antropologia culturale
L'antropologia culturale
(espressione utilizzata dagli studiosi nordamericani) o sociale (come
la definiscono invece gli autori di scuola britannica) ha come oggetto
di studio la cultura (intesa come insieme di usi e costumi) delle
popolazioni, e in particolare la natura dei fenomeni culturali e il
loro concreto manifestarsi, mutevole nello spazio e nel tempo, nelle
diverse società umane; i comportamenti adottati dai gruppi umani per
far fronte alle necessità materiali e spirituali; nonché le concezioni
della realtà da essi elaborate per spiegare e giustificare la propria
posizione e funzione nel mondo. Per qualche aspetto, l'antropologia
culturale è una scienza sociale molto vicina all'etnologia, che, a
partire dagli anni Trenta di questo secolo, si è dedicata
essenzialmente alla comparazione di culture etnograficamente e
storicamente documentate.
sommario: I. L'uomo diviso: organismo e cultura. 2. Tecniche e
tradizioni del corpo. 3. La costruzione culturale del corpo. □
Bibliografia.
I. L'uomo diviso: organismo e cultura
Quando tra Ottocento e Novecento si fa strada l'idea di una scienza
antropologica distinta dall'antropologia fisica, sembra quasi che la
linea di distinzione corra tra sfere o tipi di realtà nettamente
separati: da un lato, l'antropologia fisica che studia l'uomo nella
realtà biologica e dunque nella sua corporeità; dall'altro,
l'antropologia culturale (come si era cominciato a dire negli Stati
Uniti) o l'antropologia sociale (come si preferiva dire in Gran
Bretagna), la quale invece indaga l'uomo nelle sue manifestazioni
culturali e sociali, e dunque (si potrebbe arguire) nella sua
spiritualità. Struttura biologica o naturale, da una parte, struttura
spirituale o storica, dall'altra, sembrano essere i due campi
fondamentali in cui si suddivide e si articola l'antropologia come
scienza generale.
Ad avallare una concezione del genere veniva in soccorso la cultura
filosofica tedesca della fine dell'Ottocento, secondo la quale
esistevano da un lato le Naturwissenschaften ('scienze della natura') e
dall'altro le Kulturwissenschaften ('scienze della cultura') o
Geisteswissenschaften ('scienze dello spirito'). 'Cultura' e 'spirito'
tendevano ad avvicinarsi e a presentarsi come termini sinonimi o come
oggetti in qualche modo sovrapponibili, in virtù della loro comune
opposizione alla realtà naturale. Interpretata in tal modo,
l'antropologia culturale corrispondeva a ciò che in Germania, in
Francia, in Italia si continuava a chiamare 'etnologia', ovvero lo
studio dei prodotti della spiritualità dell'uomo in condizioni di
primitività, cioè in società prive di scrittura.La distinzione tra
antropologia fisica e antropologia culturale non concerneva però
soltanto tipi di oggetti o di ambiti di indagine (natura/cultura,
oppure natura/spirito); riguardava anche i metodi impiegati:
l'antropologia fisica rientrava, infatti, nella prospettiva delle
scienze naturali con i loro metodi generalizzanti, di contro
l'antropologia culturale (similmente all'etnologia) si collocava
soprattutto tra le scienze storiche, caratterizzate da interessi per la
ricostruzione di processi e di contesti, anziché di leggi.
