contributo italiano alle
scienze
Psicologia, psichiatria e
psicoanalisi
La psicologia
Le opere più accreditate di storia della psicologia individuano una
scissura tra le analisi dei processi psicologici svolte nel lungo
corso, oltre due millenni, della filosofia occidentale e la nascita, a
metà circa dell’Ottocento, di una disciplina che si è proposta
l’indagine dello stesso tema in una prospettiva autonoma sul piano
teorico e metodologico. La data di riferimento è comunemente il 1879,
quando il fisiologo tedesco Wilhelm Wundt fondò il primo Laboratorio di
psicologia sperimentale presso l’Università di Lipsia. Negli ultimi
decenni del secolo si diffuse quindi l’espressione psicologia
scientifica per ribadire la distinzione tra una psicologia propria
della tradizione filosofica e una psicologia che si ispirava alla
scienza moderna, fondata sul metodo sperimentale e sulla misurazione e
la quantificazione dei dati. Anche lo studio e la cura dei disturbi
psichici si consolidarono come l’oggetto di una disciplina specifica,
la psichiatria, insegnata nelle facoltà di Medicina e praticata in
istituzioni pubbliche come i manicomi o in cliniche private per la
terapia delle «malattie nervose e mentali».
Sempre alla fine dell’Ottocento, nel contesto delle indagini
neurologiche e psichiatriche, ebbe origine un particolare orientamento
teorico e metodologico, la psicoanalisi, che per la complessa
articolazione del suo sviluppo e l’ampiezza della sua diffusione
acquista una rilevanza storica indipendente. Questo quadro vale per
quasi tutti i Paesi dell’Europa e per gli Stati Uniti, e anche per
l’Italia, seppure vi si rilevi nell’avvio dell’autonomia disciplinare
un ritardo di almeno due decenni. Infatti il contesto sociale,
culturale e politico del nostro Paese ha frenato, e talvolta
ostacolato, la nascita e l’evoluzione della disciplina della mente,
normale e patologica. Da una parte, vi sono ragioni di carattere
storico più generale (il lento processo di unificazione della nazione,
le forti discrepanze socioeconomiche tra il Nord e il Sud e la
conseguente problematica relativa alla realizzazione di progetti
sistematici e omogenei nei settori in cui la psicologia e la
psichiatria erano applicate, dalla scuola alle istituzioni
manicomiali), dall’altra, motivi di carattere filosofico e ideologico
(dovuti all’influenza sulla vita sociale e culturale del Paese svolta
dallo spiritualismo cristiano nell’Ottocento e dal neotomismo, il
neoidealismo e il marxismo nel Novecento; su questi aspetti, non
trattati in questa sede, cfr. Mecacci 1998).
La seconda metà dell’Ottocento
La distinzione introdotta agli inizi del Settecento da Christian Wolff
(1679-1754) tra «psicologia filosofica» (teoria generale dei processi
psichici) e «psicologia empirica» (studio empirico di questi stessi
processi) rifletteva l’esigenza di affiancare alla tradizionale
trattazione puramente speculativa un’analisi sistematica dei dati
raccolti attraverso l’osservazione del comportamento altrui nella vita
quotidiana, oppure l’esecuzione di esperimenti, all’epoca ancora non
pienamente rigorosi dal punto di vista metodologico, condotti su se
stessi e altre persone. In Italia, nell’Ottocento, l’impostazione
filosofica fu sostenuta da filosofi spiritualisti come Antonio Rosmini
(1797-1855), autore di Psicologia (2 voll., 1846-1848), e Francesco
Bonatelli (1830-1911), autore di Pensiero e conoscenza (1864) e La
coscienza e il meccanismo interiore (1872). In queste opere si
affermava il fondamento trascendente della psiche (l’anima come
sostanza immateriale e immortale), il primato dell’introspezione
nell’indagine psichica e l’irriducibilità dei processi psichici a
processi cerebrali. Invece fu proprio la possibilità di studiare il
funzionamento della psiche secondo i principi e i metodi della
fisiologia ciò che fu richiamato dai filosofi italiani promotori di una
psicologia empirica ispirata alle teorie materialiste (per le quali la
psiche è il prodotto dell’attività complessa del cervello), già
proposte dagli idéologues francesi agli inizi del secolo (Mecacci 2003).
Al rafforzamento dell’orientamento empirico tra i filosofi e gli
scienziati italiani concorse la diffusione prima del positivismo e poi
dell’evoluzionismo. Tra i primi esponenti del positivismo italiano,
Carlo Cattaneo (1801-1869) sostenne la necessità di completare
l’indagine sulle varie facoltà psichiche di un individuo con lo studio
delle «facoltà associate di più individui e di più nazioni», per
inquadrare propriamente la «psicologia della mente individuale e
solitaria» in una più ampia e comprensiva «psicologia delle menti
associate» (C. Cattaneo, Psicologia delle menti associate, 1859-1866, a
cura di G. de Liguori, 2000, pp. 53-54). Si veniva così profilando una
corrente di ricerche che sarebbe stata molto attiva alla fine del
secolo sui temi di psicologia sociale e culturale e soprattutto sulle
dinamiche psicologiche che si attivano in una folla. Le opere di
Pasquale Rossi (1867-1905) su L’animo della folla (1898) e La
psicologia collettiva (1899) e quelle di Scipio Sighele (1868-1913) su
La folla delinquente (1891) e L’intelligenza della folla (1903) ebbero
una vasta risonanza internazionale in relazione anche all’attenzione
che vi veniva rivolta agli emergenti movimenti di massa, con la nascita
dei partiti politici e delle formazioni sindacali.
La priorità del dato fattuale (del ‘positivo’ nel senso specifico del
positivismo) rispetto al dato soggettivo fu affermata più risolutamente
dai biologi, fisiologi e medici che – sempre nella prospettiva di tale
teoria filosofica – aderirono all’evoluzionismo non solo nella
formulazione darwiniana (Sull’origine delle specie, di Charles S.
Darwin, pubblicato nel 1859, fu tradotto in italiano da Giovanni
Canestrini e Leonardo Salimbeni nel 1864), ma anche nella versione più
filosofica proposta da Herbert Spencer (1820-1903), secondo la quale vi
era un processo continuo nell’evoluzione degli organismi viventi, dalle
forme più semplici a quelle più complesse di attività finalizzate
all’adattamento all’ambiente, da attività riflesse presenti nella vita
animale elementari alle forme di intelligenza superiore che si
manifestano nei primati e nella specie umana. Questa idea di una
permanente e progressiva trasformazione della materia fu sostenuta dal
maggiore esponente del positivismo italiano, Roberto Ardigò
(1928-1920), professore di filosofia a Padova dal 1881. Come scriveva
Ardigò nel suo libro La psicologia come scienza positiva (1870):
[L’evoluzione procede] per gradi; fino al punto culminante
dell’esistenza, all’uomo; dove ciò, che, negli stadi inferiori
dell’essere, chiamavasi la materia, diventa la persona o lo spirito. La
persona o lo spirito, che è lo stromento più nobile della attività
della natura. Lo stromento, pel quale tale attività si converte in
intelligenza, ossia in facoltà creatrice. Per gradi, come dico, la
forza si converte in intelligenza, ossia in facoltà creatrice (cit. in
Marhaba 1981, p. 123).
Per Ardigò la «psicologia positiva» non costituiva soltanto un modo
nuovo, empirico e oggettivo, di studiare i processi e i fenomeni
psichici, ma rappresentava anche la base per la spiegazione dei
prodotti della mente umana, culturali e sociali, studiati da quelle che
Ardigò denominava «dottrine morali» e che in seguito sarebbero poi
state definite «scienze dello spirito» e poi «scienze umane». Questo
riduzionismo psicologistico, o psicologismo, sostenuto da altri
psicologi italiani nei primi decenni del secolo successivo, avrebbe
costituito l’oggetto di un vivace dibattito con i filosofi neoidealisti.
