Ansia, depressione, stress



Ansia

Il termine ansia è spesso assimilato a quello di angoscia perché la distinzione terminologica è reperibile solo nelle lingue di origine latina. In tedesco esiste infatti l’unico termine Angst e in inglese l’unico termine anxiety. Il termine Angst è solitamente tradotto dagli psicoanalisti con angoscia e dagli psicologi con ansia. Gli psichiatri preferiscono parlare di ansia in riferimento ai soli aspetti psichici di questa emozione, mentre impiegano il termine angoscia quando in concomitanza si hanno manifestazioni somatiche talvolta particolarmente vistose. C’è inoltre chi considera l’angoscia come uno stadio più grave dell’ansia, e chi mantiene tra le due parole una rigorosa distinzione perché interpreta l’ansia come una condizione fisiologica e psicologica in sé non anormale e in alcuni casi utile per il conseguimento di un obiettivo, e l’angoscia come l’espressione nevrotica o psicotica dell’ansia. Dalle premesse consegue la necessità di una trattazione congiunta dell’ansia e dell’angoscia, con l’attenzione rivolta a precisarne le varianti negli ambiti dove sono particolarmente marcate.

Filosofia

Angoscia è una parola la cui tradizione filosofica si può far risalire a Søren Kierkegaard, il quale l’ha impiegata per designare la condizione dell’uomo nel mondo. A differenza della paura che è un indispensabile meccanismo di difesa che scatta in presenza di un pericolo determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso e di determinato, ma, secondo il parere di Kierkegaard, designa quello stato emotivo dell’esistenza umana che non è una realtà, ma una possibilità, nel senso che l’uomo diventa ciò che è in base alle scelte che compie e alle possibilità che realizza. Ovviamente è di ogni possibilità tanto la possibilità-che-sì quanto la possibilità-che-no, per cui l’uomo è sempre esposto alla nullità possibile di ciò che è possibile, quindi alla minaccia del nulla.

Se nel possibile tutto è possibile, come peraltro scrive Kierkegaard, essendo l’esistenza umana aperta al futuro, l’angoscia è strettamente connessa all’avvenire, che è poi quell’orizzonte temporale in cui l’esistenza si realizza: «Per la libertà, il possibile è l’avvenire, per il tempo l’avvenire è il possibile. Così all’uno come all’altro, nella vita individuale, corrisponde l’angoscia» (Begrebet Angest, 1844; trad. it. Il concetto dell’angoscia, 1965, p. 113). Il passato può angosciare in quanto si ripresenta come futuro, cioè come una possibilità di ripetizione. Una colpa passata, per es., genera angoscia se non è veramente passata, perché in questo caso genererebbe soltanto pentimento. L’angoscia è legata a ciò che è ma può anche non essere, al nulla connesso a ogni possibilità, ma siccome l’esistenza è possibilità, l’angoscia è il tarlo del nulla nel cuore dell’esistenza.

Nella filosofia contemporanea il tema dell’angoscia è stato ripreso da Martin Heidegger in questi termini: «Col termine angoscia (Angst) non intendiamo quell’ansietà (Ängstlichkeit) assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. [...] Nell’angoscia, noi diciamo, ‘uno è spaesato’. Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’‘uno’? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguano, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che nell’angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo ‘nessuno’. L’angoscia rivela il niente. […] Che l’angoscia sveli il niente, l’uomo stesso lo attesta non appena l’angoscia se n’è andata. Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di cui e per cui ci angosciavamo non era ‘propriamente’ niente. In effetti il niente stesso, in quanto tale, era presente» (Was ist Metaphysik?, 1929; trad. it. in Segnavia, 1987, pp. 67-68).

Karl Jaspers distingue una ‘duplice angoscia’: quella dell’esserci (Dasein) e quella dell’esistenza (Existenz). La prima è l’angoscia dell’uomo che non può nascondersi che ad attenderlo al termine della vita c’è la morte, di fronte alla quale sono possibili due atteggiamenti: o la disperazione o la rimozione con conseguente banalizzazione della vita; la seconda è quella dell’uomo che si è reso conto che la sua esistenza è un’apertura al senso che ha come sua ultima espressione l’implosione di ogni senso in occasione della morte. Rispetto alla prima forma di angoscia «dove la vita sembra perdersi angosciosamente nel vuoto», nella seconda forma «la morte esistenziale, di fronte alla morte biologica, finisce col portare alla più completa disperazione, per cui sembra che non sia possibile altra vita se non quella che si snoda tra l’oblio e l’illusione di un vuoto non-senso» (Philosophie, 1933; trad. it. 1978, pp. 702-03).

Psicoanalisi

Il concetto di angoscia è fondamentale nella teoria psicoanalitica di Sigmund Freud, che ne fornisce una spiegazione psicogena rispetto alle teorie somatogene della precedente psichiatria che attribuiva l’angoscia al cattivo funzionamento del sistema neurovegetativo. Due sono le date significative per l’elaborazione di questo concetto: il 1895 anno in cui Freud distingue la nevrosi d’angoscia dalla nevrastenia da un lato e dall’isteria dall’altro, e il 1925 in cui distingue l’angoscia di fronte a una situazione reale, l’angoscia automatica e il segnale d’angoscia.

La nevrosi d’angoscia (Angstneurose) si distingue sul piano sintomatico dalla nevrastenia, dove non si evidenziano stati di attesa ansiosa, accessi di angoscia o suoi equivalenti somatici, mentre sul piano eziologico va distinta dall’isteria che è una nevrosi di trans;fert, laddove invece la nevrosi d’angoscia è una nevrosi attuale, nel senso che non è determinata da conflitti dell’età infantile, ma da conflitti attuali riconducibili all’accumulazione di tensione sessuale somatica. Tale tensione, per insufficienza di elaborazione psichica, non riesce a legarsi ad alcun contenuto rappresentativo e perciò si traduce direttamente in sintomi somatici quali vertigini, dispnea, disturbi cardiaci, sudori, o in sintomi fobici senza la possibilità di leggervi un sostituto simbolico della rappresentazione rimossa.

A parere di Freud la nevrosi d’angoscia ha in comune con l’isteria «una specie di conversione, solo che nell’isteria si tratta di eccitamento psichico che segue una via sbagliata la quale conduce esclusivamente al campo somatico, mentre nella nevrosi d’angoscia si tratta di tensione fisica che è incapace di trovare uno sfogo psichico, e conseguentemente si mantiene nel canale fisico. I due processi si combinano con enorme frequenza» (Briefe an Wilhelm Fliess 1887-1904, 1986; trad. it. 1986, p. 105). Incorrono frequentemente nella nevrosi d’angoscia le donne vergini, le donne astinenti, le donne sottoposte a coito interrotto o riservato, e le donne in climaterio che non trovano appagamento corrispondente all’accentuarsi del bisogno sessuale. Sempre secondo Freud vanno incontro alla nevrosi d’angoscia gli uomini astinenti, coloro che interrompono bruscamente abitudini masturbatorie, e quanti praticano il coito interrotto o riservato.