Sia sul piano degli oggetti, sia sul piano dei metodi prevaleva un
criterio di fondamentale e inequivocabile distinzione, come se il
discorso scientifico sulla realtà umana ('antropologia') fosse
realizzabile su due versanti opposti: quello del corpo (delle sue
strutture, dei suoi meccanismi, delle sue funzioni biologiche) e quello
dello spirito (delle sue modalità, delle sue manifestazioni, dei suoi
prodotti). La separazione metodologica, oltre a quella degli ambiti di
realtà, si configurava come una garanzia ulteriore contro i rischi di
infiltrazione e di sovrapposizione tra prospettive disciplinari
diverse. Alla base della distinzione metodologica, però, pare proprio
di avvertire una separazione che a lungo ha contraddistinto
l'antropologia espressa dal pensiero occidentale, ovvero la separazione
dell'uomo tra corpo e anima, tra organismo biologico e spirito, intesi
come due realtà del tutto diverse, organizzate in base a principi,
regole, caratteristiche opposti.In effetti, se consideriamo non
soltanto le origini delle due prospettive disciplinari, ma anche gli
sviluppi che esse hanno avuto nel Novecento, è facile constatare come
quasi mai si siano verificate connessioni, ricerche di relazioni,
intrecci tra metodi, confronti di obiettivi e di risultati. Nella
configurazione generale dell'antropologia scientifica del Novecento, è
prevalso il criterio della separazione tra i due tipi di ricerca
antropologica sulle possibilità di coordinamento, connessione o
comunicazione. È un fatto difficilmente contestabile la maggiore
vicinanza, assimilabilità e contiguità dell'antropologia culturale con
le altre scienze umane, sociali e storiche (dalla sociologia alla
psicologia, dalla storia alla critica letteraria, alla stessa
letteratura), rispetto all'antropologia fisica. Il modo di argomentare
e il tipo di analisi dell'antropologo fisico da un lato e
dell'antropologo culturale dall'altro denunciano una distanza reciproca
e un'appartenenza ad ambiti disciplinari così diversi che non si può
evitare di porsi il problema della loro separazione.
È impossibile, infatti, non chiedersi per quali motivi si siano
organizzati sull'uomo discorsi scientifici così diversi; in base a
quali ragioni siano emerse strategie scientifiche tanto lontane e
opposte; in virtù di quali principi, pretese o ambizioni entrambe le
prospettive rivendichino comunque, ognuna per proprio conto, il diritto
di essere riconosciute come antropologia.Una delle motivazioni è
l'esistenza di un''antropologia' precedente alla formazione delle due
prospettive antropologiche (antropologia fisica e antropologia
culturale), la cui caratteristica distintiva sarebbe proprio la
separazione tematica e oggettuale tra la dimensione organica (corpo) e
la dimensione culturale (spirito). Sotto questo profilo, antropologia
fisica e antropologia culturale non sarebbero altro che la
riproduzione, in termini di organizzazione scientifica (paradigmi,
metodi, tradizioni, comunità), di un'opposizione le cui radici sono
culturali e storiche, e anzi teologiche, piuttosto che scientifiche,
ossia la distinzione e separazione tra corpo e anima, a cui il pensiero
occidentale dimostra di essere fedele anche quando si propone come
discorso scientifico. In altri termini, è possibile che l'opposizione,
la separazione, la non comunicazione tra antropologia fisica e
antropologia culturale siano motivate da un'antropologia 'implicita' e
'prescientifica', di cui l'una e l'altra subiscono i condizionamenti.
Il principio basilare di questa antropologia è che corpo e anima
(spirito, cultura) non soltanto siano fatti in modo radicalmente
diverso, ma anche che obbediscano a destini separati, ovvero che quanto
avviene nell'organismo non abbia un particolare significato o una
particolare incidenza sulla cultura e viceversa.
Per illustrare questa duplicità di impostazione è particolarmente utile
considerare la teoria dei livelli, formulata da A.L. Kroeber (uno dei
maggiori esponenti dell'antropologia culturale) nella prima metà del
Novecento. Proprio all'inizio di The superorganic, un articolo
pubblicato nel 1917, egli si richiama esplicitamente alla coppia
oppositiva 'corpo' e 'anima' come a una distinzione su cui la nostra
civiltà ha riflettuto per diversi millenni, riconoscendo in tal modo
una certa analogia, o una certa continuità, con la distinzione tra
'organico' e 'culturale', su cui intende concentrarsi. È importante
prendere in esame le considerazioni svolte da Kroeber in quel suo
testo, in quanto indicative del modo in cui l'antropologia culturale
rivendica il proprio territorio disciplinare nell'ambito più vasto
dell'antropologia. "L'antropologia" egli afferma "può essere biologia"
da un lato e "può essere storia" dall'altro; inoltre "può essere un
tentativo di accertare il rapporto tra l'una e l'altra"; ciò che non
può essere, perché improponibile scientificamente, è un miscuglio
dell'una e dell'altra (Kroeber 1952, trad. it., p. 67). La differenza
tra organico e ciò che organico non è risulta evidente, secondo
Kroeber, persino ai "più arretrati selvaggi" (p. 42). La cultura, che
l'uomo acquisisce e produce, trova la sua sede precipua nello spazio
interorganico, o extraorganico, lo spazio che si determina nelle
relazioni sociali tra gli individui e che li sovrasta e li ingloba
('superorganico'). Gli eventi della cultura, i suoi processi, i suoi
prodotti hanno una scarsa relazione con il corpo e intrattengono con
l'organismo un rapporto di fondamentale estraneità. Organismo e cultura
mutano entrambi nei rispettivi processi di sviluppo; ma le modalità
dell'evoluzione organica da un lato e quelle dell'evoluzione culturale
dall'altro sono del tutto differenti: tra organico e culturale vi è,
secondo Kroeber (p. 47), una differenza non di grado, ma di genere, una
differenza qualitativa e non meramente quantitativa.
