il mondo dei sensi e della materia. In tal senso esso partecipa del dono dell'immortalità ed è, in certo modo, immortale. Dopo aver discusso i più diversi argomenti pro e contro l'immortalità, la vocazione dell'uomo alla contemplazione e il suo bisogno di una fede nella vita ultraterrena, Pomponazzi esclude questi problemi metafisico-religiosi dal dominio dell'etica.
L'esercizio della virtù morale è un bene in se stesso, che non dev'essere condizionato dall'aspettativa di un premio o di una pena nell'aldilà; il retto comportamento dell'uomo virtuoso è allora più meritevole nel caso che manchi in lui ogni certezza riguardo all'immortalità dell'anima, questione, sul piano razionale e puramente umano, 'neutra' e indimostrabile: perciò il cristianesimo ne ha fatto un articolo di fede fondato sulla Rivelazione e sulle Scritture.
Pomponazzi, approvato a suo tempo dalla Chiesa, viene invece considerato cripto-miscredente e precursore dell'incredulità dai liberi pensatori del tardo Seicento; eppure, la sua tesi si dimostra anzi di valido aiuto alla corrente scettico-fideista di M. E. Montaigne, P. Charron, B. Pascal, che pone l'accento sui limiti e sulla finitezza della ragione umana nei confronti degli imperscrutabili disegni divini, il più arcano dei quali consiste appunto nel destino ultraterreno dell'anima.
Con l'avvento del metodo sperimentale (inizio del 17° secolo), il principio di autorità subisce un'eclissi definitiva. L'ipse dixit aristotelico viene eliminato non solo dalla fisica e dall'astronomia, ma, più in generale, dalla metafisica, che perde la sua antica dignità di scienza prima, e, di conseguenza, dallo studio dell'uomo. Le scoperte mediche, anatomiche e fisiologiche di A. Vesalio, Fabrici di Acquapendente, R. Colombo, W. Harvey mettono in crisi la fisiologia di Galeno e avviano, su basi sperimentali e meccanicistiche, lo studio del corpo umano. La filosofia corpuscolare di Epicuro e Lucrezio torna in auge sia in fisica sia in medicina, e viene a intrecciarsi con le tendenze materialistiche che negano l'immaterialità dell'anima e il dualismo delle sostanze.
In questo senso l'opera di R. Descartes rappresenta il tentativo più ambizioso mai compiuto dopo Aristotele di ricostruire una sintesi enciclopedica e sistematica del sapere, ammettendo da un lato l'autonomia e la libertà della ricerca in matematica, meccanica, ottica, fisica, astronomia, medicina; dall'altro lato, riformulando le prove dell'esistenza di Dio e le ricerche sulla psiche umana in base ad argomentazioni metafisiche non aristoteliche.
Agli inizi delle sue ricerche, Descartes appare affascinato dal sogno pansofico di una 'scienza totalmente nuova', non priva di venature pitagorico-esoteriche, che affiorano nei suoi studi sulla musica, sull'ottica, sulla matematica e sulla geometria algebrica. Tuttavia, anche per garantire una duplice libertà di ricerca nella conoscenza del mondo materiale e nella riflessione critica sulla sfera della psiche e del pensiero, Descartes postula una radicale dicotomia tra due entità ontologiche: la res extensa (sostanza estesa) e la res cogitans (sostanza pensante). Anziché richiamarsi all'autorità di Platone o di Agostino - che pure erano i suoi modelli - Descartes costruisce la nuova metafisica usando argomentazioni di stile 'geometrico', ossia con un rigore consequenziario che imita le 'lunghe catene di ragioni' tipiche del metodo euclideo. L'itinerario speculativo del Discorso sul metodo (1637) e delle Meditazioni metafisiche (1641) ha inizio dal rigetto di ogni sapere acquisito e dal dubbio più radicale. L'unica certezza che resiste a questa prova è la coscienza di sé come essere pensante: "dubito, dunque sono". È il punto archimedeo sul quale Descartes edifica il primato della sostanza pensante - l'anima - e sviluppa le linee della nuova psicologia e della teologia razionale. La stessa realtà del mondo fisico - descritta nei Principi di filosofia in termini meccanicistici - appare ora garantita dall'atto dell'autocoscienza. Il netto dualismo ontologico tra sostanza pensante e sostanza estesa, che Descartes approfondisce negli scritti antropologici (Le passioni dell'anima, Trattato sull'uomo) presenta una serie di ardite soluzioni dei problemi tradizionali: il passaggio dalle sensazioni alle percezioni; l'ipotesi della collocazione dell'anima nella ghiandola pineale; il processo puramente meccanico delle funzioni vitali e del sistema nervoso; il sopraggiungere della morte per la dissoluzione della 'macchina' umana.
