Ansia, depressione, stress
Ansia
Il termine ansia è spesso assimilato a quello di angoscia perché la
distinzione terminologica è reperibile solo nelle lingue di origine
latina. In tedesco esiste infatti l’unico termine Angst e in inglese
l’unico termine anxiety. Il termine Angst è solitamente tradotto dagli
psicoanalisti con angoscia e dagli psicologi con ansia. Gli psichiatri
preferiscono parlare di ansia in riferimento ai soli aspetti psichici
di questa emozione, mentre impiegano il termine angoscia quando in
concomitanza si hanno manifestazioni somatiche talvolta particolarmente
vistose. C’è inoltre chi considera l’angoscia come uno stadio più grave
dell’ansia, e chi mantiene tra le due parole una rigorosa distinzione
perché interpreta l’ansia come una condizione fisiologica e psicologica
in sé non anormale e in alcuni casi utile per il conseguimento di un
obiettivo, e l’angoscia come l’espressione nevrotica o psicotica
dell’ansia. Dalle premesse consegue la necessità di una trattazione
congiunta dell’ansia e dell’angoscia, con l’attenzione rivolta a
precisarne le varianti negli ambiti dove sono particolarmente marcate.
Filosofia
Angoscia è una parola la cui tradizione filosofica si può far risalire
a Søren Kierkegaard, il quale l’ha impiegata per designare la
condizione dell’uomo nel mondo. A differenza della paura che è un
indispensabile meccanismo di difesa che scatta in presenza di un
pericolo determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso e
di determinato, ma, secondo il parere di Kierkegaard, designa quello
stato emotivo dell’esistenza umana che non è una realtà, ma una
possibilità, nel senso che l’uomo diventa ciò che è in base alle scelte
che compie e alle possibilità che realizza. Ovviamente è di ogni
possibilità tanto la possibilità-che-sì quanto la possibilità-che-no,
per cui l’uomo è sempre esposto alla nullità possibile di ciò che è
possibile, quindi alla minaccia del nulla.
Se nel possibile tutto è possibile, come peraltro scrive Kierkegaard,
essendo l’esistenza umana aperta al futuro, l’angoscia è strettamente
connessa all’avvenire, che è poi quell’orizzonte temporale in cui
l’esistenza si realizza: «Per la libertà, il possibile è l’avvenire,
per il tempo l’avvenire è il possibile. Così all’uno come all’altro,
nella vita individuale, corrisponde l’angoscia» (Begrebet Angest, 1844;
trad. it. Il concetto dell’angoscia, 1965, p. 113). Il passato può
angosciare in quanto si ripresenta come futuro, cioè come una
possibilità di ripetizione. Una colpa passata, per es., genera angoscia
se non è veramente passata, perché in questo caso genererebbe soltanto
pentimento. L’angoscia è legata a ciò che è ma può anche non essere, al
nulla connesso a ogni possibilità, ma siccome l’esistenza è
possibilità, l’angoscia è il tarlo del nulla nel cuore dell’esistenza.
Nella filosofia contemporanea il tema dell’angoscia è stato ripreso da
Martin Heidegger in questi termini: «Col termine angoscia (Angst) non
intendiamo quell’ansietà (Ängstlichkeit) assai frequente che in fondo
fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente.
L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura
sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel
determinato riguardo ci minaccia. La paura di... è sempre anche paura
per qualcosa di determinato. [...] Nell’angoscia, noi diciamo, ‘uno è
spaesato’. Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire
quell’‘uno’? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato,
perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una
sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si
dileguano, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si
rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che
nell’angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel
dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo ‘nessuno’.
L’angoscia rivela il niente. […] Che l’angoscia sveli il niente, l’uomo
stesso lo attesta non appena l’angoscia se n’è andata. Nella luminosità
dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di
cui e per cui ci angosciavamo non era ‘propriamente’ niente. In effetti
il niente stesso, in quanto tale, era presente» (Was ist Metaphysik?,
1929; trad. it. in Segnavia, 1987, pp. 67-68).
Karl Jaspers distingue una ‘duplice angoscia’: quella dell’esserci
(Dasein) e quella dell’esistenza (Existenz). La prima è l’angoscia
dell’uomo che non può nascondersi che ad attenderlo al termine della
vita c’è la morte, di fronte alla quale sono possibili due
atteggiamenti: o la disperazione o la rimozione con conseguente
banalizzazione della vita; la seconda è quella dell’uomo che si è reso
conto che la sua esistenza è un’apertura al senso che ha come sua
ultima espressione l’implosione di ogni senso in occasione della morte.
Rispetto alla prima forma di angoscia «dove la vita sembra perdersi
angosciosamente nel vuoto», nella seconda forma «la morte esistenziale,
di fronte alla morte biologica, finisce col portare alla più completa
disperazione, per cui sembra che non sia possibile altra vita se non
quella che si snoda tra l’oblio e l’illusione di un vuoto non-senso»
(Philosophie, 1933; trad. it. 1978, pp. 702-03).
Psicoanalisi
Il concetto di angoscia è fondamentale nella teoria psicoanalitica di
Sigmund Freud, che ne fornisce una spiegazione psicogena rispetto alle
teorie somatogene della precedente psichiatria che attribuiva
l’angoscia al cattivo funzionamento del sistema neurovegetativo. Due
sono le date significative per l’elaborazione di questo concetto: il
1895 anno in cui Freud distingue la nevrosi d’angoscia dalla
nevrastenia da un lato e dall’isteria dall’altro, e il 1925 in cui
distingue l’angoscia di fronte a una situazione reale, l’angoscia
automatica e il segnale d’angoscia.
La nevrosi d’angoscia (Angstneurose) si distingue sul piano sintomatico
dalla nevrastenia, dove non si evidenziano stati di attesa ansiosa,
accessi di angoscia o suoi equivalenti somatici, mentre sul piano
eziologico va distinta dall’isteria che è una nevrosi di trans;fert,
laddove invece la nevrosi d’angoscia è una nevrosi attuale, nel senso
che non è determinata da conflitti dell’età infantile, ma da conflitti
attuali riconducibili all’accumulazione di tensione sessuale somatica.
Tale tensione, per insufficienza di elaborazione psichica, non riesce a
legarsi ad alcun contenuto rappresentativo e perciò si traduce
direttamente in sintomi somatici quali vertigini, dispnea, disturbi
cardiaci, sudori, o in sintomi fobici senza la possibilità di leggervi
un sostituto simbolico della rappresentazione rimossa.
A parere di Freud la nevrosi d’angoscia ha in comune con l’isteria «una
specie di conversione, solo che nell’isteria si tratta di eccitamento
psichico che segue una via sbagliata la quale conduce esclusivamente al
campo somatico, mentre nella nevrosi d’angoscia si tratta di tensione
fisica che è incapace di trovare uno sfogo psichico, e conseguentemente
si mantiene nel canale fisico. I due processi si combinano con enorme
frequenza» (Briefe an Wilhelm Fliess 1887-1904, 1986; trad. it. 1986,
p. 105). Incorrono frequentemente nella nevrosi d’angoscia le donne
vergini, le donne astinenti, le donne sottoposte a coito interrotto o
riservato, e le donne in climaterio che non trovano appagamento
corrispondente all’accentuarsi del bisogno sessuale. Sempre secondo
Freud vanno incontro alla nevrosi d’angoscia gli uomini astinenti,
coloro che interrompono bruscamente abitudini masturbatorie, e quanti
praticano il coito interrotto o riservato.
