cultura
Il termine cultura ha due
significati fondamentali. Il primo, di origine antica, indica un
processo di formazione individuale, fondato sull'apprendimento di
alcuni saperi, il cui scopo è lo sviluppo equilibrato e completo della
personalità umana. Il secondo significato, formatosi tra il 18° e il
19° secolo, indica invece l'insieme dei modi di vivere, esprimersi e
pensare che caratterizzano un qualsiasi gruppo umano. Al primo
significato vanno ricondotte espressioni come 'farsi una cultura' o
'essere colti'; nel secondo significato rientrano invece espressioni
come la 'cultura orientale', la 'cultura italiana', la 'cultura degli
aborigeni', la 'cultura giovanile' e così via
L'origine del termine
Cultura, in latino, significa "coltivazione della terra" e deriva dal
verbo còlere, "coltivare". Tale significato è passato nell'italiano
'coltura', che viene usato sia per la coltivazione della terra
(agricoltura), sia per l'allevamento degli animali (zoocoltura,
apicoltura, e così via).
Ma poiché coltivare qualcosa significa comunque prendersene cura,
còlere veniva usato dai Romani anche per indicare l'atto di ornare il
corpo o quello di venerare una divinità. È in questo ambito di
significati che prese forma il concetto antico di cultura. Fu Cicerone
a parlare di cultura animi ‒ alla lettera, di "coltivazione dello
spirito" ‒ come dell'obiettivo principale della filosofia e, in
generale, dell'educazione. Come un terreno richiede una cura assidua
per esplicare le proprie potenzialità, cioè per dare frutti, così
l'individuo deve coltivare il proprio animo se vuole esprimere al
meglio le proprie capacità.
La cultura classica
Come abbiamo visto, il termine latino cultura significava in primo
luogo coltivazione, tanto che Cicerone, per applicarlo all'uomo, doveva
aggiungere una specificazione (coltivazione dello spirito). Per
indicare la cultura come processo di formazione gli antichi usavano
altri termini: i Greci parlavano di paidèia (da pàis, paidòs "ragazzo")
e i Romani di humanitas (da homo "uomo"). Se le parole erano diverse,
l'ideale educativo era tuttavia il medesimo: per far sì che un ragazzo
divenisse un uomo bisognava coltivare il suo corpo con la ginnastica e
il suo animo con la letteratura, la retorica e la filosofia. Le opere
dei poeti, dei drammaturghi e degli storici lo avrebbero ammaestrato
sulle passioni degli uomini e sulle loro vicende; la retorica lo
avrebbe preparato alla vita politica, insegnandogli l'arte di
comunicare; la filosofia, infine, lo avrebbe introdotto alle forme più
alte del sapere. Tale formazione era strettamente connessa con la vita
sociale. Gli antichi erano infatti convinti che l'uomo fosse ‒ come
diceva Aristotele ‒ uno zoòn politikòn, un "animale politico", cioè
naturalmente socievole: sia nel senso che tende naturalmente a vivere
in società, sia nel senso che soltanto all'interno della società può
realizzare la sua vera natura. L'ideale della cultura classica
escludeva tutte le attività di tipo utilitario (arti meccaniche, lavori
manuali), perché le considerava indegne di un uomo libero, e tutte
quelle non dirette alla realizzazione terrena dell'uomo: essa aveva
pertanto un carattere aristocratico ‒ perché si rivolgeva agli uomini
'superiori', che non avevano bisogno di svolgere lavori manuali ‒ e un
carattere terreno, perché concentrava l'attenzione dell'uomo su questo
mondo. Aveva, infine, un carattere contemplativo, perché vedeva nella
vita teoretica ‒ dedita alla ricerca disinteressata della sapienza ‒ il
fine ultimo della cultura.
