complesso



Nel senso più generale di "insieme, totalità", il vocabolo discende dal latino complexus, derivato del verbo complecti, "stringere, abbracciare, comprendere". Nell'accezione psicoanalitica, il termine è derivato dal tedesco Komplex, coniato alla fine dell'Ottocento per indicare un conglomerato di ricordi, pensieri e rappresentazioni mentali, parzialmente o anche totalmente inconsci. Tali elementi sono collegati fra di loro da un particolare investimento emotivo, la cui costituzione avviene a partire dalle relazioni interpersonali della prima infanzia e che agisce e può strutturare tutti i livelli psichici, dai processi cognitivi a quelli comportamentali e affettivi.

sommario: I. Il complesso edipico. 2. Il complesso edipico dopo Freud. 3. Il complesso d'inferiorità. 4. Il complesso nella psicologia analitica di Jung. □ Bibliografia.

I. Il complesso edipico

L'uso della parola complesso in psicologia risale all'origine della psicoanalisi e si ritrova nelle Considerazioni teoriche aggiunte da J. Breuer agli Studi sull'isteria (1895) di Freud e Breuer. Esponendo il pensiero di P. Janet a proposito dell'isteria e le proprie convinzioni sull'esistenza di rappresentazioni mentali attuali ma inconsce, Breuer parlava appunto di complessi di rappresentazioni, di ricordi di fatti esterni e sequenze ideative del soggetto. Tuttavia è molto diffusa l'idea, peraltro accreditata dallo stesso Freud (1914), che l'uso del termine complesso sia dovuto alla scuola psicoanalitica zurighese - separatasi in seguito dalla psicoanalisi per formare un indirizzo teorico-clinico autonomo, cioè la psicologia analitica - e particolarmente a Jung, in quanto fu quest'ultimo che, mediante i famosi 'esperimenti associativi' (Jung 1906-09), dotò l'ipotesi del complesso, originariamente formulata a proposito dell'isteria, sia di una base sperimentale sia di un riferimento teorico più ampio. Con l'esperimento associativo Jung evidenziò il fatto che, mediante gruppi di immagini formate dalle associazioni verbali a determinate parole-stimolo, emergevano configurazioni psicologiche inconsce. Pensieri e immagini, una volta individuati, esprimevano una certa unitarietà la quale, nel suo prendere una forma più definita, dava luogo a vere e proprie direttrici emergenti da livelli inconsci della personalità e che fornivano la chiave per la comprensione sia di comportamenti usuali sia di determinati quadri psicopatologici.
Benché consapevole della popolarità ben presto raggiunta dal termine complesso, e dopo averlo usato egli stesso - al punto che uno dei cardini della teoria psicoanalitica è a tutt'oggi noto come complesso edipico -, Freud formulò profonde riserve sull'uso di questa parola in quanto, a suo avviso, essa rischiava di far perdere la variegata ricchezza e, al tempo stesso, la singolarità dei dati clinici. Freud, infatti, sia nelle lezioni di Introduzione alla psicoanalisi (1916-17), sia in una lettera a S. Ferenczi del 1897, riportata da E. Jones (1953-57) nella biografia di Freud, osservava come lo sforzo di costruire una sorta di catalogo, quasi un dizionario dei complessi esistenti, seguendo l'approccio tipicamente categorizzante proprio della visione scientifica del tempo, favorisse la tendenza a moltiplicarne il numero, alla ricerca di quelli anche solo possibili. Secondo Freud, si induceva così un'eccessiva semplificazione nello studio della dinamica psichica, come pure si focalizzava indebitamente l'importanza del nucleo patogeno complessuale, rischiando di ridurre il complesso al suo nucleo e perdendo la valenza di funzione strutturante che i complessi acquistano in determinati stadi evolutivi, a partire proprio da quello fondamentale, cioè il complesso edipico. Tale punto di vista è stato fatto proprio da tutta la scuola psicoanalitica, che ha mantenuto l'uso del termine complesso solo per quello di castrazione e per quello edipico.