L’angoscia reale (Realangst) è un concetto introdotto da Freud nel 1925 in riferimento all’angoscia che nasce da un pericolo esterno che agli occhi del soggetto appare come una minaccia reale. Come tale l’angoscia reale va distinta dalla nevrosi d’angoscia, dove la minaccia non è esterna ma di origine pulsionale. Ciò non impedisce una contaminazione delle due forme d’angoscia come nei casi in cui, scrive Freud: «il pericolo è conosciuto e reale, ma l’angoscia di fronte a esso è smisuratamente grande, più grande di come, a nostro giudizio, dovrebbe essere» (Hemmung, Symptom und Angst, 1925; trad. it. in Opere, 10° vol., 1967-1993, p. 311); in secondo luogo: «la pretesa pulsionale spesso diventa un pericolo (interno) per l’unico motivo che il suo soddisfacimento porterebbe con sé un pericolo esterno, e dunque perché questo pericolo interno ne rappresenta uno esterno» (p. 313).

L’angoscia automatica (Automatische Angst) si manifesta, secondo Freud, quando il soggetto non riesce a dominare e neppure a scaricare un afflusso di eccitazioni troppo numerose o troppo intense di origine interna o esterna. Si tratta quindi di un difetto delle difese dell’Io che in tal modo, come dice Freud, si conferma come unica sede dell’angoscia.

Il segnale d’angoscia (Angstsignal) è invece un dispositivo azionato dall’Io in presenza di un pericolo allo scopo di evitare l’angoscia automatica. Il segnale d’angoscia riproduce in modo attenuato la reazione d’angoscia vissuta precedentemente in una situazione traumatica consentendo di mettere in azione le opportune misure di difesa. A questo proposito, scrive Freud: «Quando l’individuo entra in una nuova situazione di pericolo, può facilmente diventare inopportuno per lui rispondere con uno stato d’angoscia (che è la reazione a un pericolo più antico) anziché trovare la reazione adeguata al pericolo presente. La rispondenza allo scopo ricompare tuttavia quando la situazione di pericolo viene riconosciuta come incombente e segnalata mediante la crisi d’angoscia. L’angoscia può allora essere vinta immediatamente con mezzi più appropriati. Si distinguono dunque subito due modi in cui l’angoscia può manifestarsi: l’uno, inopportuno, durante una nuova situazione di pericolo; l’altro, opportuno, per segnalare e prevenire una tale situazione» (pp. 282-83).

L’isteria d’angoscia (Angsthysterie) detta anche angoscia fobica, va tenuta distinta dalla nevrosi d’angoscia perché, a differenza di quest’ultima che si traduce direttamente in sintomi somatici, l’isteria d’angoscia viene sottoposta a un lavoro psichico che lega l’angoscia a luoghi o persone verso cui si ha una sorta di fobia e ciò perché evocano risposte aggressive o sessuali, o perché in grado di rappresentare la punizione di un impulso vietato. La difesa nell’isteria d’angoscia si manifesta mediante l’angoscia stessa che consente all’Io di evitare la situazione, oppure mediante la proiezione di un pericolo istintuale interno su un pericolo percepibile all’esterno. Queste soluzioni sono state illustrate da Freud in Il piccolo Hans (Analyse der Phobie eines fünfjäherigen Knaben, 1908; trad. it. in Opere, 5° vol., 1967-1983) e in L’uomo dei lupi (Aus der Geschichte einer infantilen Neurose, 1914; trad. it. in Opere, 7° vol., 1967-1983).

L’angoscia di castrazione (Kastrationsangst) è invece centrata sul fantasma della castrazione che nel maschio è avvertita come una minaccia per il suo desiderio di possedere la madre, mentre nella bambina è sentita come una menomazione che essa cerca di negare, compensare o riparare. Detta angoscia, nella teoria freudiana, segna la fine del complesso edipico.

Altre forme d’angoscia sono state evidenziate dagli sviluppi successivi della psicoanalisi in base ai rispettivi impianti teorici di riferimento. Così Otto Rank parla di angoscia di separazione come ripresa dell’esperienza traumatica della nascita. Questo concetto è recuperato da Michael Balint nell’accezione di angoscia primaria che si manifesta quando la libido investita sulla madre, restando inutilizzata per l’assenza di questa, si converte in angoscia. Tale è, per es., l’angoscia che il bambino prova quando è al buio, quando è solo, quando è in presenza di volti sconosciuti invece di quello noto e desiderato della madre.

L’angoscia primaria non va confusa con l’angoscia di base di cui parla Karen Horney nell’ambito della psicologia interpersonale, dove il sentimento di solitudine e di impotenza, avvertito nei confronti di un mondo potenzialmente ostile, è ricondotto al rapporto non gratificante del bambino con i suoi genitori. Seguendo la sua ipotesi che, rispetto a Freud, anticipa l’epoca della conflittualità psichica rintracciandola nel periodo preedipico, Melanie Klein ha messo in relazione l’angoscia depressiva dove la sensazione «che siano distrutti gli oggetti buoni, e l’Io con loro, o che essi siano in uno stato di disintegrazione, viene collegata con gli sforzi disperati e continui di salvare questi oggetti buoni sia interni sia esterni» (A contribution to the psychogenesis of manic-depressive states, 1935; trad. it. in Scritti 1921-1958, 1978, p. 304), con l’angoscia persecutoria relativa alle minacce che il bambino sente incombenti. A questo proposito, scrive la Klein: «Ritengo che questa distinzione sia di grande valore tanto sul piano teorico quanto su quello pratico. Si tenga dunque presente che l’angoscia persecutoria attiene prevalentemente all’annientamento dell’Io e che l’angoscia depressiva attiene prevalentemente al male inferto dagli impulsi distruttivi del soggetto ai suoi oggetti d’amore interni ed esterni» (On the theory of anxiety and guilt, 1948; trad. it. in Scritti 1921-1958, 1978, pp. 444-45).

Psicologia analitica

A differenza di Freud, Carl Gustav Jung ritiene che non ogni forma d’angoscia abbia una base pulsionale, perché esiste anche un’angoscia come tentativo di evitare oppure di richiamare l’attenzione dell’individuo su uno stato di cose indesiderabile. Ne consegue, scrive Jung, che: «Se l’Io è effettivamente il ‘luogo dell’angoscia’, come dice giustamente Freud, e lo è fino a quando non ha ritrovato ‘padre’ e ‘madre’, Freud è messo in scacco dalla domanda di Nicodemo: ‘Può egli ritornare per la seconda volta nel ventre di sua madre e venir partorito?’» (Der Gegensatz Freud und Jung, 1929; trad. it. in Opere, 4° vol., 1969-2007, p. 363). In realtà Jung non ha affrontato in maniera adeguata i procedimenti difensivi impiegati dall’Io per controllare l’angoscia, da un lato perché ha stabilito una perfetta equivalenza tra Io e coscienza e questo non gli ha consentito di prendere in considerazione le parti inconsce dell’Io che fanno i conti con l’angoscia, dall’altro perché, a suo parere, il contenuto specifico di un complesso ha sempre un significato personale, e quindi non si lascia rubricare nelle classificazioni dell’angoscia ordinate da Freud.