L’angoscia reale (Realangst) è un concetto introdotto da Freud nel 1925
in riferimento all’angoscia che nasce da un pericolo esterno che agli
occhi del soggetto appare come una minaccia reale. Come tale l’angoscia
reale va distinta dalla nevrosi d’angoscia, dove la minaccia non è
esterna ma di origine pulsionale. Ciò non impedisce una contaminazione
delle due forme d’angoscia come nei casi in cui, scrive Freud: «il
pericolo è conosciuto e reale, ma l’angoscia di fronte a esso è
smisuratamente grande, più grande di come, a nostro giudizio, dovrebbe
essere» (Hemmung, Symptom und Angst, 1925; trad. it. in Opere, 10°
vol., 1967-1993, p. 311); in secondo luogo: «la pretesa pulsionale
spesso diventa un pericolo (interno) per l’unico motivo che il suo
soddisfacimento porterebbe con sé un pericolo esterno, e dunque perché
questo pericolo interno ne rappresenta uno esterno» (p. 313).
L’angoscia automatica (Automatische Angst) si manifesta, secondo Freud,
quando il soggetto non riesce a dominare e neppure a scaricare un
afflusso di eccitazioni troppo numerose o troppo intense di origine
interna o esterna. Si tratta quindi di un difetto delle difese dell’Io
che in tal modo, come dice Freud, si conferma come unica sede
dell’angoscia.
Il segnale d’angoscia (Angstsignal) è invece un dispositivo azionato
dall’Io in presenza di un pericolo allo scopo di evitare l’angoscia
automatica. Il segnale d’angoscia riproduce in modo attenuato la
reazione d’angoscia vissuta precedentemente in una situazione
traumatica consentendo di mettere in azione le opportune misure di
difesa. A questo proposito, scrive Freud: «Quando l’individuo entra in
una nuova situazione di pericolo, può facilmente diventare inopportuno
per lui rispondere con uno stato d’angoscia (che è la reazione a un
pericolo più antico) anziché trovare la reazione adeguata al pericolo
presente. La rispondenza allo scopo ricompare tuttavia quando la
situazione di pericolo viene riconosciuta come incombente e segnalata
mediante la crisi d’angoscia. L’angoscia può allora essere vinta
immediatamente con mezzi più appropriati. Si distinguono dunque subito
due modi in cui l’angoscia può manifestarsi: l’uno, inopportuno,
durante una nuova situazione di pericolo; l’altro, opportuno, per
segnalare e prevenire una tale situazione» (pp. 282-83).
L’isteria d’angoscia (Angsthysterie) detta anche angoscia fobica, va
tenuta distinta dalla nevrosi d’angoscia perché, a differenza di
quest’ultima che si traduce direttamente in sintomi somatici, l’isteria
d’angoscia viene sottoposta a un lavoro psichico che lega l’angoscia a
luoghi o persone verso cui si ha una sorta di fobia e ciò perché
evocano risposte aggressive o sessuali, o perché in grado di
rappresentare la punizione di un impulso vietato. La difesa
nell’isteria d’angoscia si manifesta mediante l’angoscia stessa che
consente all’Io di evitare la situazione, oppure mediante la proiezione
di un pericolo istintuale interno su un pericolo percepibile
all’esterno. Queste soluzioni sono state illustrate da Freud in Il
piccolo Hans (Analyse der Phobie eines fünfjäherigen Knaben, 1908;
trad. it. in Opere, 5° vol., 1967-1983) e in L’uomo dei lupi (Aus der
Geschichte einer infantilen Neurose, 1914; trad. it. in Opere, 7° vol.,
1967-1983).
L’angoscia di castrazione (Kastrationsangst) è invece centrata sul
fantasma della castrazione che nel maschio è avvertita come una
minaccia per il suo desiderio di possedere la madre, mentre nella
bambina è sentita come una menomazione che essa cerca di negare,
compensare o riparare. Detta angoscia, nella teoria freudiana, segna la
fine del complesso edipico.
Altre forme d’angoscia sono state evidenziate dagli sviluppi successivi
della psicoanalisi in base ai rispettivi impianti teorici di
riferimento. Così Otto Rank parla di angoscia di separazione come
ripresa dell’esperienza traumatica della nascita. Questo concetto è
recuperato da Michael Balint nell’accezione di angoscia primaria che si
manifesta quando la libido investita sulla madre, restando inutilizzata
per l’assenza di questa, si converte in angoscia. Tale è, per es.,
l’angoscia che il bambino prova quando è al buio, quando è solo, quando
è in presenza di volti sconosciuti invece di quello noto e desiderato
della madre.
L’angoscia primaria non va confusa con l’angoscia di base di cui parla
Karen Horney nell’ambito della psicologia interpersonale, dove il
sentimento di solitudine e di impotenza, avvertito nei confronti di un
mondo potenzialmente ostile, è ricondotto al rapporto non gratificante
del bambino con i suoi genitori. Seguendo la sua ipotesi che, rispetto
a Freud, anticipa l’epoca della conflittualità psichica rintracciandola
nel periodo preedipico, Melanie Klein ha messo in relazione l’angoscia
depressiva dove la sensazione «che siano distrutti gli oggetti buoni, e
l’Io con loro, o che essi siano in uno stato di disintegrazione, viene
collegata con gli sforzi disperati e continui di salvare questi oggetti
buoni sia interni sia esterni» (A contribution to the psychogenesis of
manic-depressive states, 1935; trad. it. in Scritti 1921-1958, 1978, p.
304), con l’angoscia persecutoria relativa alle minacce che il bambino
sente incombenti. A questo proposito, scrive la Klein: «Ritengo che
questa distinzione sia di grande valore tanto sul piano teorico quanto
su quello pratico. Si tenga dunque presente che l’angoscia persecutoria
attiene prevalentemente all’annientamento dell’Io e che l’angoscia
depressiva attiene prevalentemente al male inferto dagli impulsi
distruttivi del soggetto ai suoi oggetti d’amore interni ed esterni»
(On the theory of anxiety and guilt, 1948; trad. it. in Scritti
1921-1958, 1978, pp. 444-45).
Psicologia analitica
A differenza di Freud, Carl Gustav Jung ritiene che non ogni forma
d’angoscia abbia una base pulsionale, perché esiste anche un’angoscia
come tentativo di evitare oppure di richiamare l’attenzione
dell’individuo su uno stato di cose indesiderabile. Ne consegue, scrive
Jung, che: «Se l’Io è effettivamente il ‘luogo dell’angoscia’, come
dice giustamente Freud, e lo è fino a quando non ha ritrovato ‘padre’ e
‘madre’, Freud è messo in scacco dalla domanda di Nicodemo: ‘Può egli
ritornare per la seconda volta nel ventre di sua madre e venir
partorito?’» (Der Gegensatz Freud und Jung, 1929; trad. it. in Opere,
4° vol., 1969-2007, p. 363). In realtà Jung non ha affrontato in
maniera adeguata i procedimenti difensivi impiegati dall’Io per
controllare l’angoscia, da un lato perché ha stabilito una perfetta
equivalenza tra Io e coscienza e questo non gli ha consentito di
prendere in considerazione le parti inconsce dell’Io che fanno i conti
con l’angoscia, dall’altro perché, a suo parere, il contenuto specifico
di un complesso ha sempre un significato personale, e quindi non si
lascia rubricare nelle classificazioni dell’angoscia ordinate da Freud.