Tra i due ordini di realtà vi è un 'balzo'; e l'evoluzione culturale,
che si è innestata tardivamente sull'evoluzione organica, è dovuta a
una 'profonda alterazione' (pp. 73, 88). Beninteso, l'emergere
dell'evoluzione culturale non comporta alcuna modificazione delle leggi
del mondo organico; ciò che si determina è invece "l'aggiunta di
qualcosa di qualitativamente nuovo": non "un passo lungo un cammino, ma
un balzo su un piano diverso" (p. 89). Non solo; ma le due evoluzioni
(organica e culturale) dimostrano di operare con ritmi completamente
diversi: di fronte alla velocità di trasformazione della cultura,
l'organismo appare assai più lento e quasi statico, a tal punto che tra
organismo e cultura si determina una forbice la cui divaricazione
appare sempre più ampia. Alle complicazioni e specializzazioni della
cultura non corrispondono modificazioni altrettanto significative da
parte dell'organismo.
La distinzione tra corpo e cultura si è via via accentuata; è diventata
una sorta di 'abisso', di 'iato', di cui i due generi di antropologi
(quelli fisici e quelli culturali) occorre che prendano atto,
incamminandosi rispettivamente sulle due sponde opposte, senza vantare
alcuna illusoria pretesa di averlo varcato o di poterlo varcare tanto
facilmente (p. 92).
Nel suo scritto, Kroeber aveva illustrato assai bene le motivazioni
profonde che hanno indotto l'antropologia culturale a ritagliarsi un
dominio separato, rivendicando anch'essa - in concorrenza con gli
scienziati della sponda biologica - l'appellativo di 'antropologia'. In
effetti, per quanto criticato, l'articolo di Kroeber ha contribuito a
elaborare un paradigma scientifico (come direbbe T. Kuhn) in grado di
legittimare la totale autonomia dell'antropologia culturale rispetto
all'antropologia fisica. Ma, come lo stesso Kuhn ha posto in luce, ogni
paradigma comporta dei limiti, impone dei prezzi; e nel caso del
paradigma 'culturologico' dell'antropologia culturale, il prezzo pare
essere consistito in una sorta di marginalizzazione dell'argomento
'corpo', lasciato per buona parte agli antropologi del versante
naturalistico e biologico. Su questa divisione dell'essere umano in due
sfere o livelli, intesi come realtà separate e autonome, si è infine
stabilita una sorta di tacito accordo - condiviso, accettato, più che
stipulato - tra i cui effetti pare essere la mancata tematizzazione del
corpo da parte degli antropologi culturali nella storia della loro
disciplina.
2. Tecniche e tradizioni del corpo
Abbiamo assunto la teoria di Kroeber come espressione emblematica della
marginalità del corpo dal punto di vista dell'antropologia culturale.