James Hillman considera l’angoscia «la via regia per smantellare le difese paranoiche [...] che sono tanto più forti quanto più ci si difende dal panico istintuale» (An essay on Pan, 1972; trad. it. 1977, p. 74). Seguendo l’etimologia che vuole il termine panico derivato da Pan, dio del corpo, dell’istinto, della masturbazione, dello stupro e del panico che cadenzava il ritmo della danza tragica, dove la violenza del piacere si accompagnava all’angoscia dell’incubo, Hillman scrive che «essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico, significa perdita dell’istinto, perdita della connessione con Pan» (p. 73). L’angoscia allora non è più solo un meccanismo psicologico di difesa o una reazione inadeguata a una sensazione di pericolo, ma ciò che ci mette in contatto con «le regioni dell’esistenza elementare, con l’animalità inquietante che ci abita» (pp. 68-69).

Psichiatria

In questo ambito si è soliti usare il termine ansia per denotare uno stato affettivo per così dire puro, e il termine angoscia per indicare uno stato d’ansia con una componente somatica che di solito si concreta in un senso di oppressione toracica. Naturalmente questo non è l’unico sintomo corporeo, perché lo stato di angoscia può comportare manifestazioni neurovegetative, biochimiche, endocrine e, infine, comportamentali che si traducono in una accelerazione dell’attività cardiaca, in disturbi vasomotori, in disturbi respiratori, in disturbi della muscolatura striata e varie altre manifestazioni ancora.

Normalmente l’ansia agisce da pungolo allo scopo di risolvere un problema o per eliminare una minaccia. Da questo punto di vista, se i livelli d’ansia risultano troppo bassi si ha un’esecuzione subottimale, se invece sono troppo elevati si ha un declino del rendimento. La presenza dell’ansia provoca una risposta comportamentale che ha l’obiettivo di ridurla ristabilendo in tal modo l’omeostasi psichica dell’individuo. Quando è patologica l’ansia è considerata, dal punto di vista psichiatrico, come un sintomo e non come una malattia a sé, pertanto può essere presente in qualsiasi malattia psichiatrica o organica, spesso come segno prodromico.

Nella depressione, per es., è presente un atteggiamento ansioso per le convinzioni deliranti di indegnità, di colpa e di imperdonabili peccati, mentre nella schizofrenia questo atteggiamento può presentarsi nelle fasi acute per l’insorgenza di allucinazioni o di deliri terrificanti. Infine, nei soggetti che presentano una forma cronica di ansia sono frequenti altri sintomi come la difficoltà ad addormentarsi, sonno non ristoratore e con incubi, fino all’evoluzione in malattia psicosomatica. In ambito psichiatrico si è soliti distinguere diverse forme di ansia.

La nevrosi d’ansia è un quadro psicopatologico di base che può recedere spontaneamente o evolvere in quadri più strutturati come la nevrosi fobica, l’ipocondria, la depressione, o arricchirsi di disturbi psicosomatici. Alla base si riscontra una debolezza dei meccanismi di difesa che non riescono a contenere l’ansia che si manifesta in uno stato permanente di inquietudine. Il soggetto vive in una condizione penosa di incertezza, di dipendenza dagli altri, dominato da un bisogno continuo di rassicurazioni con tratti di prepotenza dovuti agli aspetti immaturi della sua personalità. Nella storia di queste persone emergono situazioni infantili di abbandono, mancanza d’amore che hanno impedito una soddisfacente maturazione della personalità. L’evolversi della nevrosi d’ansia dipende frequentemente da fattori esterni il cui carattere favorevole o sfavorevole ne condiziona decorso e gravità.

L’ansia d’attesa si avverte nell’imminenza di un’azione come il parlare, lo scrivere, il dormire, il doversi presentare ad altre persone, il prepararsi a un incontro sessuale. Victor Emil Frankl, che si è occupato in modo particolare di questo tipo d’ansia, ha scritto che «l’ansia realizza ciò che teme. Si potrebbe dire con un aforisma che mentre il desiderio è il padre di un certo pensiero, la paura è la madre dell’evento malattia. Spesso la nevrosi insorge nel momento in cui l’ansia da attesa pervade la malattia» (Theorie und Therapie der Neurosen, 1956; trad. it. 1978, p. 125). Dal punto di vista terapeutico l’ansia d’attesa si riduce, secondo Frankl, o vietando l’azione ansiogena, o invitando il paziente a immaginare proprio le situazioni che maggiormente teme e, sopprimendo l’obbligo di fare certe specifiche cose, creare le premesse perché possano essere eseguite in modo del tutto volontario e senza ansia.

L’ansia da situazione è un’ansia fobica che la psicoanalisi rubrica tra le forme dell’isteria d’angoscia, e la psichiatria tra le forme ossessive. Alla base delle ansie da situazione, come la fobia di essere osservati, di essere brutti, di emanare un cattivo odore, ci sono meccanismi di difesa contro impulsi esibizionistici, per cui ci si punisce fobicamente del desiderio di mostrare il proprio eccitamento sessuale. A sua volta l’esibizionismo è un mezzo di compensazione di complessi di inferiorità più profondi, e la nevrosi insorge quando falliscono i tentativi di compenso.

L’ansia fluttuante è uno stato di tensione apprensiva e di inquietudine che nasce dalla sensazione di non essere all’altezza dei propri compiti oppure dei ruoli che si devono assumere nella complessità con cui le società si vanno via via evolvendo, rendendo meno disponibili risposte comportamentali semplici ed efficaci come potevano essere reperite nelle società più semplici del passato. In una società complessa, dove il controllo delle variabili crea una serie di sottosistemi al cui interno si accrescono e si precisano le leggi di selezione, si richiedono agli individui una maggior mobilità e una maggior informazione per selezionare gli ambiti in cui potersi inserire senza andare incontro a pericolose frustrazioni. Tutto ciò crea negli individui quell’ansia fluttuante rispetto al sistema sociale dato e alla sua complessità dove ogni singolo soggetto gioca sia la propria identità sia la propria libertà.

Psicologia

L’interesse della psicologia per l’ansia si è sviluppato dopo quello della psicoanalisi e ne resta per la gran parte dipendente. La differenza più significativa riguarda il metodo: se la psicoanalisi guarda all’ansia in una prospettiva esplicativa, la psicologia la guarda da un punto di vista descrittivo, e la definisce in termini operativi. Con un condizionamento progressivo causato da stimoli si osservano e si misurano le reazioni d’ansia, nonché l’ampiezza e l’intensità. Attraverso queste misurazioni John Broadus Watson è giunto alla conclusione che la differenza tra paura e ansia, frequentemente ribadita sul piano filosofico e psicoanalitico, non ha riscontro su base sperimentale dove le concomitanti fisiologiche e i fenomeni generali di reazione simpatica, come l’accresciuta frequenza del respiro e del battito del polso, l’aumentata pressione sanguigna, la sudorazione delle mani, la dilatazione delle pupille e la secchezza della bocca, sono pressoché identiche.