Tutte le soluzioni proposte da Descartes salvano il principio della spiritualità dell'anima, tuttavia non risolvono il problema del nesso unitario che s'instaura tra le due sostanze dell'uomo; l'impostazione cartesiana ha il merito di porre in termini netti e razionali il body-mind problem, ma rilancia interminabili dispute su questioni connesse: la presenza o l'assenza di un'anima negli animali; la nascita dei sentimenti e delle passioni dal corpo e il modo della loro trasmissione all'anima; i modi e i tempi della formazione di quell'unità funzionale che è l'organismo vivente e della sua dissoluzione.
Una comune riflessione critica sul dualismo è condivisa, nelle dispute postcartesiane sull'anima, da filosofi delle più varie tendenze, come gli 'occasionalisti' francesi e olandesi, panteisti come B. Spinoza e A. Shaftesbury, metafisici come H. More, N. Malebranche, G. W. Leibniz. Pur rigettando il rigore geometrizzante della metafisica cartesiana, J. Locke discute, in riferimento a Descartes, la questione delle idee innate e l'ipotesi che la materia sia stata dotata dal Creatore di sensibilità e di un germe di coscienza. Leibniz e i suoi seguaci si richiamano a una concezione neoaristotelica dell'anima, intesa come centro di attività e di coscienza (la 'monade'); mentre la riflessione laica degli illuministi si orienta verso una psicologia analitica di tipo lockiano. Voltaire, E.B. Condillac, G.-L. Buffon, P.-L.M. Maupertuis, D. Diderot, C.-A. Helvétius rinnegano il dualismo cartesiano e accolgono l'ipotesi della 'materia pensante'.
Dai problemi delle due sostanze e del loro nesso, le ricerche si spostano sul terreno empirico del funzionamento e del comportamento della psiche. In queste varie scuole di pensiero i problemi della sostanzialità, immortalità e sopravvivenza dell'anima escono dall'orizzonte della ricerca gnoseologica ed etica.

Oltre il dualismo anima-corpo di Gianni Carchia

La nozione tradizionale dell'anima come sostanza del corpo, formulata da Aristotele e mantenutasi, attraverso l'eredità scolastica, fino alla sua reinterpretazione soggettivistica e coscienzialistica in Cartesio, viene sottoposta a una critica radicale da parte della filosofia trascendentale di I. Kant.
Nella Critica della ragion pura (1781), Kant definisce 'paralogismo', ovvero sillogismo fallace, l'argomentare della psicologia razionale, la quale ritiene di poter dedurre dal semplice 'Io penso' una determinazione materiale e a priori dell'idea di anima. Questa determinazione, che fa dell'anima appunto una sostanza, fornita dei suoi tradizionali attributi di semplicità, identità, spiritualità, costituisce arbitrariamente in un dato empirico l'orizzonte trascendentale della coscienza. Si tratta, per la critica kantiana, di dissipare l'equivoco che sta all'origine di tutta la psicologia razionale, per il quale è assunto come oggetto di conoscenza cui sia applicabile la categoria di sostanza quell''Io penso' che è semplice coscienza e che è condizione prima dell'uso delle categorie. Da questo punto di vista, il concetto di anima va dichiarato illegittimo ed eliminato. Tale critica si rivela determinante, perché il tipo di realtà attribuito alla nozione di anima viene da Kant in poi inteso come coscienza e spesso identificato con essa.
Si attua così un ribaltamento nel rapporto tra anima e coscienza, per cui la coscienza, da via di accesso alla realtà-anima, si trasforma in questa stessa realtà.Il romanticismo e l'idealismo successivi a Kant tendono a una rilegittimazione del concetto di anima, la quale non viene però più considerata in maniera isolata, ma assunta come momento dialettico di una più vasta fenomenologia dell'essere spirituale nel suo complesso. In quest'ambito, si possono allora ricordare le determinazioni paradigmaticamente contrapposte che dell'anima hanno fornito le filosofie di G.W.F. Hegel e di F.W.J. Schelling.
In Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817) l'anima è positivamente il primo momento del destarsi della coscienza, il dischiudersi dell'idealità nel seno stesso della natura. Essa è, dunque, 'spirito naturale' e, in quanto tale, oggetto dell''antropologia', che ha a che fare con lo 'spirito soggettivo' come è in sé, ovvero immediatamente, all'inizio del suo svolgimento. L'anima è, insomma, qui semplicemente il 'sonno dello spirito', il primo grado dello sviluppo dello spirito. Del tutto opposta è la concezione schellinghiana, la quale si determina a partire dal diverso significato che ha in essa il concetto di spirito cui l'anima si rapporta (Stuttgarter Privatvorlesungen, 1810). Lo svolgimento dell'essere spirituale non ha, infatti, in Schelling il valore positivo che possiede in Hegel.