Sceglieremo ora un altro momento della storia del pensiero
antropologico per dimostrare il movimento contrario, ossia la messa a
fuoco della problematica del corpo dal punto di vista delle scienze
sociali. Alla metà degli anni Trenta, in uno scritto piuttosto curioso
e solitario, M. Mauss indica come 'terra incolta', come zona di confine
'alle frontiere delle scienze', la vasta, ramificata e ignota area del
corpo e dei suoi usi. Mauss aggiunge che "è in queste zone mal
suddivise che giacciono generalmente i problemi urgenti", e che prima
ancora di indirizzarvi la ricerca occorre procedere a una definizione e
denominazione adeguata (Mauss 1950, trad. it., p. 385). I rilievi
critici di Mauss si attagliano bene alla zona d'ombra prodotta
dall'antropologia culturale in merito al corpo. Ma vediamo ora
l'impostazione che egli propone.Dopo aver constatato che sui terreni
incolti (come gli argomenti attinenti al corpo) si è soliti segnalare
la propria ignoranza con la scritta 'vari', la prima azione di Mauss
consiste nella formulazione della categoria 'tecniche del corpo', con
cui organizzare la nuova area d'indagine. Il presupposto è che "gli
uomini, nelle diverse società, si servono [...] del loro corpo" (p.
385). Il corpo si configura in primo luogo come un mezzo; anzi, "il
corpo è il primo e il più naturale strumento dell'uomo" (p. 392). Nella
prospettiva di Mauss, l'uomo è innanzi tutto un animale habilis (p.
396), dotato di abilità che gli consentono di adattarsi all'ambiente e
di garantire la propria sopravvivenza. Prima ancora di provvedere alla
costruzione di strumenti e utensili esterni all'organismo, l'uomo si
rivolge al proprio corpo utilizzandolo come uno strumento, facendone
anzi lo strumento principale e fondamentale della sua dotazione tecnica.
Considerando il corpo come un 'oggetto tecnico' e come un 'mezzo
tecnico' (p. 392), Mauss da un lato lo sottrae all'isolamento
epistemologico in cui era stato relegato e dall'altro lo inserisce tra
gli oggetti di cui le scienze sociali dovrebbero occuparsi. Nello
stesso tempo egli dilata e articola il concetto di tecnica. In questa
prospettiva, 'tecnica' non riguarda più soltanto l'apparato e le
abilità della tecnologia meccanica (tecnica litica, tecnica
metallurgica e così via), perché fra gli strumenti di cui l'uomo può
disporre e che anzi egli stesso forgia il corpo viene a occupare una
posizione assolutamente prioritaria: "prima delle tecniche basate sugli
strumenti, c'è l'insieme delle tecniche del corpo" (p. 393). La
dilatazione del concetto di tecnica non è però soltanto di ordine
quantitativo (il corpo come oggetto o strumento in aggiunta agli
utensili della tecnologia), ma anche qualitativo: il concetto di
tecnica, quale emerge dalla nozione di 'tecniche del corpo', non
comporta più soltanto un rapporto con l'ambiente esterno e un criterio
di efficacia come adeguamento o capacità di trasformazione
dell'ambiente, ma anche un riferimento esplicito all'aspetto della
'tradizione'. Secondo Mauss, tecnica è 'un atto tradizionale efficace'
(p. 392), dove se l'elemento 'efficacia' rinvia all'idea di una 'forma'
adeguata che la tecnica produce o in cui consiste, alla sua
riconoscibilità, alla sua fruibilità, l'elemento 'tradizione' richiama
invece il mondo dei 'simboli' e dei 'valori' (pp. 387, 393), dunque
alla società in cui le tecniche vengono osservate e trasmesse. È molto
probabile in effetti che la nozione di tecniche del corpo, così
strettamente legata a quella di tradizione e di società, abbia assunto
per Mauss un valore paradigmatico.
In generale, la tecnica (e non soltanto le tecniche del corpo) è
inscindibile dalla tradizione: "non esiste tecnica [...] se non c'è
tradizione" (Mauss 1950, trad. it., p. 392). Ed è l'elemento
'tradizionale' (l'incidenza delle tradizioni) ciò che distingue
nettamente l'uomo dagli altri animali e che collega le tecniche ai
particolari contesti storici e sociali, consentendone la trasmissione.
La dimensione 'efficacia', in quanto rende una tecnica generalizzabile
in vista di scopi e funzioni determinate, non è sufficiente a
distinguere l'umanità dagli altri animali; la seconda dimensione
('tradizione') è invece tipicamente umana, e non solo contribuisce a
distinguere l'uomo dagli altri esseri, ma diversifica
significativamente gli uomini tra loro.L'importanza del contributo di
Mauss all'elaborazione di un'antropologia del corpo consiste certamente
nell'abbozzo morfologico e tipologico contenuto nel suo scritto
(enumerazione e classificazione delle molteplici tecniche del corpo:
dalle tecniche del parto a quelle dell'allattamento e dello
svezzamento, dalle tecniche del sonno e del riposo a quelle del
movimento e della danza, da quelle della consumazione del cibo a quelle
dell'accoppiamento e così via); ma più ancora essa deriva dai
suggerimenti e dagli approfondimenti della dimensione 'tradizione'.