Questo non rilevamento della differenza dipende evidentemente dal metodo sperimentale adottato che, rivelandosi idoneo a misurare fatti, non è in grado di cogliere una differenza che si colloca sul piano dei significati. Tale limite della metodologia psicologica comportamentista è stato ben evidenziato da Jean-Paul Sartre secondo il quale: «La psicologia, intesa come scienza di certi fatti umani, non può fungere da punto di partenza, perché i fatti psichici che incontriamo non sono mai primi. Essi sono, nella loro struttura essenziale, reazioni dell’uomo al mondo, presuppongono dunque l’uomo e il mondo e non possono acquisire il loro vero senso se in via preliminare non sono state esplicate queste due nozioni. [...] Per esempio le modificazioni fisiologiche che corrispondono alla collera non differiscono che per l’intensità da quelle che corrispondono alla gioia (ritmo respiratorio un po’ accelerato, leggero aumento del tono muscolare, accrescimento degli scambi biochimici, della pressione arteriosa, ecc.), e tuttavia la collera non è una gioia più intensa, è ben altro» (Esquisse d’une théorie des émotions, 1939; trad. it. 1962, pp. 113 e 121).

È merito della psicologia italiana, che dispone nella sua lingua di entrambe le parole ansia e angoscia, l’aver accentuato la differenza non solo in termini quantitativi, per cui l’angoscia sarebbe un’accentuazione dell’ansia, ma in termini qualitativi.

È proprio in relazione a questo motivo che Leonardo Ancona può dire che «L’angoscia si appropria a un processo psichico sostanzialmente diverso da quello dell’ansia. Infatti l’angoscia corrisponde alla situazione di trauma, cioè a un afflusso di eccitazioni non controllabili perché troppo grandi nell’unità di tempo. [...] L’ansia corrisponde invece a un processo di adattamento di fronte alla minaccia di un pericolo realistico; questo processo è una funzione dell’Io che se ne serve come di un segnale, dopo averla prodotta, per evitare di venire sommerso dall’afflusso traumatico delle eccitazioni. In questo caso l’Io del soggetto è attivo, in quanto produce l’affetto e se ne serve per trovare adeguati dispositivi di difesa, la carica pulsionale viene strutturalizzata e riprodotta senza base economica, cioè senza attuazione di scarica. La distinzione fra i due processi va mantenuta, interpretando la loro unificazione come l’aspetto di una cultura che presenta, di fronte a questa tematica, minore sensibilità per un probabile atteggiamento difensivo al riguardo. I processi a cui ci si riferisce sono in realtà distinti dal punto di vista economico, dinamico, strutturale, nonché da quello genetico. Trascurare questa distinzione produce quindi contraddittorietà e confusione» (L’aspetto dinamico della motivazione, il conflitto psichico e i meccanismi di difesa, in Nuove questioni di psicologia, 1° vol., 1972, p. 918).

Depressione

La depressione è un’alterazione del tono dell’umore che evolve verso forme di tristezza profonda con riduzione dell’autostima e con il bisogno di autopunizione. Quando l’intensità della depressione supera certi limiti o si presenta in circostanze che non la giustificano, il disturbo diventa di competenza psichiatrica, dove si distingue una depressione endogena che, come vuole l’aggettivo, nasce ‘dal di dentro’ senza rinviare a cause esterne, e una depressione reattiva che è patologica solo quando la reazione ad avvenimenti luttuosi oppure tristi appare sproporzionata.

Nosologia

Come modificazione del tono dell’umore (in greco thymós), la depressione è un disturbo distimico che ha nell’euforia che, quando è spiccata, assume le forme della mania, il suo contrario. Depressione e mania possono presentarsi in fasi o cicli di settimane intervallati da periodi di benessere e allora si parla, come vuole la classificazione di Emil Kraepelin, di ciclotimia. L’equilibrio tra depressione ed euforia è tra i più delicati degli equilibri psichici.

Regolato dai centri nervosi situati nella base del cervello, tale equilibrio è compromesso dalle stimolazioni più varie che vanno dai fattori fisici, chimici, climatici, alle esperienze di vita, alla qualità dell’educazione che si è ricevuta, ai fattori ereditari, ai ritmi biologici giornalieri. Distinguere tra fattori ereditari e fattori ambientali è pressoché impossibile, perché genitori tendenzialmente depressi sottopongono i loro figli a un clima familiare triste o a un’educazione rigida e colpevolizzante che facilita la futura depressione.

Ogni individuo apprende da sé i modi per tamponare i propri squilibri umorali, soprattutto quelli a sfondo depressivo, anche perché la convenzione sociale dà a vedere di preferire e di meglio integrare i soggetti con un certo grado di euforia che favorisce investimenti, progettualità, apertura alle possibilità della vita. Questo spiega perché le forme più frequenti di depressione fanno la loro comparsa dopo l’età media, quando diventa più difficile sperare nella vita, perché il futuro è già in gran parte determinato dalle scelte compiute in precedenza. Fasi depressive attraversano la vita di tutti gli uomini come episodi normali e comprensibili, dove il soggetto è di solito consapevole di poterle superare da sé. Quando questa consapevolezza vien meno o non è più controllabile, allora lo squilibrio depressivo assume forme psichiatriche con caratteristiche che sogliono essere descritte a seconda della tipologia dei disturbi.

I disturbi somatici e neurovegetativi comprendono l’insonnia che spesso annuncia l’inizio di una fase depressiva, l’inappetenza con dimagrimento rapido, la diminuzione dell’interesse sessuale fino alle disfunzioni epatobiliari che hanno ispirato storicamente l’etimologia della melanconia (bile nera).

I disturbi dell’affettività sono caratterizzati dalla presenza di sentimenti improntati a una tristezza profonda, monotona e cupa che resiste alle sollecitazioni esterne. A ciò si aggiunge una progressiva perdita di interesse per la vita, spesso accompagnata da un senso di colpa vissuta non in vista di un’espiazione e di una salvezza, ma come una fatalità ineluttabile. Di qui l’autoaccusa continua alla quale si sottopone il depresso sempre percorso da sentimenti di indegnità e di autodisprezzo.

L’abulia nel comportamento e l’inibizione del pensiero sono disturbi che sorgono lenti e monotoni con perdita di iniziativa e di progettualità. L’attenzione, concentrata sui temi melanconici, rende povera l’ideazione, difficoltose le associazioni, penose le rievocazioni e difficili le sintesi mentali.

La tendenza al suicidio e il desiderio di morte accompagnano frequentemente la vita del depresso che, tra tutte le forme di sofferenza psichiatrica, è senz’altro la più esposta al desiderio di morte. Talvolta, colorandosi di un significato soggettivo ‘altruista’, di fronte alla minaccia di un avvenire sempre più oscuro, il depresso trascina nella sua morte anche i propri familiari per farli scampare alla vita che egli ritiene impossibile da proseguire.