Quest'ultimo, così chiamato perché si rifà al mito tebano del re Edipo, che aveva ucciso il proprio padre per sposarne la moglie senza sapere che fosse sua madre, è uno dei costrutti fondamentali della teoria psicoanalitica e rappresenta una funzione irrinunciabile, strutturante il modello dello sviluppo umano (Freud 1912-13), basato essenzialmente sulla contestualità e interdipendenza della maturazione di funzioni somatiche e di corrispondenti competenze psichiche. Nella sua formulazione originaria il complesso edipico si colloca nello stadio fallico, cioè fra i tre e i cinque anni (Freud 1905). In questa fase i bambini scelgono come oggetto d'amore il genitore di sesso opposto, mentre assumono un atteggiamento di rivalità e di ostilità verso il genitore dello stesso sesso, per il quale nutrono desideri inconsci di patricidio o matricidio. Questa situazione, già complessa, è ulteriormente complicata dalla costituzionale bisessualità dell'individuo umano, in quanto la relazione del bambino con ciascuno dei genitori è ambivalente (Freud 1916-17, 1923b). Ne segue che, tanto per il bambino che per la bambina, nella situazione edipica, ci può essere un'esitazione nell'identificarsi sia con il padre sia con la madre. Nel bambino, però, scegliere la madre come oggetto d'amore rappresenta una linea di continuità naturale dell'investimento affettivo proprio dello stadio orale, mentre l'ostilità verso il padre è un cambiamento di quel rapporto di identificazione con lui, assunto come ideale, e che tuttavia permane.La dinamica del complesso edipico si presenta dotata di una duplice polarità, che è positiva allorché nel bambino l'oggetto d'amore prevalente è la madre, pur in presenza di una contemporanea ambivalenza verso il padre, mentre è negativa allorché, soprattutto tenendo conto della spinta dovuta alla bisessualità, è il padre a essere scelto come oggetto privilegiato d'amore, mentre la madre è vissuta con sentimenti di ostilità. Dobbiamo inoltre tener presente che, in entrambi i casi, il complesso edipico comporta per il maschio una minaccia di castrazione: nella sua evoluzione positiva, perché comunque il bambino teme di perdere il pene come reazione punitiva da parte del padre geloso per il suo rapporto esclusivo con la madre; nella sua evoluzione negativa, perché l'assenza del pene - e quindi la castrazione - è condizione previa per essere accettato dal padre non come rivale, ma come oggetto libidico-sessuale. Tuttavia normalmente la spinta narcisistica per l'integrità del corpo prevale rispetto all'investimento sull'oggetto d'amore: il bambino allora vi rinuncia, sostituendolo con l'identificazione materna oppure rafforzando l'identificazione con il padre.
Freud riteneva che la dinamica edipica fin qui descritta, benché pensata al maschile, potesse essere valida, con opportuni adattamenti, anche per la bambina. Tuttavia egli stesso trovò difficoltà nel compiere questa trasposizione a causa del suo pensare lo sviluppo psichico troppo strettamente collegato all'anatomia e alla fisiologia. Per questo, dopo numerosi ripensamenti, Freud (1923a, 1937) praticamente rinunciò a dare una formulazione sistematica a questo argomento, mantenendo fermo soltanto il pur controverso punto della contrapposizione tra le caratteristiche di attività maschile e di passività femminile, basate sul fatto che Freud vedeva nell'ovulo l'elemento passivo e quasi inerte rispetto all'attività dello spermatozoo.