L’orientamento positivistico in psicologia ebbe due ramificazioni
principali. La prima era costituita da studi di impronta
evoluzionistica che mettevano in evidenza il ruolo del comportamento
«intelligente» nell’adattamento degli animali all’ambiente, come nel
libro di Tito Vignoli (1829-1914) Della legge fondamentale
dell’intelligenza nel regno animale (1877). Altre ricerche furono
rivolte alla relazione, nella specie umana, tra caratteristiche fisiche
come la struttura del corpo, in particolare del cranio e della faccia,
e il comportamento (l’area di ricerca denominata antropologia fisica,
una disciplina che ebbe una notevole influenza – nella versione
criminologica – anche sulla psichiatria italiana dell’epoca, come si
noterà più avanti). L’integrazione più sistematica e originale tra
biologia, fisiologia, antropologia fisica e psicologia nello studio
della mente venne proposta da Giuseppe Sergi (1841-1936), professore di
antropologia nell’Università di Roma dal 1883 al 1916, autore di
numerose monografie tra cui i Principi di psicologia sulla base delle
scienze sperimentali (1873).
La seconda era legata all’istituzione dei primi laboratori di
psicologia sperimentale. Ardigò, nel 1876 a Padova, fu probabilmente il
primo studioso italiano ad acquisire degli apparecchi per condurre
esperimenti sulla sensazione e la percezione, e anche Sergi organizzò
un laboratorio di psicologia a Roma nel 1889. Tuttavia le prime
ricerche sperimentali di rilievo furono svolte da Gabriele Buccola
(1854-1885) che, dopo essersi laureato in medicina nel 1879, lavorò
dapprima nel Frenocomio di San Lazzaro a Reggio Emilia e poi
nell’Istituto psichiatrico di Torino, seppure per pochi anni essendo
egli morto giovanissimo. Il metodo impiegato da Buccola era basato
sulla registrazione dei tempi di reazione durante l’esecuzione di
compiti di percezione e discriminazione, associazione e
categorizzazione. In base alle differenze nei tempi di reazione per i
diversi tipi di compito, Buccola avanzò delle ipotesi su quale fosse
l’organizzazione dei vari processi implicati (percezione, attenzione,
memoria, giudizio ecc.). Un aspetto originale delle indagini di Buccola
consisté nella comparazione dei tempi di reazione ottenuti in soggetti
normali e in pazienti con disturbi psichiatrici al fine di determinare
in modo oggettivo quali fossero i processi psichici alterati nelle
varie sindromi considerate. I risultati ottenuti da Buccola furono
discussi nel suo libro La legge del tempo nei fenomeni del pensiero.
Saggio di psicologia sperimentale (1883), considerato il maggiore
contributo della psicologia italiana della fine dell’Ottocento.
Il primo Novecento
Alla fine dell’Ottocento, la psicologia aveva conquistato in Europa e
negli Stati Uniti una propria autonomia rispetto alla filosofia e alle
scienze biomediche, sia sul fronte della ricerca e della didattica, con
l’istituzione di numerosi laboratori e l’istituzione di cattedre
universitarie per l’insegnamento della psicologia, sia su quello della
diffusione delle conoscenze acquisite dalla nuova disciplina attraverso
la pubblicazione di monografie e periodici specializzati. Bisogna
arrivare ai primi anni del nuovo secolo per riscontrare in Italia
un’analoga concretizzazione delle aspirazioni dei filosofi e degli
scienziati positivisti alla fondazione di una psicologia scientifica.
Un evento molto importante per la diffusione dell’idea di una
psicologia autonoma fu nel 1905 lo svolgimento del V Congresso
internazionale di psicologia a Roma, al quale parteciparono alcuni dei
maggiori psicologi del tempo come William James. Sempre nel 1905 furono
istituite le prime tre cattedre di psicologia nelle Università di
Torino, Roma e Napoli, con il sostegno del neurologo e psichiatra
Leonardo Bianchi (1848-1927), in quell’anno ministro della Pubblica
istruzione, interessato alla ricerca psicologica sperimentale (La
meccanica del cervello e la funzione dei lobi frontali, 1920). Nello
stesso 1905 fu fondata la «Rivista di psicologia», il primo periodico
italiano dedicato esclusivamente a temi psicologici. Il panorama della
psicologia italiana che si delineò nei primi due decenni del Novecento,
dopo questa svolta del 1905, può essere caratterizzato sotto due
aspetti principali: la rivendicazione di uno statuto scientifico
indipendente dalla filosofia e il tipo di settori di ricerca
privilegiati.
La discussione tra psicologi e filosofi ebbe origine soprattutto nella
prospettiva avanzata dai primi per cui la psicologia era una scienza
propedeutica all’indagine filosofica, per es. nel tentativo di ridurre
le forme a priori kantiane o lo sviluppo dello spirito nell’accezione
hegeliana a strutture e meccanismi psichici. Questa impostazione
psicologistica era sostenuta sia da psicologi di provenienza
positivistica sia da psicologi che si erano avvicinati alle nuove
correnti filosofiche, in particolare la fenomenologia. Su questo
terreno ebbe origine la polemica avviata nel 1907, e a tratti molto
accesa, tra lo psicologo Francesco De Sarlo (1864-1937) e il filosofo
Benedetto Croce (1866-1952). De Sarlo, medico, aveva anche lui lavorato
nel Frenocomio di Reggio Emilia, passando poi agli studi filosofici,
fino a divenire nel 1900 il titolare della cattedra di filosofia
teoretica all’Istituto di studi superiori di Firenze. Nel 1903 De Sarlo
fondò il primo vero e proprio laboratorio di psicologia sperimentale e
pubblicò la sua opera principale, I dati dell’esperienza psichica. La
scuola fiorentina produsse ricerche di rilievo, illustrate nelle
monografie La misura in psicologia sperimentale (1905) di Antonio
Aliotta (1881-1964), Il problema psicologico del tempo (1929) di Enzo
Bonaventura (1891-1948) e Psicologia e tecnica industriale (1942) di
Alberto Marzi (1907-1983).
Per Croce e Giovanni Gentile – l’altro esponente principale
dell’idealismo italiano – la psicologia aveva un ruolo conoscitivo
subalterno rispetto alla filosofia, al pari delle altre scienze
empiriche, e la pretesa di alcuni psicologi, precedentemente i
positivisti e ora i fenomenologi alla De Sarlo, di affidare alla
psicologia la soluzione dei tradizionali problemi della filosofia (per
es., quelli della gnoseologia o dell’etica) rifletteva un’insufficiente
consapevolezza teorica della complessità della tematica trattata. In
base alla riforma della scuola del 1923 (la ‘riforma Gentile’), fu
abolito l’insegnamento della psicologia nei licei. Sebbene Gentile
mirasse alla eliminazione della psicologia come materia di studio
inclusa, assieme alla logica e all’etica, nell’insegnamento liceale
della filosofia, di fatto la riforma espresse il misconoscimento da
parte della cultura idealistica della psicologia come scienza autonoma.
Questa impostazione si ripercosse anche al livello universitario con
l’istituzione di un numero limitatissimo di nuove cattedre di
psicologia (nel 1925 le cattedre erano dieci, riducendosi a una sola
nel 1945). Fu intorno a queste poche cattedre universitarie che si
formarono dei gruppi di ricerca sperimentale che conseguirono risultati
originali, spesso di livello internazionale: oltre al già menzionato
gruppo di Firenze, vanno ricordati quelli attivi presso le Università
statali di Torino, Padova, Roma e Napoli e presso l’Università
cattolica di Milano.