Forme cliniche

Si è soliti differenziare in tre grandi gruppi clinici le forme di depressione.

Nelle depressioni somatogene si può postulare un rapporto causale diretto con una malattia organica o una disfunzione somatica. In questo ambito si distinguono le depressioni organiche dovute ad arteriosclerosi, tumori cerebrali, paralisi progressive ecc., e le depressioni sintomatiche che si riferiscono ai quadri depressivi postinfettivi, postoperatori, tossici e così via.

Le depressioni endogene sono le forme classiche di depressione conosciute e descritte fin dall’antichità sotto la denominazione di melanconia. In questo ambito si distinguono le forme depressive periodiche a decorso monopolare, cioè con fasi solo depressive, e depressioni cicliche con decorso bipolare che alterna alla fase depressiva quella maniacale. Un posto a parte spetta ai quadri depressivi in psicosi schizofreniche, dove la forma della depressione può sovrapporsi alla sintomatologia schizofrenica o sostituirsi a essa come forma intermedia. La depressione endogena prevede oscillazioni durante la giornata, con risveglio precoce nel primo mattino e con il manifestarsi di idee deliranti aventi per oggetto concetti di colpa, di rovina, di incurabilità, o idee ipocondriache che per lo più traggono spunto da sensazioni di oppressione e di angustia nella zona toracica.

Le depressioni psicogene trovano la loro spiegazione in motivi psicologici riconoscibili e dimostrabili. Il caso più evidente è la depressione reattiva a un’esperienza vissuta come perdita. Tale è il lutto, la delusione amorosa, l’insuccesso nell’affermazione sociale, la frustrazione delle proprie aspettative. In questi casi il criterio di diagnosi è basato su un concetto di normalità statistica relativo al rapporto tra causa ed effetto sproporzionato e inadeguato. La relazione tra la reazione della personalità e i meccanismi psicodinamici che la determinano consente di distinguere tra la reazione depressiva semplice che abbiamo qui descritto e la reazione depressiva nevrotica dove la motivazione non è chiaramente presente alla coscienza e si confonde con la biografia del paziente e il suo sviluppo affettivo. La distinzione tra depressione reattiva e depressione nevrotica, come peraltro la più ampia distinzione tra depressione endogena e depressione psicogena, non sono condivise da tutti gli orientamenti psichiatrici, ma sono tuttavia mantenute e continueranno a esserlo finché non si perverrà a una definizione più soddisfacente del concetto di ‘endogeno’.

Interpretazioni della depressione

Ve ne sono diverse che si differenziano a seconda dello schema teorico anticipato per condurre a unità le varie manifestazioni che compongono il quadro clinico del depresso.

La psicologia comprensiva interpreta la depressione come una destrutturazione dell’intenzionalità. A questo proposito Karl Jaspers scrive: «Il nucleo della depressione è formato da un’immotivata e profonda tristezza alla quale si aggiunge un’inibizione di tutta l’attività psichica, che oltre a essere sentita molto dolorosamente in senso soggettivo, è anche constatabile oggettivamente. Tutte le pulsioni istintive sono inibite, il malato non ha voglia di nulla. Da una diminuzione dell’impulso al movimento e all’attività si giunge fino a una completa inattività. Nessuna risoluzione, nessuna attività possono essere intraprese. Le associazioni non sono più disponibili. Ai malati non viene in mente più niente, si lagnano della loro memoria completamente sconvolta, sentono la loro incapacità di rendimento, si lamentano della loro insufficienza, dell’insensibilità e del vuoto. Sentono la profonda afflizione come una sensazione nel petto e nell’addome. Nella profonda tristezza il mondo appare loro come grigio nel grigio, indifferente e sconsolante. Di ogni cosa cercano solo il lato sfavorevole e infelice. Nel passato hanno avuto molte colpe (autorimproveri, idee di colpevolezza), il presente offre loro solo disgrazie (idee di inettitudine), l’avvenire appare loro terrificante (idee di impoverimento)» (Allgemeine Psychopathologie, 1913, 19597; trad. it. 2000, pp. 640-41).

Con Ludwig Binswanger la psichiatria fenomenologica interpreta la depressione come una destrutturazione della temporalità a cui, come abbiamo visto, già aveva accennato Jaspers. Per effetto di questa destrutturazione il passato non è passato, e perciò non concede al presente di accadere e al futuro di avvenire. La perdita di un amore, di una carriera o del denaro, di cui i depressi si lamentano, sono solo simboli di una perdita molto più ampia che è quella del presente e del futuro, perché le dimensioni del passato si sono dilatate oltre ogni accettabile misura. Scrive Binswanger: «Il linguaggio dei melanconici fatto di ‘se’, ‘se non’, ‘se avessi’, ‘se non avessi’ rivela che il mondo in cui il melanconico si progetta è un mondo di vuote possibilità, perché il passato a cui il melanconico ha consegnato la sua libertà, non ne contiene alcuna» (Melancholie und Manie, 1960; trad. it. 1971, p. 34). In termini husserliani, cui Binswanger si rifà nella descrizione del quadro della melanconia, la retentio, che è l’atto intenzionale per cui si costituisce un passato, è così dominante sulla praesentatio e sulla protentio, che il presente diventa il tempo dell’incessante lamento (Immerweiterlarm) e il futuro si dischiude come l’ambito di vuote intenzioni (Leer-intentionen). Con il turbamento delle tre estasi temporali, tutto il processo della temporalizzazione perde la sua continuità e perciò l’esperienza il suo stile. Per questo la restituzione del denaro non modifica nell’uomo d’affari lo stato di depressione, perché questa ha le sue radici nella destrutturazione delle temporalità, per cui un fatto del passato è divenuto la totalità dell’esperienza. Come tiene a sottolineare Binswanger, la vera perdita di cui si lamenta il melanconico e di cui si autoaccusa non è tanto la perdita del denaro, ma la perdita della possibilità di fare esperienza, o, che è lo stesso, di non essere al mondo nella modalità umana della trascendenza, che da un passato rinvia a quel futuro autentico che ha i caratteri dell’evento e non del già avvenuto (pp. 38-51).

L’antipsichiatria ha messo in luce la relazione che esiste tra depressione e risposta sociale. Si parte dalla premessa che uno dei meccanismi fondamentali di elaborazione e quindi di superamento della depressione consiste, come scrive Giovanni Jervis, «Nell’identificare in altre persone e in processi sociali le cause della propria difficile condizione, cioè nel passare dalla situazione psicologica della vittima a quella di chi ritiene nuovamente suo diritto reagire e anche aggredire, questo passaggio non avviene nella depressione. [...] Infatti è specifico della situazione psicologica del depresso non tanto il non riuscire a scorgere delle alternative, quanto piuttosto il non riuscire a scorgere le cause (sociali) di quella situazione di vita dolorosa o deludente che è all’origine della depressione. Chi non riesce a scorgere nella società e nella storia il disegno più vasto in cui si iscrive la propria condizione di vita, è portato a chiudersi in sé stesso, e a cercare le cause del male dentro di sé. Così, il depresso non si ritiene tanto colpevole della propria depressione, quanto piuttosto si ritiene colpevole (in quanto individuo isolato) di essersi costruito un’esistenza in cui non crede più» (Manuale critico di psichiatria, 1975, p. 261).