James Hillman considera l’angoscia «la via regia per smantellare le
difese paranoiche [...] che sono tanto più forti quanto più ci si
difende dal panico istintuale» (An essay on Pan, 1972; trad. it. 1977,
p. 74). Seguendo l’etimologia che vuole il termine panico derivato da
Pan, dio del corpo, dell’istinto, della masturbazione, dello stupro e
del panico che cadenzava il ritmo della danza tragica, dove la violenza
del piacere si accompagnava all’angoscia dell’incubo, Hillman scrive
che «essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico,
significa perdita dell’istinto, perdita della connessione con Pan» (p.
73). L’angoscia allora non è più solo un meccanismo psicologico di
difesa o una reazione inadeguata a una sensazione di pericolo, ma ciò
che ci mette in contatto con «le regioni dell’esistenza elementare, con
l’animalità inquietante che ci abita» (pp. 68-69).
Psichiatria
In questo ambito si è soliti usare il termine ansia per denotare uno
stato affettivo per così dire puro, e il termine angoscia per indicare
uno stato d’ansia con una componente somatica che di solito si concreta
in un senso di oppressione toracica. Naturalmente questo non è l’unico
sintomo corporeo, perché lo stato di angoscia può comportare
manifestazioni neurovegetative, biochimiche, endocrine e, infine,
comportamentali che si traducono in una accelerazione dell’attività
cardiaca, in disturbi vasomotori, in disturbi respiratori, in disturbi
della muscolatura striata e varie altre manifestazioni ancora.
Normalmente l’ansia agisce da pungolo allo scopo di risolvere un
problema o per eliminare una minaccia. Da questo punto di vista, se i
livelli d’ansia risultano troppo bassi si ha un’esecuzione subottimale,
se invece sono troppo elevati si ha un declino del rendimento. La
presenza dell’ansia provoca una risposta comportamentale che ha
l’obiettivo di ridurla ristabilendo in tal modo l’omeostasi psichica
dell’individuo. Quando è patologica l’ansia è considerata, dal punto di
vista psichiatrico, come un sintomo e non come una malattia a sé,
pertanto può essere presente in qualsiasi malattia psichiatrica o
organica, spesso come segno prodromico.
Nella depressione, per es., è presente un atteggiamento ansioso per le
convinzioni deliranti di indegnità, di colpa e di imperdonabili
peccati, mentre nella schizofrenia questo atteggiamento può presentarsi
nelle fasi acute per l’insorgenza di allucinazioni o di deliri
terrificanti. Infine, nei soggetti che presentano una forma cronica di
ansia sono frequenti altri sintomi come la difficoltà ad addormentarsi,
sonno non ristoratore e con incubi, fino all’evoluzione in malattia
psicosomatica. In ambito psichiatrico si è soliti distinguere diverse
forme di ansia.
La nevrosi d’ansia è un quadro psicopatologico di base che può recedere
spontaneamente o evolvere in quadri più strutturati come la nevrosi
fobica, l’ipocondria, la depressione, o arricchirsi di disturbi
psicosomatici. Alla base si riscontra una debolezza dei meccanismi di
difesa che non riescono a contenere l’ansia che si manifesta in uno
stato permanente di inquietudine. Il soggetto vive in una condizione
penosa di incertezza, di dipendenza dagli altri, dominato da un bisogno
continuo di rassicurazioni con tratti di prepotenza dovuti agli aspetti
immaturi della sua personalità. Nella storia di queste persone emergono
situazioni infantili di abbandono, mancanza d’amore che hanno impedito
una soddisfacente maturazione della personalità. L’evolversi della
nevrosi d’ansia dipende frequentemente da fattori esterni il cui
carattere favorevole o sfavorevole ne condiziona decorso e gravità.
L’ansia d’attesa si avverte nell’imminenza di un’azione come il
parlare, lo scrivere, il dormire, il doversi presentare ad altre
persone, il prepararsi a un incontro sessuale. Victor Emil Frankl, che
si è occupato in modo particolare di questo tipo d’ansia, ha scritto
che «l’ansia realizza ciò che teme. Si potrebbe dire con un aforisma
che mentre il desiderio è il padre di un certo pensiero, la paura è la
madre dell’evento malattia. Spesso la nevrosi insorge nel momento in
cui l’ansia da attesa pervade la malattia» (Theorie und Therapie der
Neurosen, 1956; trad. it. 1978, p. 125). Dal punto di vista terapeutico
l’ansia d’attesa si riduce, secondo Frankl, o vietando l’azione
ansiogena, o invitando il paziente a immaginare proprio le situazioni
che maggiormente teme e, sopprimendo l’obbligo di fare certe specifiche
cose, creare le premesse perché possano essere eseguite in modo del
tutto volontario e senza ansia.
L’ansia da situazione è un’ansia fobica che la psicoanalisi rubrica tra
le forme dell’isteria d’angoscia, e la psichiatria tra le forme
ossessive. Alla base delle ansie da situazione, come la fobia di essere
osservati, di essere brutti, di emanare un cattivo odore, ci sono
meccanismi di difesa contro impulsi esibizionistici, per cui ci si
punisce fobicamente del desiderio di mostrare il proprio eccitamento
sessuale. A sua volta l’esibizionismo è un mezzo di compensazione di
complessi di inferiorità più profondi, e la nevrosi insorge quando
falliscono i tentativi di compenso.
L’ansia fluttuante è uno stato di tensione apprensiva e di inquietudine
che nasce dalla sensazione di non essere all’altezza dei propri compiti
oppure dei ruoli che si devono assumere nella complessità con cui le
società si vanno via via evolvendo, rendendo meno disponibili risposte
comportamentali semplici ed efficaci come potevano essere reperite
nelle società più semplici del passato. In una società complessa, dove
il controllo delle variabili crea una serie di sottosistemi al cui
interno si accrescono e si precisano le leggi di selezione, si
richiedono agli individui una maggior mobilità e una maggior
informazione per selezionare gli ambiti in cui potersi inserire senza
andare incontro a pericolose frustrazioni. Tutto ciò crea negli
individui quell’ansia fluttuante rispetto al sistema sociale dato e
alla sua complessità dove ogni singolo soggetto gioca sia la propria
identità sia la propria libertà.
Psicologia
L’interesse della psicologia per l’ansia si è sviluppato dopo quello
della psicoanalisi e ne resta per la gran parte dipendente. La
differenza più significativa riguarda il metodo: se la psicoanalisi
guarda all’ansia in una prospettiva esplicativa, la psicologia la
guarda da un punto di vista descrittivo, e la definisce in termini
operativi. Con un condizionamento progressivo causato da stimoli si
osservano e si misurano le reazioni d’ansia, nonché l’ampiezza e
l’intensità. Attraverso queste misurazioni John Broadus Watson è giunto
alla conclusione che la differenza tra paura e ansia, frequentemente
ribadita sul piano filosofico e psicoanalitico, non ha riscontro su
base sperimentale dove le concomitanti fisiologiche e i fenomeni
generali di reazione simpatica, come l’accresciuta frequenza del
respiro e del battito del polso, l’aumentata pressione sanguigna, la
sudorazione delle mani, la dilatazione delle pupille e la secchezza
della bocca, sono pressoché identiche.