A Torino, sotto la guida di Federico Kiesow (1858-1940), allievo di
Wundt a Lipsia e poi vincitore della prima cattedra di psicologia nel
1905, si formò una scuola che si dedicò principalmente allo studio
della sensazione e della percezione. Anche a Padova, le ricerche
avviate da Vittorio Benussi (1878-1927) e poi proseguite dal suo
allievo Cesare Ludovico Musatti, e successivamente dagli allievi di
quest’ultimo, Gaetano Kanizsa (1913-1993) e Fabio Metelli (1907-1987),
si concentrarono sui processi della percezione, ma in un’ottica teorica
e metodologica innovativa. Benussi aveva conseguito il dottorato nel
1904 a Graz con il filosofo e psicologo Alexius von Meinong (1853-
1920), aderendo alla sua «teoria degli oggetti» (Gegenstandtheorie)
relativa alle componenti sensoriali e percettive necessarie alla
produzione dell’oggetto percepito. Dopo essersi trasferito a Padova nel
1919, Benussi cominciò a interessarsi di nuovi temi di ricerca,
dall’ipnosi alla suggestione e alla psicoanalisi. Tra gli anni Venti e
Trenta Musatti sviluppò le ricerche del maestro nel campo della
percezione introducendo però i nuovi principi della «teoria della
forma» (Gestalttheorie) che si stava affermando in quegli anni come una
delle principali scuole psicologiche contemporanee (il saggio più
importante di Musatti in questo ambito fu Forma e assimilazione del
1931). A Roma, l’indirizzo scientifico in psicologia fu rappresentato
da Sante De Sanctis (1862-1935), che occupò la prima cattedra istituita
nel 1905 fino al 1931 quando gli successe Mario Ponzo (1882-1960), già
allievo di Kiesow. Neurologo e neuropsichiatra infantile di notevole
spessore, autore di libri molto noti anche all’estero (I sogni, 1899;
La mimica del pensiero, 1904; La conversione religiosa, 1924), De
Sanctis scrisse anche un ampio trattato di Psicologia sperimentale
(1929-1930).
A Napoli, la prima cattedra di psicologia istituita nel 1905 fu
occupata dallo psichiatra Cesare Colucci (1865-1942) fino al 1937.
Colucci, che dirigeva anche l’Ospedale psichiatrico provinciale di
Napoli, si interessò di psicofisiologia e psicologia applicata.
Infine, un cenno particolare merita il Laboratorio di psicologia che
Agostino Gemelli istituì nell’Università cattolica da lui fondata nel
1921 a Milano. Di formazione biologica, poi passato agli studi
filosofici e psicologici, con una rigorosa esperienza scientifica
maturata in vari laboratori europei, Gemelli formò un consistente
nucleo di ricerca che – oltre a occuparsi dei processi psichici di base
dalla percezione al pensiero e al linguaggio – svolse numerose indagini
di psicologia sociale e psicologia del lavoro. Fu proprio grazie a tale
espansione della ricerca psicologica a questioni di natura sociale che
fu possibile garantire la sopravvivenza dei ristretti gruppi di
psicologi esistenti negli anni Trenta e Quaranta. Nel 1939, per impulso
di Gemelli, fu istituita presso il Consiglio nazionale delle ricerche
una Commissione permanente per le applicazioni della psicologia che si
trasformò un anno dopo nel Centro sperimentale di psicologia applicata.
Le aree di applicazione erano la scuola, il lavoro, le forze armate e
la comunicazione. Dal 1940 al 1952 il direttore del Centro fu Ferruccio
Banissoni (1888-1952), allievo di De Sanctis. Il Centro divenne nel
1950 l’Istituto di psicologia del CNR che, diretto prima da Leandro
Canestrelli (1908-1997) e poi da Luigi Meschieri (1919-1985), continuò
sino agli ultimi anni Sessanta a occuparsi prevalentemente di
psicologia applicata, per poi divenire – sotto la direzione di
Raffaello Misiti (1925-1986) tra gli anni Settanta e i primi anni
Ottanta – uno dei centri più avanzati per la ricerca di base sui
processi cognitivi e il loro sviluppo.
Nel corso del primo Novecento la produzione scientifica fu documentata
su tre principali riviste: la «Rivista di psicologia» fondata nel 1905
da Giulio Cesare Ferrari (1868-1932), direttore dell’ospedale
psichiatrico di Imola e poi di quello di Bologna, autore di ricerche di
psichiatria, psicodiagnostica e igiene mentale, noto per la sua
traduzione italiana nel 1901 dei Principi di psicologia di William
James; l’«Archivio italiano di psicologia» fondato nel 1920 da Kiesow e
Gemelli; e l’«Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria» fondato
nel 1939 da Gemelli.
La comunità degli psicologi italiani si organizzò nel 1911 nella
Società italiana di psicologia, riunendosi periodicamente per
presentare e discutere le ricerche in corso. I primi convegni della
Società si tennero a Torino (1911), Roma (1913), Napoli (1922), Firenze
(1923), Bologna (1927), Torino (1929) e Roma (1936).
Il secondo Novecento
Negli anni Cinquanta e Sessanta il panorama della psicologia italiana
fu caratterizzato dalla istituzione di nuove cattedre universitarie e
dall’organizzazione di varie iniziative per promuovere la disciplina.
Dopo una lunga interruzione causata dalla situazione politica e
bellica, nel 1951 si tenne a Roma il Convegno della Società italiana di
psicologia inaugurando una serie periodica di incontri nazionali in cui
cominciarono a manifestarsi nuovi interessi teorici e metodologici.
Inoltre sorsero presso diverse case editrici (Astrolabio, Editrice
Universitaria poi Giunti Barbèra ecc.) collane specializzate in testi
psicologici, in buona parte traduzioni di psicologi stranieri.
Sul piano della ricerca di base, la percezione continuò a costituire
l’oggetto di indagine privilegiato. L’orientamento di riferimento in
questa sperimentazione fu la teoria della forma, rappresentata
principalmente dagli psicologi (in particolare i già ricordati Kanizsa
e Metelli) che insegnavano nelle Università di Padova e Trieste.
Tuttavia furono proposte anche nuove teorie, il funzionalismo
dell’indirizzo noto come New look e il transazionalismo, nelle quali
erano messe in evidenza le componenti soggettive e ambientali
intervenienti nella percezione. Gemelli sostenne, in una discussione
con Kanizsa, che la percezione poteva essere un processo scomponibile
in fasi distinte a differenza di quanto sosteneva la teoria della forma
sul carattere «immediato» del fenomeno percettivo, mentre Renzo
Canestrari (n. 1925), futuro professore all’Università di Bologna
(sulla cattedra che vi fu istituita nel 1960), oppose la prospettiva
gestaltista alle posizioni transazionaliste affermate da Angiola
Massucco Costa (1902-2001), allieva di Kiesow a Torino.
Al di fuori della ricerca di laboratorio, un settore in forte
espansione nello stesso periodo fu rappresentato dalla psicologia dello
sviluppo. La teoria di Jean Piaget (1896-1980) dello sviluppo cognitivo
del bambino, diffusa grazie all’opera di Guido Petter (1927-2011),
professore all’Università di Padova, ebbe una larga applicazione in
campo psicopedagogico. Nel settore della psicologia dello sviluppo
altri contributi di rilievo furono dati da Marco Walter Battacchi
(1930-2006) e Ada Fonzi (n. 1927). Invece la fase involutiva del
funzionamento mentale fu indagata in particolare da Marcello Cesa
Bianchi (n. 1926), allievo di Gemelli, e professore nella facoltà di
Medicina dell’Università di Milano. Anche la psicologia della
personalità, la psicologia sociale e la psicologia del lavoro furono
aree di indagine di crescente interesse per gli psicologi italiani. Si
ricordano in questi settori i lavori di Leonardo Ancona (1922-2008),
Eraldo De Grada (n. 1925), Assunto Quadrio (n. 1929), Vincenzo (Enzo)
Spaltro (n. 1929) e Augusto Palmonari (n. 1935).