2. Il complesso edipico dopo Freud

Diverse analiste della prima generazione confermarono il punto di vista di Freud considerandolo un aspetto dell'Edipo negativo (Vegetti Finzi 1988, p. 82). Solo H. Deutsch tentò una prima fondamentale sistematizzazione del complesso edipico per la bambina, da un lato pienamente coerente con il pensiero freudiano, dall'altro inserendolo nel contesto di una trattazione completa e, per i tempi, innovativa della psicologia della donna, sostenendo l'ipotesi che l'inquadramento delle dinamiche edipiche al femminile e del loro superamento esigessero un'elaborazione più articolata e complessa rispetto a quella al maschile. Secondo Deutsch (1945-46) il complesso edipico si sviluppa nelle bambine in due fasi distinte. In una prima fase esso presenta una dinamica sovrapponibile a quella maschile, pur se con un'intensità affettiva, cioè con un'affettività diversa: la madre è vissuta come oggetto d'amore e il padre come rivale. Da questa prima fase, dove la clitoride assumerebbe la valenza del pene, la bambina passa a una seconda, legata alla scoperta delle differenze anatomiche fra i sessi ed elaborata in termini squisitamente fallici e cioè dell'avere o meno il pene. La bambina sperimenta quindi l'invidia per la carenza del pene, e cerca di evitare la sofferenza dovuta a questa scoperta, di per sé traumatica, fantasticando di possedere un pene nascosto o di poterne avere uno in seguito. Con la rinuncia all'illusione fallica, una volta ammessa la mancanza del pene e l'inadeguatezza fallica della clitoride, la bambina limita notevolmente le proprie aspirazioni sessuali e si trova a scegliere fra tre direzioni evolutive. Una è la rinuncia totale alla sessualità. L'altra è il puntare decisamente verso la propria autoaffermazione di virilità, nella speranza di ottenere prima o poi un pene e fantasticando quindi un futuro di maschio. La terza, infine, è lo strutturarsi definitivo della femminilità, assumendo il padre come oggetto d'amore e dirigendo su di lui le proprie tendenze passive, per instaurare il complesso edipico femminile. In questo processo la bambina fantastica di avere un figlio dal padre, riparando così la ferita narcisistica della mancanza del pene, mentre la madre diviene oggetto di gelosia. Delusa poi dal padre nei suoi desideri amorosi, la bambina potrà o ritornare a investire la madre come oggetto d'amore, oppure identificarsi con il padre come oggetto d'amore perduto. Il caso più frequente è quello di un'identificazione alternativa con il genitore dell'uno o dell'altro sesso (Battacchi-Giovannelli 1988).
La formulazione originaria del complesso edipico proposta da Freud è stata rivisitata più volte fin dagli inizi: una spinta decisiva a una sua comprensione più ampia e creativa risale infatti già a M. Klein (1932), che affermò la medesima percezione simbolica del corpo materno come ricettacolo di ogni cosa buona, sia per i maschi sia per le femmine.Sulla base di una più accurata riflessione circa i diversi orientamenti presenti all'interno della psicoanalisi (Eagle 1984), e del confronto con altri modelli di personalità e, ancor più, con la verifica sperimentale delle teorie psicoanalitiche sullo sviluppo (Battacchi 1993), il complesso edipico è presentato oggi con profonde modificazioni, soprattutto per quanto riguarda l'Edipo femminile. Il cambiamento più incisivo è il rovesciamento delle posizioni: infatti, secondo documentati studi psicoanalitici (Codispoti Battacchi-De Aloysio 1981) è il bambino che presenta maggiori difficoltà di superamento del processo edipico. Partendo dalla considerazione di Klein (1945) che il reale oggetto del desiderio è sempre la madre, in quanto possiede il pene paterno, dal punto di vista dell'identificazione e del conseguente superamento del complesso edipico è la bambina a trovarsi in una posizione più naturale, cioè di continuità con l'oggetto d'amore pre-edipico, che è appunto la madre. La bambina, quindi, trovandosi in questa posizione nei confronti dell'oggetto di identificazione primaria, prova chiari sentimenti di rivalità e di gelosia per il padre. Il bambino, invece, per acquisire la sua identità sessuale, deve ristrutturare il suo investimento affettivo originario e distaccarsi da esso identificandosi con chi non era quest'oggetto, cioè il padre, situazione che presenta minori sicurezze e maggiori ambiti di ambiguità di sentimenti verso la madre.La riconsiderazione del complesso edipico ha permesso di mettere in luce come, al di là dello specifico tema delle differenze tra Edipo maschile e femminile e delle relative fantasie, esso vada inquadrato in una prospettiva più ampia, che tenga conto degli aspetti culturali, psicosociali e cognitivi, secondo una linea già indicata per es. da E.H. Erikson (Miller 1989) o da D. Stern (Modell 1984).
Dobbiamo tener ben presente che questa rivisitazione del complesso edipico si fonda sul presupposto sociale di una determinata struttura familiare. Nella misura in cui questa va trasformandosi è lecito ipotizzare che anche il complesso edipico si trasformi. In effetti le mutate condizioni di vita comportano sempre più frequentemente una modifica dei ruoli parentali tradizionali. Si assiste, innanzi tutto, a una redistribuzione delle funzioni paterne e materne, in relazione a una diversa concezione culturale dell'esercizio del potere nell'ambito della coppia, cui si unisce un certo decadimento dell'autorità connessa al ruolo paterno, per l'assenza, sia reale sia psicologica, del padre. La madre subentra quindi sempre più frequentemente in queste funzioni, e non già per delega, ma in prima persona, come pure accade sempre più frequentemente, magari perché la madre svolge un lavoro extra-domestico, che all'interno della coppia parentale si redistribuiscano anche le funzioni materne. Né possiamo dimenticare che le stesse funzioni sono di fatto normalmente demandate ed esercitate anche da servizi extra familiari, quali asili nido e scuole materne. Dinanzi a questo variegato panorama di ruoli che cambiano, è emerso con maggiore evidenza che, alla scomparsa dell'autorità paterna, sembra accompagnarsi l'appropriazione da parte del padre di funzioni materne che preludono, se non a un declino del complesso edipico certo a una sua profonda trasformazione (Battacchi-Giovannelli 1988; Miller 1989) e a una diversa prospettiva di approccio al problema dello sviluppo psicosessuale nel contesto dell'evoluzione della personalità globale (La nascita del Sé 1989).