Questo non rilevamento della differenza dipende evidentemente dal
metodo sperimentale adottato che, rivelandosi idoneo a misurare fatti,
non è in grado di cogliere una differenza che si colloca sul piano dei
significati. Tale limite della metodologia psicologica comportamentista
è stato ben evidenziato da Jean-Paul Sartre secondo il quale: «La
psicologia, intesa come scienza di certi fatti umani, non può fungere
da punto di partenza, perché i fatti psichici che incontriamo non sono
mai primi. Essi sono, nella loro struttura essenziale, reazioni
dell’uomo al mondo, presuppongono dunque l’uomo e il mondo e non
possono acquisire il loro vero senso se in via preliminare non sono
state esplicate queste due nozioni. [...] Per esempio le modificazioni
fisiologiche che corrispondono alla collera non differiscono che per
l’intensità da quelle che corrispondono alla gioia (ritmo respiratorio
un po’ accelerato, leggero aumento del tono muscolare, accrescimento
degli scambi biochimici, della pressione arteriosa, ecc.), e tuttavia
la collera non è una gioia più intensa, è ben altro» (Esquisse d’une
théorie des émotions, 1939; trad. it. 1962, pp. 113 e 121).
È merito della psicologia italiana, che dispone nella sua lingua di
entrambe le parole ansia e angoscia, l’aver accentuato la differenza
non solo in termini quantitativi, per cui l’angoscia sarebbe
un’accentuazione dell’ansia, ma in termini qualitativi.
È proprio in relazione a questo motivo che Leonardo Ancona può dire che
«L’angoscia si appropria a un processo psichico sostanzialmente diverso
da quello dell’ansia. Infatti l’angoscia corrisponde alla situazione di
trauma, cioè a un afflusso di eccitazioni non controllabili perché
troppo grandi nell’unità di tempo. [...] L’ansia corrisponde invece a
un processo di adattamento di fronte alla minaccia di un pericolo
realistico; questo processo è una funzione dell’Io che se ne serve come
di un segnale, dopo averla prodotta, per evitare di venire sommerso
dall’afflusso traumatico delle eccitazioni. In questo caso l’Io del
soggetto è attivo, in quanto produce l’affetto e se ne serve per
trovare adeguati dispositivi di difesa, la carica pulsionale viene
strutturalizzata e riprodotta senza base economica, cioè senza
attuazione di scarica. La distinzione fra i due processi va mantenuta,
interpretando la loro unificazione come l’aspetto di una cultura che
presenta, di fronte a questa tematica, minore sensibilità per un
probabile atteggiamento difensivo al riguardo. I processi a cui ci si
riferisce sono in realtà distinti dal punto di vista economico,
dinamico, strutturale, nonché da quello genetico. Trascurare questa
distinzione produce quindi contraddittorietà e confusione» (L’aspetto
dinamico della motivazione, il conflitto psichico e i meccanismi di
difesa, in Nuove questioni di psicologia, 1° vol., 1972, p. 918).
Depressione
La depressione è un’alterazione del tono dell’umore che evolve verso
forme di tristezza profonda con riduzione dell’autostima e con il
bisogno di autopunizione. Quando l’intensità della depressione supera
certi limiti o si presenta in circostanze che non la giustificano, il
disturbo diventa di competenza psichiatrica, dove si distingue una
depressione endogena che, come vuole l’aggettivo, nasce ‘dal di dentro’
senza rinviare a cause esterne, e una depressione reattiva che è
patologica solo quando la reazione ad avvenimenti luttuosi oppure
tristi appare sproporzionata.
Nosologia
Come modificazione del tono dell’umore (in greco thymós), la
depressione è un disturbo distimico che ha nell’euforia che, quando è
spiccata, assume le forme della mania, il suo contrario. Depressione e
mania possono presentarsi in fasi o cicli di settimane intervallati da
periodi di benessere e allora si parla, come vuole la classificazione
di Emil Kraepelin, di ciclotimia. L’equilibrio tra depressione ed
euforia è tra i più delicati degli equilibri psichici.
Regolato dai centri nervosi situati nella base del cervello, tale
equilibrio è compromesso dalle stimolazioni più varie che vanno dai
fattori fisici, chimici, climatici, alle esperienze di vita, alla
qualità dell’educazione che si è ricevuta, ai fattori ereditari, ai
ritmi biologici giornalieri. Distinguere tra fattori ereditari e
fattori ambientali è pressoché impossibile, perché genitori
tendenzialmente depressi sottopongono i loro figli a un clima familiare
triste o a un’educazione rigida e colpevolizzante che facilita la
futura depressione.
Ogni individuo apprende da sé i modi per tamponare i propri squilibri
umorali, soprattutto quelli a sfondo depressivo, anche perché la
convenzione sociale dà a vedere di preferire e di meglio integrare i
soggetti con un certo grado di euforia che favorisce investimenti,
progettualità, apertura alle possibilità della vita. Questo spiega
perché le forme più frequenti di depressione fanno la loro comparsa
dopo l’età media, quando diventa più difficile sperare nella vita,
perché il futuro è già in gran parte determinato dalle scelte compiute
in precedenza. Fasi depressive attraversano la vita di tutti gli uomini
come episodi normali e comprensibili, dove il soggetto è di solito
consapevole di poterle superare da sé. Quando questa consapevolezza
vien meno o non è più controllabile, allora lo squilibrio depressivo
assume forme psichiatriche con caratteristiche che sogliono essere
descritte a seconda della tipologia dei disturbi.
I disturbi somatici e neurovegetativi comprendono l’insonnia che spesso
annuncia l’inizio di una fase depressiva, l’inappetenza con
dimagrimento rapido, la diminuzione dell’interesse sessuale fino alle
disfunzioni epatobiliari che hanno ispirato storicamente l’etimologia
della melanconia (bile nera).
I disturbi dell’affettività sono caratterizzati dalla presenza di
sentimenti improntati a una tristezza profonda, monotona e cupa che
resiste alle sollecitazioni esterne. A ciò si aggiunge una progressiva
perdita di interesse per la vita, spesso accompagnata da un senso di
colpa vissuta non in vista di un’espiazione e di una salvezza, ma come
una fatalità ineluttabile. Di qui l’autoaccusa continua alla quale si
sottopone il depresso sempre percorso da sentimenti di indegnità e di
autodisprezzo.
L’abulia nel comportamento e l’inibizione del pensiero sono disturbi
che sorgono lenti e monotoni con perdita di iniziativa e di
progettualità. L’attenzione, concentrata sui temi melanconici, rende
povera l’ideazione, difficoltose le associazioni, penose le
rievocazioni e difficili le sintesi mentali.
La tendenza al suicidio e il desiderio di morte accompagnano
frequentemente la vita del depresso che, tra tutte le forme di
sofferenza psichiatrica, è senz’altro la più esposta al desiderio di
morte. Talvolta, colorandosi di un significato soggettivo ‘altruista’,
di fronte alla minaccia di un avvenire sempre più oscuro, il depresso
trascina nella sua morte anche i propri familiari per farli scampare
alla vita che egli ritiene impossibile da proseguire.
Forme cliniche
Si è soliti differenziare in tre grandi gruppi clinici le forme di depressione.
Nelle depressioni somatogene si può postulare un rapporto causale
diretto con una malattia organica o una disfunzione somatica. In questo
ambito si distinguono le depressioni organiche dovute ad
arteriosclerosi, tumori cerebrali, paralisi progressive ecc., e le
depressioni sintomatiche che si riferiscono ai quadri depressivi
postinfettivi, postoperatori, tossici e così via.