Negli anni Settanta ebbe luogo una radicale trasformazione dell’assetto
istituzionale della psicologia italiana. Nel 1971 furono istituiti i
primi corsi di laurea in psicologia a Padova e a Roma. Vi si iscrissero
subito migliaia di studenti dimostrando così che la psicologia
rappresentava una disciplina che, autonomamente rispetto alla filosofia
o alla medicina (le discipline dalle quali in genere erano provenuti
sino allora gli psicologi, accademici e non), rispondeva alle domande
conoscitive e professionali delle nuove generazioni. Se questo era un
aspetto positivo per l’immagine pubblica della psicologia italiana,
presto sorsero problemi che erano apparentemente solo organizzativi
(aule sovraffollate e assenza di moderni laboratori per la didattica e
la ricerca). Infatti le competenze necessarie per la formazione
professionale di uno psicologo esperto soprattutto nei settori per i
quali vi era la maggiore domanda degli studenti (in particolare,
psicologia clinica e psicologia del lavoro) erano difficilmente
reperibili tra gli psicologi che, pur operando egregiamente dal punto
di vista professionale in questo settore, non avevano esperienza di
didattica universitaria.
Inoltre, si venne a creare una situazione paradossale per cui i nuovi
laureati in psicologia non vedevano riconosciuta e garantita la loro
formazione rispetto ad altre categorie protette dai relativi albi e
ordini professionali. Mentre, a partire dal 1985, si aprivano nuovi
corsi di laurea in tutta la penisola, cominciò il lungo iter
parlamentare per il riconoscimento della professione di psicologo
praticabile solo da coloro che erano in possesso del diploma di laurea
in psicologia. La legge, nota come legge Ossicini dal nome dello
psicologo e senatore Adriano Ossicini (n. 1920) che la promosse, venne
finalmente approvata nel 1989. Successivamente i corsi di laurea in
psicologia si staccarono dalle facoltà nelle quali erano stati aperti
(in genere le facoltà di Magistero) e si costituirono in facoltà
autonome. La prima facoltà di Psicologia nacque a Roma nel 1991,
seguita subito dopo dalla facoltà di Psicologia di Padova e in altre
sedi.
Il principale effetto positivo che hanno avuto la nascita e le continue
riorganizzazioni dei corsi di laurea in psicologia è stato quello di
fissare un sistematico percorso formativo nei vari settori di indagine
e applicazione, con la distinzione di materie psicologiche
propedeutiche e avanzate e la presenza di insegnamenti nei campi delle
scienze biomediche e delle scienze umane. Inoltre l’istituzione dei
dottorati di psicologia a metà degli anni Ottanta permise
l’acquisizione di alte competenze scientifiche e la realizzazione di
studi e di ricerche di livello internazionale, spesso compiute in
collaborazione con laboratori europei e statunitensi.
La nuova stagione della ricerca psicologica italiana si espresse anche
nell’esigenza di dotare la comunità scientifica di un periodico
specializzato. Nacque così l’«Italian journal of psychology» in lingua
inglese per una maggiore diffusione dei contributi italiani. La rivista
si divise in due serie, una in italiano e l’altra in inglese, per poi
comparire dal 1979 solo nella serie italiana come «Giornale italiano di
psicologia». Il «Giornale italiano di psicologia», oltre a ospitare
lavori di ricerca originali, ha promosso da allora la discussione su
molti nodi problematici della psicologia italiana (da argomenti teorici
e metodologici a quelli della formazione e della professione).
A metà anni Settanta il cognitivismo si impose come l’orientamento
teorico della generazione più giovane degli psicologi italiani. Il
modello dell’«elaborazione umana dell’informazione» (human information
processing) divenne il riferimento di numerose indagini sulla
percezione, l’attenzione, la memoria, il pensiero e il linguaggio. La
tecnica di laboratorio tipica di queste ricerche fu la registrazione
dei tempi di reazione durante compiti eseguiti dal soggetto su
materiale presentato dapprima nei tradizionali tachistoscopi e in
seguito su schermi di calcolatori, con una programmazione elettronica
dei compiti da eseguire. Il confronto tra la nuova corrente del
cognitivismo e la tradizionale scuola gestaltista fu approfondito in
due importanti convegni tenutisi a Roma nel 1975 e a Bologna nel 1987.
Tra gli psicologi che innovarono l’impostazione gestaltista, pur
rimanendo fedeli alla sua impostazione fenomenologica, vanno ricordati
Gianfranco Minguzzi (1927-1987) e Paolo Bozzi (1930-2003).
L’impostazione cognitivista fu seguita anche nelle ricerche di
neuropsicologia, lo studio degli effetti delle lesioni cerebrali sui
processi psichici. Il nucleo originario dei neuropsicologi italiani si
costituì negli anni Sessanta attorno al neurologo Ennio De Renzi (n.
1924), dal 1974 professore all’Università di Modena. Alla
neuropsicologia cosiddetta clinica, relativa ai disturbi nei pazienti
cerebrolesi, si affiancò la neuropsicologia sperimentale che si
proponeva la verifica in soggetti normali dei meccanismi cerebrali alla
base dei processi psichici. I principali risultati in questo ambito
furono ottenuti, negli anni Settanta, sulla specializzazione funzionale
dei due emisferi cerebrali nell’elaborazione di informazione verbale e
visuospaziale. Gradualmente la neuropsicologia è confluita nell’ambito
più vasto delle neuroscienze, in una prospettiva che ha incorporato
progressivamente nel proprio ambito concettuale e metodologico le
ricerche di psicologia generale sui processi cognitivi e le emozioni.
Negli ultimi due decenni del Novecento il dibattito sullo statuto
epistemologico della psicologia è stato caratterizzato dall’attenzione
posta alla psicologia discorsiva e alla psicologia culturale, aree
nelle quali si mette in evidenza l’importanza del contesto
socioculturale sulla strutturazione dei processi psichici, negando la
possibilità di universalizzare i risultati delle indagini di
laboratorio secondo l’originario progetto della psicologia scientifica
originatasi alla fine dell’Ottocento. All’interno di questa
prospettiva, l’autore di riferimento è stato lo psicologo russo Lev S.
Vygotskij (1896-1934), la cui teoria storico-culturale dello sviluppo
dei processi cognitivi ha influenzato anche le più recenti tendenze
della psicologia dell’educazione.
La psichiatria
Per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento, la psichiatria
italiana ha seguito sostanzialmente un’impostazione organicistica,
riassumibile nella famosa affermazione dello psichiatra tedesco Wilhelm
Griesinger (1817-1869): le «malattie mentali sono malattie cerebrali».
In questa prospettiva, lo studio del disturbo psichico era ricondotto
all’indagine anatomopatologica (ricerca di specifiche alterazioni o
lesioni del cervello associate alle diverse sindromi psicopatologiche).
La psichiatria organistica italiana si era innestata in una solida
tradizione di studi sul sistema nervoso, normale e patologico, che
spaziavano dalla conduzione dell’impulso nervoso alle localizzazioni
cerebrali a una varietà di sindromi neurologiche. Il premio Nobel per
la fisiologia e medicina, assegnato nel 1906 a Camillo Golgi per i suoi
lavori sulla struttura del tessuto nervoso, fu allo stesso tempo il
riconoscimento del valore scientifico della scuola neurologica italiana.