3. Il complesso d'inferiorità

Un'altra teoria psicodinamica, forse meno nota, ma che è tutt'oggi presente soprattutto nell'ambito psicoterapeutico, dove il termine complesso assume un ruolo centrale, è la psicologia individuale di A. Adler (1912), nella quale il concetto di complesso d'inferiorità costituisce il fulcro della teoria della personalità e soprattutto delle nevrosi. Fortemente indirizzato verso una psicologia che oggi diremmo organicista, Adler ritenne che il nucleo del complesso d'inferiorità, che è alla base delle difficoltà evolutive e delle nevrosi, fosse costituito da un'inferiorità d'organo, cioè da un'insufficienza o da una carenza presente a livello somatico fin dalla nascita. Questa situazione difettuale pone le premesse, ovviamente tenendo conto anche dei contesti relazionali e sociali, per uno sviluppo peculiare, connesso cioè a sentimenti di frustrazione, di inadeguatezza, di scarsa capacità nell'affrontare la realtà, che può trovare un parziale equilibrio in un aspetto particolare dell'aggressività, definita da Adler 'volontà di potenza'. Infatti, sotto la spinta della volontà di potenza avverrebbe una sorta di compensazione a livello somatico che, rafforzando l'organo debole, consentirebbe la liberazione di energie psichiche atte a organizzare strutture difensive, le quali, servendosi soprattutto delle aumentate capacità del soggetto di avvalersi di alcuni processi psichici, come il presentimento o l'anticipazione degli eventi, lo porrebbe in grado di assicurarsi una certa superiorità sugli altri e di avvertire un senso di sicurezza. È importante rilevare come da questo precoce equilibrio tra complesso d'inferiorità e capacità di compensazione derivino già le premesse - quasi in senso finalistico - per quelle modalità esistenziali definite da Adler 'stili di vita', particolarmente rilevanti per la comprensione delle nevrosi (Parenti 1987).

4. Il complesso nella psicologia analitica di Jung

Dove il termine complesso ha mantenuto una sua peculiare pregnanza ed è stato fonte di studi teoretici e di applicazioni cliniche, è nella psicologia analitica junghiana (Bertoletti 1987), non a caso chiamata talora anche 'psicologia dei complessi' (Samuels 1985). L'originalità creativa è data, come nota U. Galimberti (1987), dal fatto che, mentre nell'approccio psicoanalitico, soprattutto originario, la scelta per un modello più aderente ai canoni scientifici porta la descrizione della psiche e delle sue patologie a un livello più medico e quindi non modificato dalla storia (infatti Edipo, l'eroe tragico di Sofocle, può essere descrittivo delle vicende psichiche che affliggono gli uomini anche del nostro tempo), Jung è così persuaso della profonda solidarietà e convivenza di storia e psiche, che i complessi si modificano e acquistano significati diversi a seconda dei contesti storici in cui esistono. Tuttavia un'invarianza degli archetipi è data dall'essere riferiti alla dinamica archetipica e quindi dal loro collocarsi nell'ambito teorico dell'inconscio collettivo: si tratta di elementi strutturali della realtà psichica, composti da un guscio e da un nucleo, che esprimono le energie pulsionali della dinamica psichica soprattutto inconscia. Il guscio del complesso è un modello specifico di reazione, legato a una rete di associazioni coagulate intorno a un'emozione centrale particolarmente intensa (Whitmont 1969; Samuels 1985). La formazione e i diversi anelli delle reti associative derivano prevalentemente dai condizionamenti dell'infanzia e dalle conseguenti vicende personali. Il nucleo del complesso, invece, è legato piuttosto a elementi che derivano da un archetipo. Non tutti i complessi sono autonomi, nel senso che acquistano una loro dinamica specifica e quasi separata nella vita psichica. Quelli che però lo sono, come il complesso autonomo dell'Io, emergono e giocano un ruolo particolare nella vita psichica.




Bibliografia

da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it