Le depressioni endogene sono le forme classiche di depressione
conosciute e descritte fin dall’antichità sotto la denominazione di
melanconia. In questo ambito si distinguono le forme depressive
periodiche a decorso monopolare, cioè con fasi solo depressive, e
depressioni cicliche con decorso bipolare che alterna alla fase
depressiva quella maniacale. Un posto a parte spetta ai quadri
depressivi in psicosi schizofreniche, dove la forma della depressione
può sovrapporsi alla sintomatologia schizofrenica o sostituirsi a essa
come forma intermedia. La depressione endogena prevede oscillazioni
durante la giornata, con risveglio precoce nel primo mattino e con il
manifestarsi di idee deliranti aventi per oggetto concetti di colpa, di
rovina, di incurabilità, o idee ipocondriache che per lo più traggono
spunto da sensazioni di oppressione e di angustia nella zona toracica.
Le depressioni psicogene trovano la loro spiegazione in motivi
psicologici riconoscibili e dimostrabili. Il caso più evidente è la
depressione reattiva a un’esperienza vissuta come perdita. Tale è il
lutto, la delusione amorosa, l’insuccesso nell’affermazione sociale, la
frustrazione delle proprie aspettative. In questi casi il criterio di
diagnosi è basato su un concetto di normalità statistica relativo al
rapporto tra causa ed effetto sproporzionato e inadeguato. La relazione
tra la reazione della personalità e i meccanismi psicodinamici che la
determinano consente di distinguere tra la reazione depressiva semplice
che abbiamo qui descritto e la reazione depressiva nevrotica dove la
motivazione non è chiaramente presente alla coscienza e si confonde con
la biografia del paziente e il suo sviluppo affettivo. La distinzione
tra depressione reattiva e depressione nevrotica, come peraltro la più
ampia distinzione tra depressione endogena e depressione psicogena, non
sono condivise da tutti gli orientamenti psichiatrici, ma sono tuttavia
mantenute e continueranno a esserlo finché non si perverrà a una
definizione più soddisfacente del concetto di ‘endogeno’.
Interpretazioni della depressione
Ve ne sono diverse che si differenziano a seconda dello schema teorico
anticipato per condurre a unità le varie manifestazioni che compongono
il quadro clinico del depresso.
La psicologia comprensiva interpreta la depressione come una
destrutturazione dell’intenzionalità. A questo proposito Karl Jaspers
scrive: «Il nucleo della depressione è formato da un’immotivata e
profonda tristezza alla quale si aggiunge un’inibizione di tutta
l’attività psichica, che oltre a essere sentita molto dolorosamente in
senso soggettivo, è anche constatabile oggettivamente. Tutte le
pulsioni istintive sono inibite, il malato non ha voglia di nulla. Da
una diminuzione dell’impulso al movimento e all’attività si giunge fino
a una completa inattività. Nessuna risoluzione, nessuna attività
possono essere intraprese. Le associazioni non sono più disponibili. Ai
malati non viene in mente più niente, si lagnano della loro memoria
completamente sconvolta, sentono la loro incapacità di rendimento, si
lamentano della loro insufficienza, dell’insensibilità e del vuoto.
Sentono la profonda afflizione come una sensazione nel petto e
nell’addome. Nella profonda tristezza il mondo appare loro come grigio
nel grigio, indifferente e sconsolante. Di ogni cosa cercano solo il
lato sfavorevole e infelice. Nel passato hanno avuto molte colpe
(autorimproveri, idee di colpevolezza), il presente offre loro solo
disgrazie (idee di inettitudine), l’avvenire appare loro terrificante
(idee di impoverimento)» (Allgemeine Psychopathologie, 1913, 19597;
trad. it. 2000, pp. 640-41).
Con Ludwig Binswanger la psichiatria fenomenologica interpreta la
depressione come una destrutturazione della temporalità a cui, come
abbiamo visto, già aveva accennato Jaspers. Per effetto di questa
destrutturazione il passato non è passato, e perciò non concede al
presente di accadere e al futuro di avvenire. La perdita di un amore,
di una carriera o del denaro, di cui i depressi si lamentano, sono solo
simboli di una perdita molto più ampia che è quella del presente e del
futuro, perché le dimensioni del passato si sono dilatate oltre ogni
accettabile misura. Scrive Binswanger: «Il linguaggio dei melanconici
fatto di ‘se’, ‘se non’, ‘se avessi’, ‘se non avessi’ rivela che il
mondo in cui il melanconico si progetta è un mondo di vuote
possibilità, perché il passato a cui il melanconico ha consegnato la
sua libertà, non ne contiene alcuna» (Melancholie und Manie, 1960;
trad. it. 1971, p. 34). In termini husserliani, cui Binswanger si rifà
nella descrizione del quadro della melanconia, la retentio, che è
l’atto intenzionale per cui si costituisce un passato, è così dominante
sulla praesentatio e sulla protentio, che il presente diventa il tempo
dell’incessante lamento (Immerweiterlarm) e il futuro si dischiude come
l’ambito di vuote intenzioni (Leer-intentionen). Con il turbamento
delle tre estasi temporali, tutto il processo della temporalizzazione
perde la sua continuità e perciò l’esperienza il suo stile. Per questo
la restituzione del denaro non modifica nell’uomo d’affari lo stato di
depressione, perché questa ha le sue radici nella destrutturazione
delle temporalità, per cui un fatto del passato è divenuto la totalità
dell’esperienza. Come tiene a sottolineare Binswanger, la vera perdita
di cui si lamenta il melanconico e di cui si autoaccusa non è tanto la
perdita del denaro, ma la perdita della possibilità di fare esperienza,
o, che è lo stesso, di non essere al mondo nella modalità umana della
trascendenza, che da un passato rinvia a quel futuro autentico che ha i
caratteri dell’evento e non del già avvenuto (pp. 38-51).
L’antipsichiatria ha messo in luce la relazione che esiste tra
depressione e risposta sociale. Si parte dalla premessa che uno dei
meccanismi fondamentali di elaborazione e quindi di superamento della
depressione consiste, come scrive Giovanni Jervis, «Nell’identificare
in altre persone e in processi sociali le cause della propria difficile
condizione, cioè nel passare dalla situazione psicologica della vittima
a quella di chi ritiene nuovamente suo diritto reagire e anche
aggredire, questo passaggio non avviene nella depressione. [...]
Infatti è specifico della situazione psicologica del depresso non tanto
il non riuscire a scorgere delle alternative, quanto piuttosto il non
riuscire a scorgere le cause (sociali) di quella situazione di vita
dolorosa o deludente che è all’origine della depressione. Chi non
riesce a scorgere nella società e nella storia il disegno più vasto in
cui si iscrive la propria condizione di vita, è portato a chiudersi in
sé stesso, e a cercare le cause del male dentro di sé. Così, il
depresso non si ritiene tanto colpevole della propria depressione,
quanto piuttosto si ritiene colpevole (in quanto individuo isolato) di
essersi costruito un’esistenza in cui non crede più» (Manuale critico
di psichiatria, 1975, p. 261).
Nella psicoanalisi Freud applica «alla melanconia ciò che abbiamo
appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che
anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto
amato. [...] Può darsi che l’oggetto non sia morto davvero, ma sia
andato perduto come oggetto d’amore. [...] Saremmo quindi inclini a
connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale
sottratta alla coscienza, a differenza del lutto in cui nulla di ciò
che riguarda la perdita è inconscio. [...] L’analogia con il lutto ci
induce a concludere che il melanconico ha subìto una perdita che
riguarda l’oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita
che riguarda il suo Io. [...] Non è difficile ricostruire questo
processo. All’inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un vincolamento
della libido a una determinata persona; poi, a causa di una reale
mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata, questa
relazione oggettuale fu gravemente turbata. L’esito non fu già quello
normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo
spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a
quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L’investimento
oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la
libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì
riportata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu
utilizzata per instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto
abbandonato. L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in
avanti poté essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto,
e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita
dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto
fra l’Io e la persona amata si era mutato in un dissidio fra l’attività
critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione» (Trauer und
Melancholie, 1915; trad. it. in Opere, 13° vol., 1967-1983, pp. 104-08).