Un principio che permetteva di spiegare la patologia mentale in termini
neurologici e in senso più lato biologici fu quello di «degenerazione»
esposto nelle opere dei neurologi francesi Bénédict Augustin Morel
(1809-1873) e Valentin Magnan (1835-1916): la malattia mentale
riscontrata in un paziente era il risultato di una degenerazione
progressiva delle funzioni del sistema nervoso trasmesse per via
ereditaria dalle generazioni precedenti. La teoria della degenerazione
implicava quindi anche una concezione, detta atavismo, delle funzioni
cerebrali e dei corrispondenti processi psichici, secondo la quale il
comportamento psicopatico, aggressivo e violento, l’ipersessualità, le
ridotte capacità intellettive e così via, avrebbero caratterizzato gli
esseri umani dell’età preistorica. Allorché queste modalità di
comportamento e attività intellettiva riaffioravano in un individuo
dell’età moderna, si trattava quindi di un retaggio degli avi.
Questi principi furono ripresi in modo sistematico da Cesare Lombroso
(1835-1909), professore di clinica delle malattie mentali a Pavia dal
1867 al 1896, poi professore a Torino dove insegnò medicina legale e
antropologia criminale. L’interpretazione organicistica del
comportamento deviante e delinquenziale metteva in discussione il
concetto di responsabilità penale: se il criminale era di fatto un
malato mentale, l’intervento doveva essere quello di un recupero
fondato su cure mediche e sulla riabilitazione sociale all’interno di
una istituzione psichiatrica (L’uomo delinquente in rapporto
all’antropologia, alla giurisprudenza e alla psichiatria, 1876).
La psichiatria italiana si costituì come comunità scientifica nel 1873
con la nascita della Società freniatrica italiana che perseguì con
determinazione la triplice articolata finalità della disciplina:
studiare il malato di mente (l’«alienato»), curarlo e garantire con il
suo internamento che questi non fosse pericoloso fisicamente e
socialmente. Tale scopo trovò la sua espressione più compiuta nella
legge nr. 36 del 1904 relativa alle «Disposizioni sui manicomi e sugli
alienati. Custodia e cura degli alienati» e alle funzioni del
manicomio. L’art. 1 stabiliva che
Debbono essere custodite nei manicomi le persone affette per qualunque
causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri
o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere
convenientemente custodite e curate fuorché in manicomio (cit. in
Babini 2009, p. 625).
Questo progetto di stampo positivistico, in cui si intrecciavano ideali
scientifici, umanitari e sociali, si scontrò con la realtà
socioeconomica dell’Italia postunitaria caratterizzata da penuria delle
risorse economiche e inadeguatezza delle strutture manicomiali. Si
trattava di problemi non meno impegnativi di quelli strettamente medici
che si posero con la loro urgenza e gravità agli psichiatri italiani
dei primi decenni del Novecento. L’impostazione continuò a essere
quella organicistica, rappresentata nel maggiore manuale dell’epoca, il
Trattato delle malattie mentali (1904; ed. successive in collaborazione
con E. Lugaro), opera di Eugenio Tanzi (1856-1934), dal 1895
soprintendente del manicomio di San Salvi a Firenze.
Il principale manicomio, in cui la ricerca scientifica non fu disgiunta
dalla cura e dalla riabilitazione del malato, fu il Frenocomio di San
Lazzaro, già ricordato per le ricerche di psicologia sperimentale che
vi furono condotte. Con la direzione di Carlo Livi (1823-1877) e in
particolare di Augusto Tamburini (1848-1919), San Lazzaro divenne il
modello di un’istituzione manicomiale concepita non solo come luogo di
cura e custodia dei pazienti, ma come opportunità di formazione per i
giovani psichiatri e la loro assimilazione di un approccio scientifico
alla malattia mentale.
Nel 1875 Livi, con la collaborazione dei suoi assistenti Enrico
Morselli (1852-1929) e Tamburini, fece nascere la «Rivista sperimentale
di freniatria e di medicina legale in relazione con l’antropologia e le
scienze giuridiche», divenuta subito la sede più accreditata per la
pubblicazione delle ricerche di psichiatria. Mentre Tamburini, poi
succeduto a Livi nella direzione del Frenocomio, restò fermo in una
concezione organicistica dei disturbi psichici, Morselli, divenuto poi
direttore del manicomio di Torino, dimostrò una più attenta
considerazione del ruolo dei fattori psicologici sia nella genesi dei
disturbi sia nella terapia (Manuale di semejotica delle malattie
mentali, 2 voll., 1885-1894).
Nel 1885 era uscita la traduzione italiana del Compendio di psichiatria
di Emil Kraepelin (1856-1926), futuro direttore della clinica
psichiatrica di Monaco dal 1903 al 1926. A questa traduzione seguì
anche quella dell’opera più estesa Trattato delle malattie mentali (2
voll., 1906-1907). Kraepelin aveva introdotto una classificazione delle
malattie mentali che ebbe una notevole influenza sulla teoria e la
prassi psichiatrica. Inoltre vari psichiatri italiani soggiornarono
presso la clinica di Kraepelin e furono influenzati dal suo approccio
clinico che ridimensionava fortemente il ruolo dei fattori
anatomopatologici nella genesi dei disturbi mentali. Tuttavia, la
posizione clinica di Morselli o dei cosiddetti kraepeliniani non
divenne mai predominante nelle cliniche psichiatriche e nei manicomi,
nei quali fino a oltre la metà del Novecento prevalse un approccio
organicistico.
La priorità dei fattori organici o di quelli psicologici si era
riproposta come un problema urgente che aveva serie implicazioni non
solo mediche, ma anche militari in relazione ai numerosi casi di
nevrosi di guerra che si verificarono durante il primo conflitto
mondiale: al deperimento fisico e a disturbi organici si associavano
allucinazioni, incubi notturni, stati depressivi, espressione
catatonica e così via. Reparti psichiatrici, sotto il coordinamento di
Tamburini, furono predisposti in varie zone del fronte e nella retrovia
per curare i soldati che manifestavano tali sintomi e spesso chiedevano
di non essere destinati di nuovo alle prime linee. Sebbene alcuni
psichiatri, soprattutto coloro che ebbero l’esperienza diretta
dell’orrore dei combattimenti in trincea, riconoscessero l’effetto
traumatico della guerra, prevalse la tesi che le reazioni nevrotiche si
manifestavano nei soldati che costituzionalmente vi erano predisposti
(Gibelli 1991; Babini 2009, pp. 49-58).
La fiducia nell’approccio organicistico fu rinforzata dall’introduzione
dell’elettroshock (consistente in una scarica di corrente alternata
che, fatta passare tra due elettrodi applicati alle tempie, produce un
accesso convulsivo epilettico) a opera di Ugo Cerletti (1877-1963) e
Lucio Bini (1908-1964) nel 1938. Cerletti, dopo aver lavorato in
importanti centri e laboratori tedeschi, era divenuto nel 1935 il
direttore della Clinica delle malattie nervose e mentali di Roma.
Questo tipo di intervento risultò più efficace e meno costoso di altre
terapie di shock allora impiegate nel trattamento di gravi sindromi
psichiatriche e fu presto adottato in tutto il mondo, fino al suo
declino segnato negli anni Cinquanta dall’avvento delle terapie
farmacologiche.