Alla base dell'antropologia del corpo di Mauss vi è una triangolazione
significativa: la nozione di 'tecnica', di 'oggetto' a cui essa si
applica e di 'tradizioni' che informano la tecnica. L'innovazione, ciò
che fa sì che dalle pagine di Mauss cominci ad affiorare
un'antropologia (culturale) del corpo, è la considerazione delle
tradizioni. Questo elemento pone la condizione per cui le tecniche del
corpo non siano solamente il camminare, il mangiare, il copulare ecc.
in quanto tali, ma il camminare, mangiare, copulare secondo certi modi
socialmente trasmessi, modelli tipici di questa o quella società, di
questo o quel gruppo sociale. L'aver impregnato la nozione di tecnica
con l'elemento tradizione è come l'aver posto una sorta di filtro tra
l'agire tecnico e i suoi obiettivi. Si tratta - potremmo dire - di uno
schema a priori che guida e incanala le reazioni tecniche; ma, lungi
dal generalizzare il comportamento tecnico, lo particolarizza: rende le
sue forme e i suoi modi peculiari di società, situazioni, contesti.
Secondo Mauss, tutte le tecniche sono caratterizzate da questa
'specificità culturale' (p. 387): le 'forme' che assumono o a cui danno
luogo risentono non soltanto del rapporto con l'oggetto e con i suoi
obiettivi funzionali, ma anche delle 'abitudini' specifiche di ogni
società. L'attività del mangiare, per es., è certamente una risposta a
bisogni naturali dell'organismo; e le caratteristiche strutturali e
funzionali di quest'ultimo impongono, unitamente ai condizionamenti
ambientali, limiti piuttosto netti all'alimentazione (non si può
mangiare di tutto, così come non si possono superare per difetto o per
eccesso determinate soglie critiche). Ma l'argomento di Mauss è che
entro certi limiti più o meno duri e invalicabili le tradizioni
foggiano in modo più particolare le tecniche del corpo (come,
beninteso, qualsiasi altra tecnica): non sono le funzioni organiche,
sono invece le tradizioni culturali a dare una forma più definitiva
alle tecniche del corpo. In questo modo il corpo assume veri e propri
habitus, qualcosa di più che non le mere abitudini, in quanto habitus è
l'ἕξις, "facoltà ed esperienza", di cui parla Aristotele (p. 389).
Questi habitus variano da società a società, così come variano secondo
le 'convenienze', le 'mode', il 'prestigio', in quanto hanno una
'natura sociale'. Inoltre, l'idea di uno schema tradizionale
funzionante come filtro o incanalatore delle tecniche del corpo si
abbina al concetto di una 'ragione pratica', la quale - secondo Mauss -
opera a livello collettivo e individuale: questa ragione si esprime
attraverso l'apparato degli habitus che adornano o foggiano il corpo,
utilizzando 'simboli morali e intellettuali' ed esprimendo le 'scelte'
che sono alla base delle varie tradizioni (pp. 389, 393 e 397).
Mauss non parla di antropologia culturale (bensì di sociologia) e non
utilizza il concetto di cultura (bensì di tradizioni); ma il programma
che egli delinea - ovvero la messa in chiaro del funzionamento della
ragione pratica che si esprime attraverso habitus, costumi, tradizioni
- è stato fatto proprio da quella disciplina che ha posto il tema della
variabilità culturale degli esseri umani al centro dei suoi interessi.
3. La costruzione culturale del corpo
L'antropologia di Mauss ritiene che il corpo sia un'entità naturale che
- attraverso tecniche e modelli appositi - subisce processi di
particolarizzazione in gran parte inevitabili e più o meno incisivi.