Per Schelling, lo spirito, identificato in qualche modo con la volontà, è una facoltà dell'autoaffermazione, indipendente dal bene e dal male. Per questo suo coincidere con la relatività del volere, lo spirito deve essere subordinato a una facoltà umana di ordine superiore. L'attività e quindi l'arbitrio, l'irrazionale dello spirito devono lasciare il posto a qualcosa di passivo, di necessario, di ragionevole in senso forte.
Schelling riprende dalla tradizione della mistica il termine 'anima' (Seele) per designare l'apice delle facoltà umane. Mentre lo spirito è, nell'uomo, l'elemento propriamente condizionato e il surrogato della sua difettività, l'anima è invece l'incondizionato, ciò che di propriamente divino vi è nell'uomo, quindi ciò che vi è di impersonale, l''essente' vero e proprio, cui l'elemento personale deve essere sottomesso come 'non-essente'. Il passaggio nella sfera dell'anima rappresenta così il superamento dei condizionamenti individualistici e personali caratteristici della vita dello spirito e la ricongiunzione dell'uomo con l'Assoluto.
L'alternativa fra una concezione antropologico-naturale dell'anima e una, invece, mistico-religiosa, rappresentata, in seno all'idealismo, dall'opposizione fra Hegel e Schelling, continua nella filosofia del Novecento. Il pensiero contemporaneo, tuttavia, a prescindere dagli esiti religiosi di taluni indirizzi filosofici, ha fornito uno sviluppo incomparabilmente più vasto dell'accezione naturalistica e psichica della nozione di anima, nell'ambito della cosiddetta filosofia della vita (H. Bergson, G. Simmel, M. Scheler, L. Klages) e in quello della psicologia del profondo di C.G. Jung e degli autori da essa influenzati (G. Bachelard).
Da questo punto di vista, particolarmente significativo è il contributo fornito da Klages (1929-32). La passività dell'anima che cura e guarisce la malattia attivistica dello spirito non viene considerata da Klages e, in generale, dalle filosofie della vita come l'impersonalità di una sapienza ultraumana, bensì come quella dimensione cosmico-naturale che antecede nell'uomo il risveglio di ogni coscienza 'prometeica', vista allora come una catastrofe per l'essere naturale. Klages descrive la vita cosmica prespirituale come polarizzata negli estremi dell'anima (psiche) e del corpo (soma). Dovunque c'è un corpo vivente, c'è anche un'anima, e viceversa. L'anima è il senso del corpo, così come il corpo è la manifestazione dell'anima; allo stesso modo in cui il concetto si trova nella parola, così l'anima si trova nel corpo, senza che fra i due momenti vi sia un qualunque rapporto di causa ed effetto. Contro tale complesso cosmico-vitale, che domina nell'epoca dell'umanità preistorica, definita da Klages 'pelasgica', interviene successivamente una potenza extratemporale ed extraspaziale che infrange quell'armonia e annienta quei poli, privando dell'anima il corpo e l'anima del corpo. È questo ciò che Klages chiama spirito (λόγος, πνεῦμα, νοῦς). Lo spirito antivitale si costituisce nelle volontà molteplici e antagonistiche degli 'Io' e dei 'Sé', che disgregano il fondamento anonimo e comunitario della precedente vita delle anime.
L'indissolubilità anticausale del nesso fra anima e corpo, l'unità ingenua e non infranta del loro rapporto, individuata da Klages come un tratto epocale caratteristico di un'umanità arcaica, è stata invece interpretata da E. Cassirer (1923) come il dato caratteristico di ogni semplice funzione 'espressiva' delle forme simboliche (rispetto così alla loro funzione rappresentativa come alla loro funzione significativa). L'unità indisgiungibile dell'anima e del corpo è ciò che caratterizza il mondo dell''espressione', la cui peculiare prerogativa è proprio costituita dal fatto che essa non conosce la differenza fra immagine e cosa, fra segno e oggetto designato. Conformemente alla sua essenza specifica, l'espressione è 'esteriorizzazione'; e, tuttavia, con questa esteriorizzazione siamo e rimaniamo nell'interiorità.

Un archetipo della psiche di Lucio Pinkus

L'approccio empirista alla realtà, emerso con forza già nel secolo dei lumi, porta, nel corso dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, al predominio della scienza, 'demolitrice' e, al tempo stesso, sostituto della religione e della filosofia. Da tali presupposti si delinea lentamente un sapere scientifico inteso come scienza naturale dell'anima, la psicologia, in particolare la psicologia dinamica, che si costituisce in disciplina autonoma dalle sue ragioni filosofiche e dalle sollecitazioni derivanti dai progressi della fisiologia. In questo contesto, anche sotto l'influsso, non sempre esplicitato, ma comunque persistente della filosofia (il positivismo e, più tardi, il materialismo marxista), l'anima è vista dapprima come l'insieme degli stati di coscienza e poi come l'origine di tutte le attività psichiche.