Nel 1932 la Società freniatrica italiana assunse il nome di Società
italiana di psichiatria e nel 1933 gli insegnamenti di neurologia e
psichiatria furono accorpati sotto il titolo di Clinica delle malattie
nervose e mentali.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta un settore della psichiatria
organicistica, spinto anche da motivazioni ideologiche e politiche,
cominciò ad aderire alla teoria pavloviana dell’attività nervosa
superiore che in Unione Sovietica era stata proclamata come l’unica
teoria delle basi cerebrali dei processi psichici compatibile con il
materialismo dialettico, la dottrina filosofica ufficiale di quello
stato. Il fisiologo russo Ivan P. Pavlov (1849-1936) aveva esteso i
risultati delle sue ricerche sulla formazione dei riflessi condizionati
alla spiegazione dell’origine dei disturbi psichiatrici, ideando anche
situazioni di laboratorio in cui erano prodotte negli animali
condizioni psicopatologiche (in particolare, le cosiddette nevrosi
sperimentali) simili a quelle rilevate negli esseri umani. Tra i più
noti esponenti di questo indirizzo pavloviano vi fu Carlo Lorenzo
Cazzullo (1915-2010), che nel 1959 avrebbe occupato a Milano la prima
cattedra di psichiatria attivata in Italia dopo la scissione dalla
neurologia. Cazzullo avrebbe poi sviluppato un orientamento teorico e
terapeutico più attento alle dimensioni relazionali. Meno noto, ma
notevole per il rigore dell’informazione sulla psichiatria pavloviana,
fu il libro di Ugo Marzuoli, Psiche e condizionamento. Problemi di
psichiatria neurodinamica (1961). Il culmine del pavlovismo italiano fu
raggiunto nel 1965 in occasione del XV Congresso internazionale della
Società italiana di neurologia con l’organizzazione di un simposio
dedicato al tema I riflessi condizionati, mentre già nel 1968 nel
congresso del Collegio internazionale dell’attività nervosa superiore
era presentato un modello di intervento terapeutico in cui alla rigida
e riduttiva impostazione pavloviana subentrava la terapia del
comportamento su tecniche di decondizionamento e desensibilizzazione,
sviluppata dalla scuola inglese di Hans J. Eysenck (1916-1997) in una
aggiornata versione della psichiatria organicistica, ora denominata
psichiatria biologica.
Con fondamenti filosofici del tutto diversi e con un’impostazione
teorica e terapeutica opposta a quanto era proposto dalla psichiatria
biologica, si diffuse negli stessi anni l’indirizzo noto come analisi
esistenziale o psichiatria fenomenologica. Il quadro di riferimento
filosofico era costituito dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo,
dal pensiero dei filosofi Edmund Husserl (1859-1938) e Martin Heidegger
(1889-1976), dello psichiatra e filosofo Karl Jaspers (1883-1969) e
degli psichiatri Ludwig Binswanger (1881-1966) e Eugène Minkowski
(1885-1972). Contraria al riduzionismo organicista, alla schematica
classificazione delle malattie mentali e alla netta differenzazione tra
normale e patologico, l’analisi esistenziale metteva in evidenza la
centralità della persona nel suo specifico essere nel mondo
(l’«esserci» di Heidegger), nella ricerca di un senso della propria
esistenza anche lungo esiti considerati patologici dalla psichiatria
tradizionale.
Un primo esempio di approccio fenomenologico, originale nella sua
formulazione, ma che ebbe scarsa risonanza nell’ambiente psichiatrico
italiano era già stato dato nei lavori di Giovanni Enrico Morselli
(1900-1973), autore nel 1930 dell’articolo Sulla dissociazione mentale
(nel quale era descritto il «caso Elena») apprezzato solo in tempi
recenti. Per la conoscenza di questo orientamento nell’ambiente
psichiatrico italiano fu fondamentale, nel 1966, la traduzione italiana
di Psicopatologia generale (1913) di Karl Jaspers. I principali
esponenti italiani della psichiatria fenomenologica sono stati Danilo
Cargnello (1911-1998), autore del volume Alterità e alienità (1966) e
Bruno Callieri (1923-2012), autore di Lineamenti di una psicologia
fenomenologica (1972).
L’impostazione fenomenologica rappresentò anche lo sfondo teorico su
cui Franco Basaglia (1924-1980) elaborò il suo progetto di rinnovamento
delle pratiche terapeutiche della psichiatria, nell’esigenza
prioritaria di riscattare la dimensione umana del paziente
dall’emarginazione e esclusione personale, sociale e civile cui lo
destinava il manicomio. Basaglia, divenuto direttore dell’ospedale
psichiatrico di Gorizia nel 1959, introdusse drasticamente una serie di
provvedimenti (abolizione dei mezzi di contenzione, riqualificazione
del personale medico e infermieristico, rapporti paritari tra il
personale e i pazienti ecc.) finalizzati a quella che egli chiamò «la
distruzione dell’ospedale come luogo di istituzionalizzazione» (titolo
della relazione al I Congresso internazionale di psichiatria sociale,
Londra 1964). Solo apparentemente il manicomio era finalizzato,
nell’analisi basagliana, alla cura e riabilitazione del malato, ma di
fatto ne aggravava – attraverso la segregazione e la coercizione – le
condizioni patologiche fino al punto che era l’istituzione psichiatrica
stessa a costruire la malattia nella sua forma compiuta. Nel 1969
Basaglia divenne direttore dell’ospedale psichiatrico di Parma, per poi
passare nel 1971 a dirigere l’ospedale psichiatrico di Trieste.
Basaglia poté allora concretizzare ulteriormente il suo progetto di un
modello di comunità terapeutica, aperta al mondo esterno e coinvolgente
direttamente la cittadinanza e le istituzioni pubbliche. Non si
trattava solo di abbattere i cancelli e far uscire i «matti» dal
manicomio, come fu spesso sintetizzata in modo riduttivo l’opera di
Basaglia, ma di costruire un nuovo tessuto sociale e politico entro il
quale restituire alla persona sofferente la sua dignità di persona.
Allo stesso tempo era messo in evidenza che il manicomio, come altre
istituzioni, assolveva alla funzione politica di controllo delle forme
di devianza sociale e di contestazione del potere (siamo appunto negli
anni della contestazione studentesca e delle lotte sindacali più
incisive nella società italiana) configurandole come segni di
sofferenza psichica piuttosto che di disagio sociale (l’esempio più
netto di questo uso istituzionale della psichiatria in quegli anni fu
l’uso repressivo dell’ospedalizzazione psichiatrica dei dissidenti
politici in Unione Sovietica).
Per quanto Basaglia avesse tenuto presenti le iniziative di riforma
psichiatrica avviate in Europa e negli Stati Uniti a partire dagli anni
Cinquanta, la sua impostazione politica fu l’aspetto distintivo e
caratterizzante. Basaglia espose le sue idee e illustrò i risultati
conseguiti in numerosi articoli e libri, tra i quali L’istituzione
negata (1968) e La maggioranza deviante (1971), scritto assieme alla
moglie Franca Ongaro (1928-2005). La proposta basagliana si diffuse
rapidamente, pur ostacolata dall’ambiente psichiatrico tradizionale, in
varie altre strutture ospedaliere italiane, grazie anche alla
costituzione nel 1973 di Psichiatria democratica, un gruppo di
operatori psichiatrici che approfondì le problematiche teoriche e
operative del rinnovamento della psichiatria manicomiale italiana. Tra
gli esponenti di questo movimento vanno ricordati, anche per i loro
contributi scientifici originali, lo psicologo Gianfranco Minguzzi
(1927-1987), lo psichiatra Sergio Piro (1927-2009) e il neurologo Hrayr
Terzian (1926-1989).
Negli anni Sessanta e Settanta l’esigenza di un cambiamento nelle
concezioni della malattia mentale si espresse anche nel fiorire di una
vasta serie di iniziative editoriali, tra cui quelle dovute a Pier
Francesco Galli (n. 1931), come la nascita nel 1961 dell’importante
collana Biblioteca di psichiatria e psicologia clinica presso l’editore
Feltrinelli e nel 1967 della rivista «Psicoterapia e scienze umane».