Dato che vivere in società significa sempre adattare sé e il proprio
corpo a contesti particolari, il corpo appare come il risultato di
molteplici interventi di modelli e tradizioni sociali. Le società -
sosteneva A. van Gennep all'inizio del Novecento - trattano il corpo
come un pezzo di legno su cui incidono i segni della propria identità,
i simboli delle proprie tradizioni. Il problema è di vedere quanto
siano importanti questi simboli culturali, quanto indispensabili le
tecniche tradizionali. Si tratta di decidere quanta autonomia si è
disposti ad accordare al corpo come struttura naturale e quanta
incisività si è inclini ad attribuire alla dimensione culturale: da
queste decisioni scaturisce il senso generale dell'antropologia che si
professa.
A lungo l'antropologia culturale - anche quella che ha fatto proprio il
contributo di Mauss - ha in fondo seguito l'impostazione di Kroeber:
come struttura naturale, il corpo ha la sua autonomia; le tecniche del
corpo (per usare l'espressione maussiana) vi si sovrappongono,
facendone uno strumento che si adatta a stili e obiettivi particolari
di una determinata società. In questa prospettiva, il corpo si piega,
suo malgrado, a esigenze di identificazione sociale.
Come realtà biologica, esso costituisce un polo non solo autonomo, ma
riluttante rispetto alle esigenze sociali: la società si incarica di
sovrastarlo, di addomesticarlo, di farne uno 'strumento' (ancora
un'espressione maussiana) in vista dei suoi obiettivi, i quali
trascendono ovviamente la corporeità in quanto tale. Un po' come dire:
la società ha le sue ragioni (la cultura) che il corpo non conosce, in
virtù delle quali esso viene sottomesso, particolarizzato,
culturalizzato. Per riprendere la tematica iniziale, si può affermare
che in questo modo l'antropologia culturale riproduce ancora la
distinzione corpo/cultura, anche se essa non si traduce più in una
netta separazione, ma al contrario in un interessamento della cultura
(di ogni cultura) al corpo: ogni cultura si sofferma sugli organi e sui
processi corporali, li ingloba e spiega in schemi più ampi (spesso di
ordine cosmologico), ne sfrutta le potenzialità simboliche.
Come hanno dimostrato M. Douglas e F. Héritier, se da un lato il corpo
suscita un interesse conoscitivo in cui intervengono categorie
socialmente formulate, dall'altro esso si presta a essere utilizzato
come fonte di simboli mediante cui spiegare la società stessa. Anche in
questo modo il corpo ha abbandonato la posizione marginale che esso
aveva assunto alle origini dell'antropologia culturale (quando si
trovava di fatto relegato a una prospettiva puramente biologica e
naturalistica) per collocarsi - o almeno tentare di farlo - sempre più
al centro di questa disciplina.Il mutamento di posizione del corpo
nelle prospettive di ricerca dell'antropologia culturale può essere
motivato mediante il ricorso a due concetti o punti di vista: in primo
luogo, l'accresciuta consapevolezza dell'ubiquità del corpo nella
cultura; in secondo luogo, la tesi della costruzione culturale
dell'organismo, delle sue funzioni, nonché delle sue manifestazioni.
a) Nella conclusione del suo saggio Mauss si sofferma sulle tecniche
del corpo che sono "al fondo di tutti i nostri stati mistici" (Mauss
1950, trad. it., p. 409), ancorché la nostra cultura, ossessionata
(potremmo aggiungere) dalla separazione anima/corpo, non ne abbia fatto
un tema cosciente. "Per entrare in 'comunicazione con Dio'", aggiunge
Mauss, è indispensabile approntare adeguate tecniche del corpo (per es.
quelle della respirazione).
Negli anni Sessanta, Douglas ha posto in luce il nesso tra temi
cosmologici e teologici da un lato e quelli relativi all'igiene
corporale dall'altro (Douglas 1966). Il corpo è presente anche quando
ci si rivolge a un mondo cosiddetto soprannaturale, quando in
definitiva si cerca di trascendere la corporeità. A ben guardare, il
corpo è presente ovunque nella cultura: dai fenomeni di comunicazione
ai rituali, dalla parentela alla politica, dalla tecnologia e dall'arte
alla religione, non vi è manifestazione culturale che possa prescindere
da una qualche connessione col corpo. Probabilmente, questa ubiquità ha
contribuito a rendere il corpo un oggetto alquanto opaco sotto il
profilo teorico: essendo in ogni dove, il corpo è rimasto inesplorato
per una disciplina che ha provveduto ad articolare il proprio campo (la
cultura o la società) in una serie di settori più o meno autonomi. In
effetti, a parte l'illuminazione di Mauss, il corpo si è imposto come
oggetto di particolare interesse per l'antropologia culturale soltanto
quando sono state messe in discussione le distinzioni categoriali dei
suoi settori (parentela, politica, diritto, arte, religione ecc.) e,
alla base, la distinzione più importante e culturalmente radicata,
quella tra anima (o mente, spirito, cultura) e corpo.