Sempre in ambito psicoanalitico, ulteriori contributi alla comprensione
della melanconia sono stati forniti da Karl Abraham, che individuò la
psicogenesi della depressione in una grave offesa all’autostima
avvenuta nell’infanzia che ha minato la fiducia del soggetto in sé
stesso provocando una regressione allo stadio orale, caratterizzato
dalla dipendenza ambivalente dal seno. Questa ambivalenza fa sì che il
soggetto assuma verso i propri oggetti interni un atteggiamento che è a
un tempo di dipendenza e di ostilità. Nella depressione egli immagina
di averli distrutti (donde gli autorimproveri) e al tempo stesso si
sente incapace di sopravvivere senza di essi (donde la depressione).
Questa interpretazione è ripresa anche dalla Klein, per la quale il
fattore predisponente alla depressione è l’incapacità del bambino a
collocare il suo ‘oggetto buono’ e amato all’interno dell’Io. Questo
fatto è responsabile di un sentimento di ‘cattiveria’ che non riesce a
essere proiettato all’esterno e perciò resta incorporato nell’immagine
di sé.
Jung, secondo l’approccio della sua psicologia analitica, guarda alla
depressione in chiave prospettica e non esclusivamente causale.
Adottando come criterio interpretativo il modello dell’energia
psichica, Jung interpreta la depressione come contenimento di questa
energia imprigionata e incapace di liberarsi. Nello stato di
depressione occorre quindi entrare il più profondamente possibile, per
scorgere che cosa impedisce all’energia di liberarsi e che cosa
custodisce, «nel silenzio e nel vuoto che precedono il processo
creativo» (Die Psychologie der Übertragung, 1946; trad. it. in Opere,
16° vol., 1969-2007, p. 192), come processo inespresso a cui è
possibile dar corso liberando l’energia che, trattenuta, determina la
depressione.
Con la teoria cognitiva di Aaron Temkin Beck si capovolge il quadro
sintomatologico della depressione in quanto vengono considerate le
distorsioni della cognizione, il pessimismo esagerato e gli
autorimproveri non realistici come cause e non come conseguenze della
condizione depressa, che avrebbe dunque la sua spiegazione nella
distorsione della ‘triade cognitiva’ composta da aspettative negative
nei confronti dell’ambiente, un’opinione negativa di sé e aspettative
negative per il futuro. Ne consegue che dalla depressione si esce
correggendo la cognizione delle proprie esperienze e la distorsione del
concetto di sé.
La psicologia sperimentale ha interpretato con Martin Seligman e Steven
F. Maier la depressione in base al modello dell’impotenza appresa. Dopo
aver sperimentato che cani sottoposti a stimoli dolorosi, in una
situazione che non prevede scampo, non evitavano gli stimoli dolorosi
anche quando era possibile sfuggirli, avanzarono l’ipotesi che al
depresso è stato impedito di impadronirsi di tecniche adattive per
affrontare situazioni dolorose, con conseguente acquisizione di un
atteggiamento di impotenza. L’esperienza di prove ripetute, in cui
l’individuo ha finito con il verificare che i suoi sforzi non davano
alcun risultato in termini di ricompensa, ha fatto sì che questo
insieme di comportamenti appresi si sia generalizzato e interiorizzato
in un tratto della personalità.
Semiologia delle forme depressive
L’espressione depressione anaclitica è stata introdotta da René Arpad
Spitz per indicare la depressione che si manifesta in bambini separati
dalla madre per lunghi periodi di tempo dopo essere stati trattati con
amorevoli cure. Nei casi descritti, questi bambini si isolano dal mondo
esterno, dagli adulti che li circondano e da quanti tentano di
avvicinarli. I processi di sviluppo manifestano un palese rallentamento
con accentuate tendenze regressive.
La depressione anancastica indica una forma di depressione accompagnata
da tensione, angoscia, idee ossessive e paranoidi in individui la cui
personalità premorbosa era di tipo rigido e ossessivo.
La depressione ansiosa si distingue dall’ansia a sfondo depressivo,
perché mentre in quest’ultima il pessimismo è vissuto più come timore
che come certezza, e assume l’aspetto del malumore o disforia piuttosto
che quello della tristezza o distimia, nella depressione ansiosa
l’ansia ha caratteristiche più profonde e si manifesta come sensazione
angosciante di morte interiore e di perdita della propria presenza a sé
e al mondo. In questa forma il rischio di suicidio è maggiore che
nell’ansia a sfondo depressivo dove, come precisa G. Jervis che ha
introdotto questa distinzione, da curare è l’ansia e non la depressione.
La depressione ciclica è caratterizzata da episodi di depressione
alternati a episodi di euforia senza che le cause esterne sembrino
avere alcun ruolo decisivo nel cambiamento umorale.
La depressione climaterica è una forma di melanconia che accompagna la
cessazione delle mestruazioni. Non si può però dimostrare un rapporto
fisiologico semplice tra disturbi endocrini e psichici, in quanto le
alterazioni endocrine causano effetti molto diversificati a seconda
dell’età e della maturità della persona. Si interpreta questa forma
depressiva come una forma melanconica endogena che precipita in
occasione di modificazioni ormonali di fondo.
La depressione da esaurimento è un’espressione introdotta da Paul
Kielholz per designare una forma particolare di depressione reattiva
che sopravviene come conseguenza di un sovraccarico emozionale
prolungato o ripetuto. È frequente in uomini affaticati da
responsabilità che oltrepassano le loro capacità, e si manifesta con
ansia, astenia, diffidenza ed esplosioni affettive inadeguate.
La depressione da sradicamento subentra in occasione di trasferimenti o
di emigrazioni che allontanando l’individuo dai luoghi in cui è vissuto
determinando la perdita delle sue abitudini e delle relazioni sociali.
Questa forma assume anche il nome di nostalgia, termine introdotto nel
1600 per distinguere questa particolare forma depressiva.
La depressione delirante è animata da idee di colpa inespiabile, di
rovina irreparabile, di negazione corporea, di possessione e simili. In
questo ambito rientra la sindrome di Cotard, in cui il paziente è
convinto di dover vivere eternamente per poter espiare in parte le sue
colpe, oppure di essere gravato da una colpa così grande da dover
ingombrare l’universo, o infine di essere privato di qualche suo organo
o dell’intero suo corpo.
La depressione endogena insorge senza cause apparenti per cui si
suppone che ‘venga da dentro’ senza poter specificare la natura della
sua formazione. La si interpreta come un dato costituzionale.
La depressione esistenziale è un’espressione introdotta da Heinz Häfner
per indicare quella forma depressiva che non ha rapporto con precedenti
traumi psichici, ma con tutto il senso della vita, quando il soggetto
avverte che gli sfuggono il raggiungimento e la realizzazione di scopi
e valori che hanno rappresentato l’aspirazione di tutta la sua vita.
Sulla depressione esistenziale Eugenio Borgna ha scritto pagine
ineguagliabili.