Il movimento antipsichiatrico fu l’asse portante della battaglia per la
formulazione e l’approvazione di una legge che modificasse radicalmente
tutto il complesso istituzionale relativo al ricovero e alla cura dei
pazienti affetti da disturbi psichici. Critiche e proteste
all’istituzionalizzazione del paziente psichiatrico erano state mosse
anche in ambito politico, a cominciare da una nota denuncia nel 1965 da
parte del ministro socialista Luigi Mariotti sui manicomi come lager,
sulla esigenza di «introdurre in questo mondo degli elementi che
stabiliscano un rapporto nuovo tra malato e medico e tra società civile
e individuo» (cit. in Babini 2009, p. 207). Il 10 maggio 1978 fu infine
approvata la legge nr. 180 Accertamenti e trattamenti sanitari e
obbligatori. Il relatore del disegno di legge proposto dalla
Commissione della sanità fu lo psichiatra e deputato democristiano
Bruno Orsini (n. 1929), ma la legge divenne nota come ‘legge Basaglia’
o per riconoscere la centralità dell’opera di questo psichiatra nel
processo che l’aveva fatta realizzare o per connotarla negativamente,
assimilandola ai movimenti di estrema contestazione politica allora in
atto.
La legge, inserita pochi mesi dopo nel nuovo sistema del Servizio
nazionale italiano introdotto nel quadro della riforma sanitaria varata
alla fine del 1978, fu accolta con entusiasmo dalle forze progressiste
del Paese e apprezzata all’estero dagli ambienti psichiatrici più
avanzati. L’attuazione della legge incontrò presto seri ostacoli nella
disponibilità politica e finanziaria del territorio a rispondere nei
tempi dovuti al «graduale superamento degli ospedali psichiatrici o
neuro-psichiatrici» (art. 64) e all’istituzione di «servizi a struttura
dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e
riabilitative relative alla salute mentale» (art. 34). All’inerzia
territoriale si associarono l’irrigidimento di alcune componenti del
movimento antipsichiatrico in rivendicazioni velleitarie e l’assenza di
un adeguato approfondimento teorico e metodologico degli sviluppi
internazionali della psichiatria. Questi aspetti critici furono
analizzati criticamente dallo psichiatra e psicologo Giovanni Jervis
(1933-2009), che aveva aderito in una prima fase del suo percorso
scientifico e professionale a quello stesso movimento (era stato
collaboratore di Basaglia a Gorizia e poi direttore dell’Ospedale
psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia) per poi distaccarsene,
dedicandosi a un’indagine rigorosa dei nodi teorici problematici delle
scienze della mente (Manuale di psichiatria, 1975; Il buon rieducatore,
1977; Fondamenti di psicologia dinamica, 1993).
Negli anni Ottanta cominciò a delinearsi un ritorno alla psichiatria di
impianto organicistico, a una psichiatria biologica nella quale fossero
valorizzati i risultati della biologia, delle neuroscienze e della
farmacologia. Promotori di questo orientamento sono stati in
particolare lo psichiatra e farmacologo Gian Luigi Gessa (n. 1932), lo
psichiatra Paolo Pancheri (1938-2007) e lo psichiatra Giovanni Battista
Cassano (n. 1936). Il Trattato italiano di psichiatria, curato da
Pancheri e Cassano, offrì un panorama aggiornato dello stato delle
conoscenze della psichiatria italiana alla fine del Novecento.
La classica impostazione organicistica è sempre stata meno marcata
nelle ricerche sui disturbi psichici nell’infanzia e nell’adolescenza e
nelle relative proposte terapeutiche e riabilitative. Il tratto
caratteristico iniziale dell’area che sarebbe stata denominata
neuropsichiatria infantile è stata l’attenzione prestata dal punto di
vista assistenziale ed educativo a quella che era un tempo denominata
infanzia anormale. In questa ottica nacque nel 1899 la Lega nazionale
per la protezione dei bambini deficienti, che ebbe come sua
sostenitrice Maria Montessori (1870-1952). Dopo aver lavorato nella
Clinica psichiatrica di Roma sui bambini con grave ritardo mentale, la
Montessori si dedicò alla fondazione di un nuovo metodo pedagogico che
mise in pratica nella Casa dei bambini fondata nel quartiere emarginato
di San Lorenzo a Roma nel 1907. Alla scuola romana di psichiatria si
formarono anche Sante De Sanctis e Giuseppe Ferruccio Montesano
(1868-1961). Già ricordato come studioso di psicologia, De Sanctis
fondò nel 1899 gli Asili-scuola per l’assistenza e il recupero di
bambini e adolescenti poveri, minorati o anormali psichici. Nel 1930,
De Sanctis, lasciata la cattedra di psicologia, passò a quella di
neuropsichiatria infantile, area alla quale aveva già dato notevoli
contributi scientifici (Neuropsichiatria infantile, 1925). Montesano
curò invece soprattutto il settore dell’educazione del recupero dei
minorati psichici. Nel 1900 fondò la Scuola magistrale ortofrenica di
Roma per la preparazione di insegnanti specializzati in questo settore.
Nel secondo Novecento la figura più rappresentativa della
neuropsichiatria infantile italiana è stato Giovanni Bollea
(1913-2011). Dopo aver lavorato con Cerletti e con Mario Gozzano
(1898-1986), successore di quest’ultimo nella direzione della Clinica
delle malattie nervose e mentali di Roma dal 1951, Bollea fondò nel
1948, assieme ad Adriano Ossicini, il primo Centro medico
psicopedagogico caratterizzato da una impostazione multidisciplinare e
dal lavoro di squadra di medici, psichiatri, psicologi e assistenti
sociali. Nell’Istituto di neuropsichiatria infantile di Roma, Bollea
formò un gruppo di psichiatri e psicoterapeuti aperti a tutti gli
indirizzi più innovativi della ricerca e terapia nel campo dello
sviluppo psicopatologico. La rivista «Infanzia anormale», fondata nel
1913, denominata «Neuropsichiatria infantile» nel 1969 e infine
«Psichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza» nel 1984, è stata il
principale periodico in questo settore per tutto il Novecento.
La psicoanalisi
L’introduzione e la diffusione della psicoanalisi in Italia sono state
ostacolate da una serie di riserve di natura ideologica, in particolare
a causa sia della centralità assegnata allo sviluppo psicosessuale
nella formazione della personalità, sia dell’interpretazione, fondata
su meccanismi inconsci e sulla dinamica delle pulsioni, di fenomeni
artistici, sociali e politici (dalla creatività di Leonardo da Vinci
alla genesi del fascismo). Questo atteggiamento critico nei confronti
della psicoanalisi è stato espresso da parte delle principali
componenti ideologiche che hanno orientato la cultura italiana del
primo Novecento, in ambito cattolico, idealista e marxista. Solo
intorno agli anni Sessanta la psicoanalisi (David 1966, 19903) e gli
altri indirizzi da essa derivati (come la psicologia analitica;
Carotenuto 1977) hanno suscitato un reale interesse, ma più nei settori
della letteratura e del cinema che nell’area della ricerca psicologica
e psichiatrica (Mecacci 1998). Dalla metà degli anni Settanta in poi, è
maturato un processo di integrazione tra la psicoanalisi e le altre
correnti teoriche e terapeutiche.