Nella psicoanalisi Freud applica «alla melanconia ciò che abbiamo appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. [...] Può darsi che l’oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d’amore. [...] Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale sottratta alla coscienza, a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio. [...] L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subìto una perdita che riguarda l’oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io. [...] Non è difficile ricostruire questo processo. All’inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un vincolamento della libido a una determinata persona; poi, a causa di una reale mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L’esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L’investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata si era mutato in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione» (Trauer und Melancholie, 1915; trad. it. in Opere, 13° vol., 1967-1983, pp. 104-08).

Sempre in ambito psicoanalitico, ulteriori contributi alla comprensione della melanconia sono stati forniti da Karl Abraham, che individuò la psicogenesi della depressione in una grave offesa all’autostima avvenuta nell’infanzia che ha minato la fiducia del soggetto in sé stesso provocando una regressione allo stadio orale, caratterizzato dalla dipendenza ambivalente dal seno. Questa ambivalenza fa sì che il soggetto assuma verso i propri oggetti interni un atteggiamento che è a un tempo di dipendenza e di ostilità. Nella depressione egli immagina di averli distrutti (donde gli autorimproveri) e al tempo stesso si sente incapace di sopravvivere senza di essi (donde la depressione). Questa interpretazione è ripresa anche dalla Klein, per la quale il fattore predisponente alla depressione è l’incapacità del bambino a collocare il suo ‘oggetto buono’ e amato all’interno dell’Io. Questo fatto è responsabile di un sentimento di ‘cattiveria’ che non riesce a essere proiettato all’esterno e perciò resta incorporato nell’immagine di sé.

Jung, secondo l’approccio della sua psicologia analitica, guarda alla depressione in chiave prospettica e non esclusivamente causale. Adottando come criterio interpretativo il modello dell’energia psichica, Jung interpreta la depressione come contenimento di questa energia imprigionata e incapace di liberarsi. Nello stato di depressione occorre quindi entrare il più profondamente possibile, per scorgere che cosa impedisce all’energia di liberarsi e che cosa custodisce, «nel silenzio e nel vuoto che precedono il processo creativo» (Die Psychologie der Übertragung, 1946; trad. it. in Opere, 16° vol., 1969-2007, p. 192), come processo inespresso a cui è possibile dar corso liberando l’energia che, trattenuta, determina la depressione.

Con la teoria cognitiva di Aaron Temkin Beck si capovolge il quadro sintomatologico della depressione in quanto vengono considerate le distorsioni della cognizione, il pessimismo esagerato e gli autorimproveri non realistici come cause e non come conseguenze della condizione depressa, che avrebbe dunque la sua spiegazione nella distorsione della ‘triade cognitiva’ composta da aspettative negative nei confronti dell’ambiente, un’opinione negativa di sé e aspettative negative per il futuro. Ne consegue che dalla depressione si esce correggendo la cognizione delle proprie esperienze e la distorsione del concetto di sé.

La psicologia sperimentale ha interpretato con Martin Seligman e Steven F. Maier la depressione in base al modello dell’impotenza appresa. Dopo aver sperimentato che cani sottoposti a stimoli dolorosi, in una situazione che non prevede scampo, non evitavano gli stimoli dolorosi anche quando era possibile sfuggirli, avanzarono l’ipotesi che al depresso è stato impedito di impadronirsi di tecniche adattive per affrontare situazioni dolorose, con conseguente acquisizione di un atteggiamento di impotenza. L’esperienza di prove ripetute, in cui l’individuo ha finito con il verificare che i suoi sforzi non davano alcun risultato in termini di ricompensa, ha fatto sì che questo insieme di comportamenti appresi si sia generalizzato e interiorizzato in un tratto della personalità.

Semiologia delle forme depressive

L’espressione depressione anaclitica è stata introdotta da René Arpad Spitz per indicare la depressione che si manifesta in bambini separati dalla madre per lunghi periodi di tempo dopo essere stati trattati con amorevoli cure. Nei casi descritti, questi bambini si isolano dal mondo esterno, dagli adulti che li circondano e da quanti tentano di avvicinarli. I processi di sviluppo manifestano un palese rallentamento con accentuate tendenze regressive.

La depressione anancastica indica una forma di depressione accompagnata da tensione, angoscia, idee ossessive e paranoidi in individui la cui personalità premorbosa era di tipo rigido e ossessivo.

La depressione ansiosa si distingue dall’ansia a sfondo depressivo, perché mentre in quest’ultima il pessimismo è vissuto più come timore che come certezza, e assume l’aspetto del malumore o disforia piuttosto che quello della tristezza o distimia, nella depressione ansiosa l’ansia ha caratteristiche più profonde e si manifesta come sensazione angosciante di morte interiore e di perdita della propria presenza a sé e al mondo. In questa forma il rischio di suicidio è maggiore che nell’ansia a sfondo depressivo dove, come precisa G. Jervis che ha introdotto questa distinzione, da curare è l’ansia e non la depressione.

La depressione ciclica è caratterizzata da episodi di depressione alternati a episodi di euforia senza che le cause esterne sembrino avere alcun ruolo decisivo nel cambiamento umorale.

La depressione climaterica è una forma di melanconia che accompagna la cessazione delle mestruazioni. Non si può però dimostrare un rapporto fisiologico semplice tra disturbi endocrini e psichici, in quanto le alterazioni endocrine causano effetti molto diversificati a seconda dell’età e della maturità della persona. Si interpreta questa forma depressiva come una forma melanconica endogena che precipita in occasione di modificazioni ormonali di fondo.

La depressione da esaurimento è un’espressione introdotta da Paul Kielholz per designare una forma particolare di depressione reattiva che sopravviene come conseguenza di un sovraccarico emozionale prolungato o ripetuto. È frequente in uomini affaticati da responsabilità che oltrepassano le loro capacità, e si manifesta con ansia, astenia, diffidenza ed esplosioni affettive inadeguate.

La depressione da sradicamento subentra in occasione di trasferimenti o di emigrazioni che allontanando l’individuo dai luoghi in cui è vissuto determinando la perdita delle sue abitudini e delle relazioni sociali. Questa forma assume anche il nome di nostalgia, termine introdotto nel 1600 per distinguere questa particolare forma depressiva.

La depressione delirante è animata da idee di colpa inespiabile, di rovina irreparabile, di negazione corporea, di possessione e simili. In questo ambito rientra la sindrome di Cotard, in cui il paziente è convinto di dover vivere eternamente per poter espiare in parte le sue colpe, oppure di essere gravato da una colpa così grande da dover ingombrare l’universo, o infine di essere privato di qualche suo organo o dell’intero suo corpo.