b) Rifiutare o ridiscutere la distinzione mente (cultura)/corpo
significa rivedere i loro nessi, le loro reciproche implicazioni alla
luce di un più stretto avvicinamento, chiedersi insomma se davvero essi
costituiscano, dal punto di vista evolutivo e genetico, entità tanto
diverse: significa in definitiva chiedersi se possa essere concepibile
un organismo integro e autonomo che sia in grado di funzionare
indipendentemente dalla cultura e, correlativamente, interrogarsi circa
la plausibilità di una cultura che non passi e non si realizzi
attraverso una qualche modificazione del corpo.L'antropologia culturale
si è posta questo problema di revisione dei nessi corpo/mente,
corpo/cultura; ma il dato significativo e curioso è che lo stimolo
principale per questo ripensamento è scaturito non già dalle indagini
interne al suo campo di studio, quanto piuttosto dagli esiti delle
ricerche condotte sul versante paleoantropologico. Si è così verificato
un mutamento decisivo e radicale nel concepire le modalità di
formazione dell'umanità. Il punto più nettamente acquisito è
l'improponibilità dell'idea secondo cui in un primo tempo l'evoluzione
biologica, da sola, avrebbe condotto l'uomo a essere anatomicamente e
fisiologicamente quello che è e, in un secondo tempo, soltanto questo
essere avrebbe dato luogo alla cultura.
L'esame delle forme fossili di ominidi precedenti l'Homo sapiens ha
posto in luce, infatti, l'esistenza di una cultura ben prima del
completamento dello sviluppo cerebrale. Ciò significa - come ha
sostenuto C. Geertz - che vi è stato un lungo periodo di
sovrapposizione tra mutamenti biologici e mutamenti culturali, durante
il quale modelli culturali, corpo, cervello hanno intensamente reagito
così da modellarsi a vicenda (Geertz 1973, trad. it., pp. 90-91). In
questa prospettiva, la cultura (intesa nella sua sostanza simbolica) si
configura non già come un orpello aggiuntivo, ma come un ingrediente
indispensabile alla formazione dell'umanità anche sotto il profilo
organico e somatico. È vero che gli uomini sono gli animali che più di
altri si sono specializzati nella produzione di cultura; ma è
altrettanto vero che essi sono il prodotto principale e fondamentale
della cultura. Questa tesi concerne direttamente la vita organica
dell'uomo e la sua organizzazione somatica, non certo nel senso che
ogni cultura costruisca a suo piacere l'organismo umano, ma nel senso
che ogni cultura fabbrica modelli di comportamento e di funzionamento
dell'organismo in vista di una definizione di umanità. A Giava -
precisa Geertz (1973, trad. it., p. 95) - "essere umani non è soltanto
respirare: è controllare il proprio respiro con tecniche yoga".Per
comprendere bene questo punto e non ricadere nell'idea che le tecniche
di respirazione siano una superfluità folkloristica o un orpello
tradizionale, occorre ricordare che uno dei presupposti della
prospettiva che stiamo ora analizzando è dato dalla tesi della
'relativa incompletezza' dell'uomo dal punto di vista organico e
neurologico: le informazioni che egli trae dal suo organismo non sono
sufficienti a garantirgli un'adeguata sopravvivenza (pp. 92, 122 e 132).