Nel 1908 comparvero le prime due esposizioni scritte da autori italiani
della teoria freudiana. Gli autori furono lo psichiatra Gustavo Modena
(1876-1958) con l’articolo Psicopatologia ed etiologia dei fenomeni
psiconevrotici: contributo alla dottrina di Freud, pubblicato sulla
«Rivista sperimentale di freniatria», e lo psichiatra Luigi Baroncini
(1878-1939), assistente di Giulio Cesare Ferrari a Imola, con
l’articolo Il fondamento e il meccanismo della psicoanalisi, pubblicato
sulla «Rivista di psicologia». Il primo scritto di Sigmund Freud
tradotto in italiano comparve nel 1912 nella rivista «Psiche», fondata
dal medico Roberto G. Assagioli (1988-1974), seguito nel 1915 dal libro
Sulla psicoanalisi. Cinque conferenze, primo volume della Biblioteca
psichiatrica [poi psicoanalitica] italiana, fondata e diretta dallo
psichiatra Marco Levi Bianchini (1875-1961), direttore del manicomio di
Nocera Inferiore e poi dal 1925 di quello di Teramo e di nuovo a Nocera
Inferiore dal 1931.
Nel 1925 Levi Bianchini fondò la Società italiana di psicoanalisi, di
fatto divenuta operante solo nel 1932 grazie all’opera di Edoardo Weiss
e altri psicoanalisti. La società fu riconosciuta dall’International
psychoanalytical association nel 1936. Weiss fu l’esponente principale
della psicoanalisi italiana fino a quando nel 1939 emigrò negli Stati
Uniti a seguito delle leggi razziali dell’anno prima. Weiss si era
laureato in medicina a Vienna nel 1914, ma era già entrato nella
Società psicoanalitica viennese fin dal 1913, dopo essere stato in
analisi con Paul Federn (1871-1950). Le principali opere di questo
periodo furono gli Elementi di psicoanalisi (1931), con l’autorevole
prefazione di Freud, e Agorafobia, isterismo d’angoscia (1936). Nel
1932 Weiss fondò anche la «Rivista di psicoanalisi», la cui
pubblicazione però fu soppressa due anni dopo dalle autorità fasciste.
Lo stesso destino fu subito dalla Società psicoanalitica disciolta nel
1938. Weiss aveva lavorato a Trieste fino al 1931, quando si trasferì a
Roma dove, oltre a contribuire alla diffusione e allo sviluppo della
psicoanalisi, con le iniziative della rivista e della Società, formò un
piccolo, ma attivo gruppo di psicoanalisti, tra i quali Emilio Servadio
(1904-1995) e Nicola Perrotti (1897-1970).
Un’altra componente del movimento psicoanalitico italiano fu costituita
da Musatti e dagli psicoanalisti che si formarono con lui, soprattutto
dopo il suo trasferimento a Milano nel primo dopoguerra. Musatti aveva
derivato l’interesse per la psicoanalisi da Benussi e ne aveva trattato
gli aspetti teorici nei corsi universitari tenuti a Padova tra il 1933
e il 1935. Questo materiale fu alla base del grande Trattato di
psicoanalisi (2 voll., 1948) che uscì dopo la tragica parentesi della
guerra e l’allontanamento dall’insegnamento universitario in
ottemperanza alle leggi razziali. Un’esposizione sintetica ma completa
della psicoanalisi era stata scritta anche da Bonaventura (La
psicoanalisi, 1938), anche lui colpito dagli stessi provvedimenti che
decimarono la comunità psicoanalitica italiana durante gli ultimi anni
del fascismo.
Nel dopoguerra la ripresa della psicoanalisi fu rapida e dinamica. Nel
1948 nacque la rivista «Psiche», diretta da Perrotti, e nel 1955 la
«Rivista di psicoanalisi», diretta da Musatti, e organo della Società
psicoanalitica italiana ricostituitasi nel 1946 durante il I Congresso
nazionale di psicoanalisi. Prese avvio anche una vasta attività
editoriale con la traduzione di opere di Freud e dei principali
esponenti della sua scuola. Gli editori più attivi furono Astrolabio di
Roma, Einaudi e Boringhieri di Torino, Editrice Universitaria e Giunti
Barbèra di Firenze. L’iniziativa più importante fu realizzata dalla
Boringhieri negli anni Sessanta con l’avvio della traduzione delle
opere complete di Freud e Carl Gustav Jung. Tra i contributi più
importanti della psicoanalisi italiana tra gli anni Sessanta e Settanta
vanno ricordati i lavori di Franco Fornari (1921-1985), allievo di
Musatti, studioso della teoria di Melanie Klein (1882-1960), autore di
opere molto diffuse (tra le quali La vita affettiva originaria del
bambino, 1963; Psicoanalisi della guerra atomica, 1979; Coinema e
icona, 1979); e quelli di Eugenio Gaddini (1916-1985), i cui lavori
furono influenzati dalla teoria di Donald W. Winnicott (1896-1971). Nel
quadro della cultura psicoanalitica italiana di quel periodo va incluso
anche Ignacio Matte Blanco, psicoanalista cileno trasferitosi in Italia
nel 1966, autore del libro L’inconscio come insiemi infiniti (1975), la
cui proposta dell’esistenza di due logiche operanti nella psiche, una
per le operazioni consce e l’altra per l’attività inconscia, suscitò un
ampio dibattito anche in campo filosofico.
Negli anni Sessanta la diffusione della psicoanalisi nella cultura
italiana, ma anche nell’opinione pubblica (tanto da identificare spesso
lo psicologo con lo psicoanalista) fu favorita dalla letteratura e dal
cinema che ricorsero ai suoi principi per rappresentare e interpretare
la realtà psichica di donne e uomini tormentati da uno stato di
angoscia e depressione, da ciò che Cesare Pavese aveva denominato le
«malattie dell’anima». Nella letteratura spiccarono i romanzi di
Alberto Moravia, La noia (1960), di Carlo Emilio Gadda, La cognizione
del dolore (pubblicato su rivista tra il 1939 e il 1941; ma riedito in
volume nel 1963), di Giuseppe Berto, Il male oscuro (1964), di Ottiero
Ottieri, L’irrealtà quotidiana (1966). Nel cinema la traduzione più
netta di tale rappresentazione dell’esistenza umana fu resa nei film di
Michelangelo Antonioni. Anche nell’opera cinematografica di Federico
Fellini fu esplicita l’assimilazione della psicologia del profondo, ma
nella versione junghiana derivata dall’assidua frequentazione del
regista con Ernst Bernhard (1896-1965). Studioso di origine tedesca,
trasferitosi a Roma nel 1936, Bernhard fu il caposcuola dello junghismo
italiano. Nel 1962 fondò l’Associazione italiana di psicologia
analitica. Per la diffusione della teoria di Jung fu molto importante
anche l’opera di Roberto (Bobi) Bazlen (1902-1965), che era stato in
analisi da Weiss. Bernhard e Bazlen furono gli ideatori della collana
Psiche e coscienza della casa editrice Astrolabio di Roma, nella quale
furono pubblicate molte opere di psicoanalisi (il primo volume fu un
libro di Jung). Tra gli esponenti della psicologia analitica italiana
vanno ricordati in particolare Mario Trevi (1924-2011), dedicatosi a
una revisione dei fondamenti teorici di questo orientamento (Per uno
junghismo critico, 1987), e Aldo Carotenuto (1933-2004), autore di
numerose opere tra le quali ebbe risonanza internazionale il suo studio
storico sulla relazione tra Jung e Sabina Spielrein (Diario di una
segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Freud e Jung, 1980).
Nell’ultimo decennio del secolo la psicoanalisi italiana ha affrontato
in modo sistematico il problema dello statuto epistemologico dei propri
principi teorici e della efficacia della loro applicazione terapeutica,
anche all’interno di un confronto e una integrazione con le nuove
acquisizioni scientifiche delle neuroscienze sul funzionamento della
mente umana.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it