La depressione endogena insorge senza cause apparenti per cui si suppone che ‘venga da dentro’ senza poter specificare la natura della sua formazione. La si interpreta come un dato costituzionale.

La depressione esistenziale è un’espressione introdotta da Heinz Häfner per indicare quella forma depressiva che non ha rapporto con precedenti traumi psichici, ma con tutto il senso della vita, quando il soggetto avverte che gli sfuggono il raggiungimento e la realizzazione di scopi e valori che hanno rappresentato l’aspirazione di tutta la sua vita. Sulla depressione esistenziale Eugenio Borgna ha scritto pagine ineguagliabili.

La depressione involutiva può comparire nella donna tra i 40-50 anni e nell’uomo tra i 50-60 con andamento che di solito è cronico. Si instaura frequentemente dopo sofferenze psichiche o infermità fisiche. Spesso mancano nei precedenti anamnestici del soggetto antecedenti depressivi. La tonalità emotiva è caratterizzata da un profondo pessimismo, relativo alla propria esistenza, che emerge in tutta la sua forza quando la giovinezza è finita e la maturità o la vecchiaia ne prendono il posto.

La depressione nevrotica è dovuta a turbe dell’umore in senso depressivo nel corso delle nevrosi. Si distingue dalla nevrosi reattiva perché nella depressione nevrotica la motivazione non è consaputa. L’abbassamento della tonalità affettiva non è mai molto intenso e, anche se denuncia sentimenti di insicurezza, il soggetto rivela, in questa fase depressiva, una maggior aderenza alla realtà.

La depressione puerperale può verificarsi nella madre, ma anche nel padre, subito dopo il parto. Descritta da Gregory Zilboorg in termini psicodinamici, la depressione puerperale riattiva nella madre un senso di perdita rispetto alla precedente condizione di gravidanza, e nel padre la fantasia inconscia del seno perduto perché ora sarà il bambino ad avere il seno della madre-moglie.

La depressione reattiva è una forma depressiva caratterizzata da una reazione successiva a eventi tristi e luttuosi; come tale, entro certi limiti, è fisiologica e per questo si differenzia dalla depressione endogena.

La depressione stuporosa è interpretata dai più come la manifestazione clinica in cui sfociano le altre forme di melanconia. In questo stato, infatti, si ha un arresto psicomotorio (stupor) con rigidità del volto, fissità dello sguardo assorto, mutismo assoluto e rifiuto del cibo.

I nuovi lineamenti della depressione nella società attuale

Sappiamo che le sofferenze dell’anima non sono patologie fisse come quelle del corpo, perché subiscono l’influenza dell’atmosfera, del tempo e del clima. Così a partire dagli anni Settanta del 20° sec., la depressione è diventata la forma della sofferenza psichica per eccellenza, liquidando d’un colpo le forme ‘nevrotiche’ che avevano caratterizzato il Novecento, e riducendo di molto le chances della psicoanalisi nata e cresciuta come cura della nevrosi.

La nevrosi, infatti, è un conflitto tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Come conflitto, la nevrosi trova il suo spazio espressivo nelle società della disciplina che si alimentano della contrapposizione tra il permesso e il proibito, un meccanismo che i più adulti conoscono perché regolava l’individualità fino a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, a partire dal Sessantotto, e via via negli anni successivi, la contrapposizione tra il permesso e il proibito è tramontata, per far spazio a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra il possibile e l’impossibile.

Che significa tutto questo agli effetti della depressione e quindi degli psicofarmaci eccitanti a cui si ricorre come rimedio? Significa che nel rapporto tra individuo e società la misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L’individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa (per cui il vissuto di colpevolezza era il nucleo centrale delle forme depressive), ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, alle sue prestazioni oggettive, per poter raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.

In questo modo, dagli anni Settanta in poi, la depressione ha cambiato radicalmente forma: non più il conflitto nevrotico tra norma e trasgressione, con conseguente senso di colpa, ma, in uno scenario sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, il nucleo depressivo origina da un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di sé stesso. Questo mutamento strutturale della depressione, così ben segnalato dal sociologo francese Alain Ehrenberg, ha fatto sì che i sintomi classici della depressione, quali la tristezza, il dolore morale, il senso di colpa, passassero in secondo piano rispetto all’ansia, all’insonnia, all’inibizione, in una parola alla fatica di essere sé stessi. E questo perché in una società dove la norma non è più fondata, come in passato, sull’obbedienza, la disciplina interiore e il senso di colpa, ma sulla responsabilità individuale, sulla capacità di iniziativa, sull’autonomia nelle decisioni e nell’azione, la depressione tende a configurarsi non più come una perdita della gioia di vivere, ma come una patologia dell’azione, e il suo asse sintomatico si sposta dalla tristezza all’inibizione e alla perdita di iniziativa, in un contesto sociale dove ‘realizzare iniziative’ è assunto come criterio unico e decisivo per misurare e valutare il valore di una persona. Di qui il ricorso agli psicofarmaci stimolanti, quando non alla cocaina, per attutire l’ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l’inibizione all’azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che dalla società odierna vengono considerati essenziali per riconoscere dignità e significanza esistenziale a ciascuno di noi.

A questo proposito già Freud, considerando le richieste che la società esige dai singoli individui, a più riprese si chiedeva se alle volte «non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati ‘nevrotici’ per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? […] Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile» (Das Unbehagen der Kultur, 1929; trad. it. Il disagio della civiltà in Opere, 10° vol., 1967-1993, pp. 629-30). Questa intollerabilità, a parere di Freud, è dovuta all’eccesso di regole che governano le società civili, e ciò gli consente di iscrivere la depressione nel novero delle ‘nevrosi’, dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di colpevolezza. Oggi le norme limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è sfumato nel possibile e nel consentito.

Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si presenta più come un conflitto e quindi come una ‘nevrosi’, ma come un fallimento nella capacità di spingere il possibile fino al limite dell’impossibile. E quando l’orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più: «Ho il diritto di compiere questa azione?», ma «Sono in grado di compiere questa azione?».

Quel che è saltato nella nostra attuale società è il concetto di limite. E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti, questi, che entrano in collisione con l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi. E la coscienza di questo crudele fallimento sul piano della responsabilità e dell’iniziativa, o anche sul piano del mancato sfruttamento di una possibilità, amplifica immediatamente i confini della sofferenza e dell’inadeguatezza che sono presenti in ogni depressione e che i modelli sociali dominanti rendono ancora più dolorose e talora insanabili. Di qui il ricorso massiccio agli psicofarmaci tonificanti o alla cocaina.