Per vivere, anzi, per sopravvivere financo sotto il profilo biologico,
l'uomo ha bisogno di trarre informazioni dai modelli culturali che
sussistono al di là dei confini individuali del suo organismo, ovvero
nello spazio sociale della cultura. Se per l'antropologia dell'epoca di
Kroeber e di Mauss la cultura è in qualche modo secondaria e successiva
rispetto all'organismo, nel senso che prima deve esserci l'organismo
biologicamente funzionante e poi si può provvedere alla cultura, per
l'antropologia contemporanea il rapporto si rovescia: il corpo si
'completa' (nelle sue attività, nel suo funzionamento, nelle sue
manifestazioni) soltanto attraverso la cultura. Le 'tecniche del corpo'
illustrate da Mauss non si configurano più come costrizioni apportate a
una realtà autonoma e preesistente, un soggiogamento utilitaristico del
corpo in vista di fini che gli sono estranei (le ragioni della
società); esse sono invece modellamenti che consentono di completare il
corpo e di far sopravvivere gli individui nei vari contesti sociali e
naturali. La cultura non si limita a reprimere il corpo (non è questo
il suo obiettivo): lo foggia, lo modella, fornendo stili e forme di
comportamento, dalle attività fisiologiche più comuni alle
manifestazioni emotive più intense. Compito della cultura è infatti
quello di "dare una forma specifica, esplicita, determinata, al flusso
generale, diffuso, delle sensazioni corporee [...] così che possiamo
non solo sentire ma anche sapere che cosa sentiamo e agire
conseguentemente" (p. 129).
L'antropologia culturale, sorta sul presupposto della separazione
cultura/corpo, ha quindi non soltanto avvicinato i due termini, ma ha
anche provocato un mutamento di paradigma di cui non è del tutto facile
stabilire le implicazioni. Una di queste è comunque l'allargamento
della nozione di corpo: intriso di cultura, il corpo non è più soltanto
una struttura anatomica a sé stante o un insieme auto-organizzato di
funzioni fisiologiche e nemmeno una mera superficie su cui le società
dipingono o incidono i propri simboli. Anche ciò che avviene nel corpo,
e in particolare le sensazioni e le emozioni, ha il significato di
rimettere in discussione il presupposto di separazione su cui si è
fondata la cultura occidentale e con essa buona parte delle sue scienze
(antropologia compresa). Del resto, se è vero che il corpo è anch'esso
un costrutto culturale, una delle implicazioni più importanti è
ammettere non già l'esistenza di una 'biologia universale' a cui si
contrappone 'un'infinità di culture', bensì "una dialettica [...] tra
culture e biologie locali" (Lock 1993, p. 146).
Costretta infine a occuparsi del corpo, l'antropologia culturale l'ha
fatto alla sua maniera. Certo, è possibile considerare il corpo come
una sorta di struttura universale indipendentemente dalle culture e
dalle biologie locali; ma l'antropologia ci avverte che si tratta di
un'operazione molto riduttiva, alla quale sfuggono dimensioni
consistenti e aspetti significativi.
D'altro lato, avvicinare il corpo alla cultura e addirittura
considerare il corpo come un costrutto culturale implica una
particolarizzazione che interessa non soltanto l'oggetto, ma anche il
sapere che lo indaga, ovvero il riconoscimento di biologie locali. In
base a questo riconoscimento, l'antropologia culturale lancia una sfida
alle pretese di universalità della biologia, consentendo così di
prestare attenzione ad altri modi di intendere il corpo, la mente, i
loro rapporti, e in definitiva la stessa distinzione tra natura e
cultura.
A ben vedere, è una sfida che l'antropologia culturale lancia pure a sé
stessa, nella misura in cui ha preso avvio dalle distinzioni
corpo/mente, natura/ cultura, che la considerazione antropologica del
corpo ha finito per fare esplodere (Lock 1993, p. 148). In fondo, anche
in questo modo l'antropologia ha deciso di privare sé stessa della
pretesa di universalità che aveva contraddistinto i suoi inizi, aprendo
perciò la strada non solo all'analisi, ma anche al dialogo e al
confronto con altre 'antropologie'. E in questa rete dialogica tra
varie antropologie - cui pare ridursi l'aspirazione antropologica
all'universalità - il corpo, non più marginalizzato da un'antropologia
culturale troppo condizionata dalle sue pretese autonomistiche, non più
scheletrito dalle impostazioni riduttive di antropologie mediche,
fisiche e craniometriche, è inevitabile che assurga alla centralità di
posizione che gli compete: la stessa centralità, a ben vedere, della
cultura.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it