La depressione involutiva può comparire nella donna tra i 40-50 anni e
nell’uomo tra i 50-60 con andamento che di solito è cronico. Si
instaura frequentemente dopo sofferenze psichiche o infermità fisiche.
Spesso mancano nei precedenti anamnestici del soggetto antecedenti
depressivi. La tonalità emotiva è caratterizzata da un profondo
pessimismo, relativo alla propria esistenza, che emerge in tutta la sua
forza quando la giovinezza è finita e la maturità o la vecchiaia ne
prendono il posto.
La depressione nevrotica è dovuta a turbe dell’umore in senso
depressivo nel corso delle nevrosi. Si distingue dalla nevrosi reattiva
perché nella depressione nevrotica la motivazione non è consaputa.
L’abbassamento della tonalità affettiva non è mai molto intenso e,
anche se denuncia sentimenti di insicurezza, il soggetto rivela, in
questa fase depressiva, una maggior aderenza alla realtà.
La depressione puerperale può verificarsi nella madre, ma anche nel
padre, subito dopo il parto. Descritta da Gregory Zilboorg in termini
psicodinamici, la depressione puerperale riattiva nella madre un senso
di perdita rispetto alla precedente condizione di gravidanza, e nel
padre la fantasia inconscia del seno perduto perché ora sarà il bambino
ad avere il seno della madre-moglie.
La depressione reattiva è una forma depressiva caratterizzata da una
reazione successiva a eventi tristi e luttuosi; come tale, entro certi
limiti, è fisiologica e per questo si differenzia dalla depressione
endogena.
La depressione stuporosa è interpretata dai più come la manifestazione
clinica in cui sfociano le altre forme di melanconia. In questo stato,
infatti, si ha un arresto psicomotorio (stupor) con rigidità del volto,
fissità dello sguardo assorto, mutismo assoluto e rifiuto del cibo.
I nuovi lineamenti della depressione nella società attuale
Sappiamo che le sofferenze dell’anima non sono patologie fisse come
quelle del corpo, perché subiscono l’influenza dell’atmosfera, del
tempo e del clima. Così a partire dagli anni Settanta del 20° sec., la
depressione è diventata la forma della sofferenza psichica per
eccellenza, liquidando d’un colpo le forme ‘nevrotiche’ che avevano
caratterizzato il Novecento, e riducendo di molto le chances della
psicoanalisi nata e cresciuta come cura della nevrosi.
La nevrosi, infatti, è un conflitto tra il desiderio che vuole
infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Come
conflitto, la nevrosi trova il suo spazio espressivo nelle società
della disciplina che si alimentano della contrapposizione tra il
permesso e il proibito, un meccanismo che i più adulti conoscono perché
regolava l’individualità fino a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta.
Poi, a partire dal Sessantotto, e via via negli anni successivi, la
contrapposizione tra il permesso e il proibito è tramontata, per far
spazio a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra il
possibile e l’impossibile.
Che significa tutto questo agli effetti della depressione e quindi
degli psicofarmaci eccitanti a cui si ricorre come rimedio? Significa
che nel rapporto tra individuo e società la misura dell’individuo
ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma
dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si
è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L’individuo non
è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la
cui infrazione genera sensi di colpa (per cui il vissuto di
colpevolezza era il nucleo centrale delle forme depressive), ma deve
fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali,
alle sue prestazioni oggettive, per poter raggiungere quei risultati a
partire dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni Settanta in poi, la depressione ha cambiato
radicalmente forma: non più il conflitto nevrotico tra norma e
trasgressione, con conseguente senso di colpa, ma, in uno scenario
sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, il nucleo
depressivo origina da un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe
fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le
attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di sé
stesso. Questo mutamento strutturale della depressione, così ben
segnalato dal sociologo francese Alain Ehrenberg, ha fatto sì che i
sintomi classici della depressione, quali la tristezza, il dolore
morale, il senso di colpa, passassero in secondo piano rispetto
all’ansia, all’insonnia, all’inibizione, in una parola alla fatica di
essere sé stessi. E questo perché in una società dove la norma non è
più fondata, come in passato, sull’obbedienza, la disciplina interiore
e il senso di colpa, ma sulla responsabilità individuale, sulla
capacità di iniziativa, sull’autonomia nelle decisioni e nell’azione,
la depressione tende a configurarsi non più come una perdita della
gioia di vivere, ma come una patologia dell’azione, e il suo asse
sintomatico si sposta dalla tristezza all’inibizione e alla perdita di
iniziativa, in un contesto sociale dove ‘realizzare iniziative’ è
assunto come criterio unico e decisivo per misurare e valutare il
valore di una persona. Di qui il ricorso agli psicofarmaci stimolanti,
quando non alla cocaina, per attutire l’ansia parossistica, oppure la
perdita più o meno estesa di iniziativa, l’inibizione all’azione, il
senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in
implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che
dalla società odierna vengono considerati essenziali per riconoscere
dignità e significanza esistenziale a ciascuno di noi.
A questo proposito già Freud, considerando le richieste che la società
esige dai singoli individui, a più riprese si chiedeva se alle volte
«non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e
magari tutto il genere umano, sono diventati ‘nevrotici’ per effetto
del loro stesso sforzo di civiltà? […] Pertanto non provo indignazione
quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi
verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco
non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo
altro che intollerabile» (Das Unbehagen der Kultur, 1929; trad. it. Il
disagio della civiltà in Opere, 10° vol., 1967-1993, pp. 629-30).
Questa intollerabilità, a parere di Freud, è dovuta all’eccesso di
regole che governano le società civili, e ciò gli consente di iscrivere
la depressione nel novero delle ‘nevrosi’, dove si registra il
conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di
colpevolezza. Oggi le norme limitative non esistono più, per cui ciò
che un tempo era proibito è sfumato nel possibile e nel consentito.
Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si presenta
più come un conflitto e quindi come una ‘nevrosi’, ma come un
fallimento nella capacità di spingere il possibile fino al limite
dell’impossibile. E quando l’orizzonte di riferimento non è più in
ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la
domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più: «Ho
il diritto di compiere questa azione?», ma «Sono in grado di compiere
questa azione?».
Quel che è saltato nella nostra attuale società è il concetto di
limite. E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che
essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione.
Tratti, questi, che entrano in collisione con l’immagine che la società
richiede a ciascuno di noi. E la coscienza di questo crudele fallimento
sul piano della responsabilità e dell’iniziativa, o anche sul piano del
mancato sfruttamento di una possibilità, amplifica immediatamente i
confini della sofferenza e dell’inadeguatezza che sono presenti in ogni
depressione e che i modelli sociali dominanti rendono ancora più
dolorose e talora insanabili. Di qui il ricorso massiccio agli
psicofarmaci tonificanti o alla cocaina.
A partire da queste premesse possiamo scorgere l’origine dell’odierna
depressione in due cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi
quarant’anni della nostra storia circa il modo di concepire l’individuo
e le possibilità della sua azione. Il primo cambiamento si è registrato
verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d’ordine
dell’intero continente giovanile era emancipazione all’insegna del
‘tutto è possibile’, per cui: la famiglia è una camera a gas, la scuola
una caserma, il lavoro e, il suo ‘rovescio’ il consumismo,
un’alienazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si
deve liberare (‘vietato vietare’). Una libertà di costumi fino allora
sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni materiali, e
nuove prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del
decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi anni Settanta,
appare come il simbolo dell’oppressione sociale e non più come una
malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è
possibile: il pazzo non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per
la mancata accettazione della sua diversità.