A partire da queste premesse possiamo scorgere l’origine dell’odierna depressione in due cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi quarant’anni della nostra storia circa il modo di concepire l’individuo e le possibilità della sua azione. Il primo cambiamento si è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d’ordine dell’intero continente giovanile era emancipazione all’insegna del ‘tutto è possibile’, per cui: la famiglia è una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro e, il suo ‘rovescio’ il consumismo, un’alienazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare (‘vietato vietare’). Una libertà di costumi fino allora sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni materiali, e nuove prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi anni Settanta, appare come il simbolo dell’oppressione sociale e non più come una malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è possibile: il pazzo non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione della sua diversità.

Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva pensato in termini sociali, si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di importazione americana, giocata però a livello individuale, dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto all’infinito, per cui oggi ci si chiede: qual è il limite tra un ritocco di chirurgia estetica e la trasformazione del proprio corpo dettata dalla paura della vecchiaia, tra un’abile gestione dei propri umori attraverso farmaci psicotropi e la trasformazione in robot chimici o in veri e propri drogati, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l’abuso sessuale, tra il riconoscimento dei diritti degli omosessuali e il diritto all’adozione, tra il desiderio di avere figli e le tecniche artificiali per ottenerli, tra il diritto alla salute e al prolungamento della vita e la manipolazione genetica? E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone determinano un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi.

Come scrive Augustin Jeanneau: «La liberazione sessuale ha sostituito la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali» (Les risques d’une époque ou le narcissisme du dehors, 1986, p. 15). Espressione sintomatica del cambiamento, non dissimile da quella segnalata da Vidiadhar S. Naipaul: «Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire? L’inquietudine cominciava a mangiarmi dentro» (A bend in the river, 1979; trad. it. Alla curva del fiume, 1982, p.88).

E allora psicofarmaci, e se vogliamo anche un certo piacere: cocaina. Tra l’odierna depressione e la dipendenza da cocaina c’è infatti un parallelismo che approda a una sorta di complementarità. E questo perché sia la depressione sia la tossicodipendenza, per differenti che possano apparire, esprimono la patologia di un individuo che non è mai sufficientemente sé stesso, mai sufficientemente colmo di identità, mai sufficientemente attivo, perché troppo indeciso, troppo titubante, troppo ansioso, per cui depressione e tossicodipendenza sono come il diritto e il rovescio di una medesima patologia dell’insufficienza.

Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la dipendenza da psicofarmaci o da cocaina per le promesse di onnipotenza che prospettano, lasciando intravedere la possibilità di infrangere la barriera che ci separa da quella meta agognata dove ‘tutto è possibile’, ‘tutto è permesso’. In questo modo si radicalizza la figura dell’individuo sovrano che paga naturalmente il conto con la schiavitù della dipendenza, che è poi il prezzo della libertà illimitata che l’individuo si assegna.

Alimentando l’immaginario con l’illusione di poter maneggiare illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe ‘sporche’, psicofarmaci e cocaina sopprimono i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati e, accelerando la corsa, ci rendono perfettamente conformi alle richieste sociali.

Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, gli psicofarmaci e la cocaina inducono il soggetto a superare sé stesso, senza essere mai sé stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omologazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società, a cui fanno più comodo robot automatizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere sé stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di vivere.

Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia Friedrich Nietzsche annunciava profeticamente «l’avvento dell’individuo sovrano, uguale soltanto a sé stesso, riscattato dall’eticità dei costumi» (Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, 1887; trad. it. in Opere, 6° vol., 2, 1968, p. 257). Oggi, a più di cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d’obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato al parossismo della prestazione, dell’iniziativa e dell’azione, nella più assoluta incapacità di essere sé stessi al di là delle richieste sociali di efficienza, iniziativa, rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite.

Stress

Una delle cause che possono scatenare ansia o depressione è lo stress. Termine con cui si segnala una reazione emozionale intensa a una serie di stimoli esterni che mettono in moto risposte fisiologiche e psicologiche di natura adattiva. Se gli sforzi del soggetto falliscono perché lo stress supera le capacità di risposta, l’individuo è sottoposto a una vulnerabilità nei confronti della malattia psichica, di quella somatica o di entrambe.

Il termine stress, largamente usato anche nel linguaggio corrente con significati spesso in contrasto tra loro, è stato introdotto in biologia da Walter B. Cannon, ma solo successivamente ebbe una definizione univoca grazie a Hans Selye, secondo cui «lo stress è la risposta non specifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata a esso» (Stress without fear, 1971; trad. it. 1976, p. 12). La richiesta comprende una gamma molto ampia di stimoli, detti agenti stressanti, che vanno dagli stimoli fisici come il caldo e il freddo, agli sforzi muscolari, all’attività sessuale, allo shock anafilattico, agli stimoli emozionali, mentre la risposta biologica, che è sempre la stessa, è la conseguenza di una reazione difensiva dell’organismo che consiste nell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-ACTH-corteccia del surrene, da cui si liberano in circolo i corticosteroidi.

Tale reazione difensiva e adattiva, denominata emergenza o anche sindrome generale di adattamento, è caratterizzata da una fase di allarme con modificazioni biochimiche ormonali, da una fase di resistenza in cui l’organismo si organizza funzionalmente in senso difensivo, e da una fase di esaurimento in cui avviene il crollo delle difese e l’incapacità di adattarsi ulteriormente. Secondo Selye lo stress non può e non deve essere evitato perché costituisce l’essenza stessa della vita, perciò non è una condizione patologica dell’organismo, anche se in alcune circostanze può produrre patologia, come quando lo stimolo agisce con grande intensità e per lunghi periodi.

Ricerche successive hanno permesso di rendere più flessibile la concezione di Selye, come nell’ipotesi di John W. Mason, secondo il quale alla base della risposta biologica ci sarebbe, oltre alle strutture anatomo-funzionali responsabili dell’attivazione emozionale a livello fisiologico, l’apparato psichico a cui ricondurre le reazioni endocrine di varia natura, in molti casi personalizzate e specifiche. L’importanza delle emozioni nelle reazioni di stress ha consentito a Richard S. Lazarus di introdurre il concetto di stress psicologico che differisce da quello fisiologico in quanto la risposta dipende dalla valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Esistono definizioni di stress in base all’intensità dello stimolo, altre formulate in base alla qualità della risposta fisiologica, altre ancora che descrivono lo stress in base al costo richiesto all’individuo dalla sua modalità specifica di affrontare i problemi e rispondere all’ambiente.

Oltre agli stress psicofisiologici determinati da un eccesso di stimolazione, sono descritti anche gli stress psicosociali la cui dinamica prevede: una situazione esterna caratterizzata da difficoltà interpersonali, sociali o individuali quali solitudine, abbandono, fallimento lavorativo, eccessive richieste di rendimento e simili; una risposta interna che trova le sue espressioni nell’ansia, nella colpa, nell’ira o nella depressione; e infine un comportamento esterno, suscitato da quella risposta ora adeguata e realistica, ora inadeguata, con liberazione di impulsi incontrollati di natura psichica o funzionale psicosomatica. Lo stress, infatti, è universalmente riconosciuto come elemento predisponente le sindromi psicosomatiche.





Bibliografia

da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it