La psicoanalisi, con la scoperta dell'inconscio, sembra conferire un nuovo ruolo o una nuova 'legittimazione' alla psicologia come scienza dell'anima, la quale però viene sostituita dal termine 'psiche', oppure svincolata da implicazioni di natura filosofica e religiosa. Non va dimenticato che la filosofia continua a occuparsi dell'anima, per un verso sostenendone il carattere puramente nominale, cui non corrisponde alcun contenuto scientifico attendibile, come nel materialismo scientifico e, per un altro, riconducendo la nozione di anima all'interno dei confini di un'interpretazione della realtà e a strumento di ampliamento degli orizzonti intellettuali, atteggiamento che trova in F. Nietzsche l'esponente più incisivo.
Anche se nel linguaggio corrente si tende ancora ad accomunare i termini psiche, spirito, anima, tuttavia essi, pur mantenendo una certa genericità, sono stati inscritti in un significante tipicamente moderno e laico, che riferisce il termine 'anima' all'universo fenomenologico della mente e quindi alla consapevolezza della propria interiorità, quale realtà irripetibile e fonte delle motivazioni più intimamente connesse alla soggettività.
L'originario dualismo tra anima e corpo informa anche la psicoanalisi: S. Freud, pur usando il termine tedesco Seele, letteralmente "anima", a preferenza del termine 'psiche' o 'spirito', di fatto se ne serve per distinguere e, talora, contrapporre le realtà collegabili con l'anima-psiche, anche inconscia, da quelle inerenti all'aspetto biologico, comunque relativizzato, della persona. Sul versante dei nessi, inevitabili, tra la psicologia e le neuroscienze, le ricerche di O. Sacks (1973) o di J.C. Eccles (1994) e quelle, a valenza interdisciplinare più ampia, di K.R. Popper ed Eccles (1977) tendono da un lato a superare il dualismo mente-corpo, dall'altro a offrire una qualche ipotesi sull'anima, nella sua accezione psiche-mente, distinta quindi dal cervello o dai processi che ne derivano immediatamente, prescindendo da ogni referente religioso. Questo indirizzo accentua la tendenza a ricondurre il problema dell'anima a quello della mente, e quindi al rapporto mente-corpo, o a quello della coscienza e del suo significato (Crick 1994).
Il discorso sull'anima mantiene invece una sua autonomia e una valenza propria, superando in qualche modo il dualismo corpo-anima, nella psicologia analitica di Jung, che pone una netta distinzione tra anima e psiche, costituendo l'una soltanto uno dei tanti archetipi dell'altra. Nella psicologia analitica il primo significato del termine Anima è funzionale.
La funzione animica è il processo tramite il quale determinate elaborazioni inconsce entrano nel campo della coscienza, esprimono l'interiorità e la soggettività più profonde, si pongono in relazione con la Persona, ossia con la funzione che modula l'atteggiamento cosciente con l'esterno. Pur essendo funzioni contrarie, interagiscono in un insieme che possiamo chiamare 'personalità totale'. In un secondo livello, il concetto di anima è riferito all'identità psicosessuale, che costituisce un elemento al tempo stesso collettivo e individuale. Jung chiama Anima l'aspetto inconscio del femminile nell'uomo, e Animus l'aspetto inconscio del maschile nella donna. Sebbene in ciascun individuo vi siano elementi dell'altro sesso, il loro modo di declinarsi rimane oscuro, irrazionale, talora minaccioso; dal punto di vista esperienziale l'Anima e l'Animus possono essere intuiti, vissuti, ma mai compresi appieno. In quanto archetipo, modello a priori prodotto dall'inconscio collettivo, l'Anima esprime l'immagine del femminile nella forma più generale.
Come 'modello di comportamento', l'Anima rappresenta la vita nella sua immediatezza pulsionale, nel suo essere un fenomeno non intenzionato, da cui scaturisce l'emotività spontanea; è una dinamica che esprime il bisogno dell'uomo di essere 'accolto', e che spinge al coinvolgimento, al legame istintivo con le altre persone, la comunità, il gruppo. Come 'modello di emozione', essa consiste negli impulsi inconsci dell'uomo - umori, angosce, paure, depressioni - ma anche nelle sue aspirazioni immediate e utopiche, e nella capacità di instaurare rapporti profondi. L'ultimo aspetto dell'Anima riguarda il suo livello nouminoso, cioè l'Eterno Femminino metafisico e metapsicologico, nelle sue potenzialità più ampie. È quanto troviamo nei miti religiosi (le Grandi Madri), nelle eroine delle tragedie greche e in altre espressioni in cui il femminile, ancorché personalizzato o reificato, manifesta una realtà che è, in qualche modo, indicibile, qualcosa che, a seconda del livello ideale cui è riferito, si proietta nella sfera dei valori assoluti o del mistero.




Bibliografia

da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it