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto
aveva pensato in termini sociali, si impianta, per uno strano gioco di
confluenza degli opposti, la stessa logica di importazione americana,
giocata però a livello individuale, dove ancora una volta tutto è
possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di
efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto
di limite spinto all’infinito, per cui oggi ci si chiede: qual è il
limite tra un ritocco di chirurgia estetica e la trasformazione del
proprio corpo dettata dalla paura della vecchiaia, tra un’abile
gestione dei propri umori attraverso farmaci psicotropi e la
trasformazione in robot chimici o in veri e propri drogati, tra le
strategie di seduzione troppo spinte e l’abuso sessuale, tra il
riconoscimento dei diritti degli omosessuali e il diritto all’adozione,
tra il desiderio di avere figli e le tecniche artificiali per
ottenerli, tra il diritto alla salute e al prolungamento della vita e
la manipolazione genetica? E questo solo per fare degli esempi che
dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone
determinano un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi.
Come scrive Augustin Jeanneau: «La liberazione sessuale ha sostituito
la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali»
(Les risques d’une époque ou le narcissisme du dehors, 1986, p. 15).
Espressione sintomatica del cambiamento, non dissimile da quella
segnalata da Vidiadhar S. Naipaul: «Non potevo più rassegnarmi al
destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra
tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da
offrire? L’inquietudine cominciava a mangiarmi dentro» (A bend in the
river, 1979; trad. it. Alla curva del fiume, 1982, p.88).
E allora psicofarmaci, e se vogliamo anche un certo piacere: cocaina.
Tra l’odierna depressione e la dipendenza da cocaina c’è infatti un
parallelismo che approda a una sorta di complementarità. E questo
perché sia la depressione sia la tossicodipendenza, per differenti che
possano apparire, esprimono la patologia di un individuo che non è mai
sufficientemente sé stesso, mai sufficientemente colmo di identità, mai
sufficientemente attivo, perché troppo indeciso, troppo titubante,
troppo ansioso, per cui depressione e tossicodipendenza sono come il
diritto e il rovescio di una medesima patologia dell’insufficienza.
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna,
attiva la dipendenza da psicofarmaci o da cocaina per le promesse di
onnipotenza che prospettano, lasciando intravedere la possibilità di
infrangere la barriera che ci separa da quella meta agognata dove
‘tutto è possibile’, ‘tutto è permesso’. In questo modo si radicalizza
la figura dell’individuo sovrano che paga naturalmente il conto con la
schiavitù della dipendenza, che è poi il prezzo della libertà
illimitata che l’individuo si assegna.
Alimentando l’immaginario con l’illusione di poter maneggiare
illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle
droghe ‘sporche’, psicofarmaci e cocaina sopprimono i sintomi della
depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati
e, accelerando la corsa, ci rendono perfettamente conformi alle
richieste sociali.
Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, gli
psicofarmaci e la cocaina inducono il soggetto a superare sé stesso,
senza essere mai sé stesso, ma solo una risposta agli altri, alle
esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con
conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della
vita emozionale, omologazione alle norme di socializzazione richieste
dalla nostra società, a cui fanno più comodo robot automatizzati e
automi impersonali, che soggetti capaci di essere sé stessi e di
riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla
fatica di vivere.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia Friedrich
Nietzsche annunciava profeticamente «l’avvento dell’individuo sovrano,
uguale soltanto a sé stesso, riscattato dall’eticità dei costumi» (Zur
Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, 1887; trad. it. in Opere, 6°
vol., 2, 1968, p. 257). Oggi, a più di cento anni dalla morte di
Nietzsche, possiamo dire che l’emancipazione ci ha forse affrancato dai
drammi del senso di colpa e dallo spirito d’obbedienza, ma ci ha
innegabilmente condannato al parossismo della prestazione,
dell’iniziativa e dell’azione, nella più assoluta incapacità di essere
sé stessi al di là delle richieste sociali di efficienza, iniziativa,
rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite.
Stress
Una delle cause che possono scatenare ansia o depressione è lo stress.
Termine con cui si segnala una reazione emozionale intensa a una serie
di stimoli esterni che mettono in moto risposte fisiologiche e
psicologiche di natura adattiva. Se gli sforzi del soggetto falliscono
perché lo stress supera le capacità di risposta, l’individuo è
sottoposto a una vulnerabilità nei confronti della malattia psichica,
di quella somatica o di entrambe.
Il termine stress, largamente usato anche nel linguaggio corrente con
significati spesso in contrasto tra loro, è stato introdotto in
biologia da Walter B. Cannon, ma solo successivamente ebbe una
definizione univoca grazie a Hans Selye, secondo cui «lo stress è la
risposta non specifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata a
esso» (Stress without fear, 1971; trad. it. 1976, p. 12). La richiesta
comprende una gamma molto ampia di stimoli, detti agenti stressanti,
che vanno dagli stimoli fisici come il caldo e il freddo, agli sforzi
muscolari, all’attività sessuale, allo shock anafilattico, agli stimoli
emozionali, mentre la risposta biologica, che è sempre la stessa, è la
conseguenza di una reazione difensiva dell’organismo che consiste
nell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-ACTH-corteccia del
surrene, da cui si liberano in circolo i corticosteroidi.
Tale reazione difensiva e adattiva, denominata emergenza o anche
sindrome generale di adattamento, è caratterizzata da una fase di
allarme con modificazioni biochimiche ormonali, da una fase di
resistenza in cui l’organismo si organizza funzionalmente in senso
difensivo, e da una fase di esaurimento in cui avviene il crollo delle
difese e l’incapacità di adattarsi ulteriormente. Secondo Selye lo
stress non può e non deve essere evitato perché costituisce l’essenza
stessa della vita, perciò non è una condizione patologica
dell’organismo, anche se in alcune circostanze può produrre patologia,
come quando lo stimolo agisce con grande intensità e per lunghi periodi.
Ricerche successive hanno permesso di rendere più flessibile la
concezione di Selye, come nell’ipotesi di John W. Mason, secondo il
quale alla base della risposta biologica ci sarebbe, oltre alle
strutture anatomo-funzionali responsabili dell’attivazione emozionale a
livello fisiologico, l’apparato psichico a cui ricondurre le reazioni
endocrine di varia natura, in molti casi personalizzate e specifiche.
L’importanza delle emozioni nelle reazioni di stress ha consentito a
Richard S. Lazarus di introdurre il concetto di stress psicologico che
differisce da quello fisiologico in quanto la risposta dipende dalla
valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Esistono
definizioni di stress in base all’intensità dello stimolo, altre
formulate in base alla qualità della risposta fisiologica, altre ancora
che descrivono lo stress in base al costo richiesto all’individuo dalla
sua modalità specifica di affrontare i problemi e rispondere
all’ambiente.
Oltre agli stress psicofisiologici determinati da un eccesso di
stimolazione, sono descritti anche gli stress psicosociali la cui
dinamica prevede: una situazione esterna caratterizzata da difficoltà
interpersonali, sociali o individuali quali solitudine, abbandono,
fallimento lavorativo, eccessive richieste di rendimento e simili; una
risposta interna che trova le sue espressioni nell’ansia, nella colpa,
nell’ira o nella depressione; e infine un comportamento esterno,
suscitato da quella risposta ora adeguata e realistica, ora inadeguata,
con liberazione di impulsi incontrollati di natura psichica o
funzionale psicosomatica. Lo stress, infatti, è universalmente
riconosciuto come elemento predisponente le sindromi psicosomatiche.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it