La cultura dal Medioevo al Rinascimento
Il Medioevo conservò il carattere aristocratico e contemplativo
dell'ideale classico, ma abbandonò quello terreno: conformemente agli
ideali cristiani che permeavano la società medievale, la vita terrena
era concepita come preparazione alla vita ultraterrena e quindi il
processo di formazione dell'uomo era finalizzato alla salvezza della
sua anima. Le discipline vennero suddivise in arti del trivio
(grammatica, retorica, dialettica) e arti del quadrivio (aritmetica,
geometria, astronomia, musica): esse venivano insegnate nei chiostri e,
a partire dal 12° secolo, nelle università. Erano dette anche arti
liberali, perché considerate le sole degne di uomini liberi, e come
tali distinte nettamente dalle arti servili, che consistevano
nell'esercizio di attività pratiche o manuali. La filosofia conservò il
suo ruolo predominante quale forma più alta del sapere, ma venne intesa
come preparazione alle verità rivelate della religione e utilizzata per
difendere queste ultime dalle eresie: divenne cioè 'ancella della
teologia'. Soltanto a partire dal 13° secolo si cominciò a rivendicare,
per la filosofia, uno specifico e autonomo campo di indagine; ma essa
rimaneva comunque sottoposta alla suprema funzione direttiva della
religione.
Con il Rinascimento la cultura si riappropriò del suo carattere
terreno: l'attenzione tornò a concentrarsi sull'uomo e sul mondo,
esaltando la libertà e la creatività del primo e l'armonia del secondo.
Il Rinascimento attenuò inoltre il carattere contemplativo dell'ideale
classico, insistendo su quello attivo della sapienza umana, capace di
modificare il mondo e di ricreare, soprattutto nell'arte (pittura,
scultura, architettura), l'armonia che regna nell'Universo. Le arti
pratiche acquisirono così dignità culturale, ma la cultura conservò
comunque un carattere aristocratico: in quanto sapienza, essa rimaneva
riservata agli uomini dotati di virtù superiori.
La svolta dell'Illuminismo
Con l'Illuminismo si ha il primo tentativo di superare il carattere
aristocratico della cultura. I pensatori illuministi ‒ partendo dal
riconoscimento dell'eguaglianza degli uomini in quanto esseri dotati di
ragione ‒ erano convinti che la cultura dovesse essere messa a
disposizione di chiunque volesse migliorare sé stesso e far progredire
la vita sociale. L'Enciclopedia diretta da Diderot e D'Alembert nasce
da questa convinzione e ne rappresenta il migliore esempio. Essa offre
a un pubblico ampio, cui si rivolge in un linguaggio chiaro e
accessibile, il panorama completo delle conoscenze disponibili: dai
saperi tradizionali alla scienza moderna, senza trascurare quelle arti
meccaniche (illustrate attraverso splendide tavole) che permettevano il
progresso tecnico. Il concetto di cultura acquisì in tal modo un
significato enciclopedico (dal greco en kỳklos paidèia "formazione
circolare" e quindi completa), ossia di conoscenza generale del sapere.
Ma i filosofi dei Lumi ‒ in particolare Voltaire, con il suo Saggio sui
costumi (1756) ‒ furono protagonisti di un'altra e ancor più decisiva
innovazione: l'inclusione, nel concetto di cultura, dei costumi, ossia
delle usanze, dei modi di vivere e di pensare che caratterizzano un
popolo e contribuiscono alla sua civilizzazione.
La cultura dalla filosofia all'antropologia
Sulla strada intrapresa da Voltaire un ulteriore passo in avanti fu
compiuto dal filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (vissuto nella
seconda metà del 18° secolo), il quale allargò il suo sguardo dai
popoli dell'Europa agli abitanti del resto del mondo. "Anche gli
abitanti della California e della Terra del fuoco ‒ egli scriveva ‒
hanno imparato a fare e usare archi e frecce; hanno linguaggio e
concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li abbiamo imparati
noi"; pertanto sono anch'essi dotati di una cultura, sia pure minima.
Herder sostenne anche che le diverse culture sono come le piante e i
fiori di un grande giardino, tra i quali non ha quindi senso stabilire
chi sia più avanti e chi più indietro, giacché è proprio la loro
diversità a fare bello il giardino. Ed è questa la strada che
seguiranno gli etnografi e gli antropologi tedeschi dell'Ottocento,
instancabili indagatori delle più svariate forme di cultura: l'opera
più rilevante di questa tradizione è la monumentale Storia universale
della cultura dell'umanità (1843-52) di Gustav Klemm. Essa fu letta e
apprezzata dall'antropologo inglese Edward Burnett Tylor, al quale
dobbiamo la prima e più sintetica definizione di cultura in senso
antropologico: la cultura, scrisse Tylor in Cultura primitiva (1871), è
"quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze,
l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società". La cultura
acquisì in tal modo un significato meramente descrittivo, che nel corso
del Novecento avrebbe subito una lunga elaborazione da parte di
numerose discipline.
Gli studi antropologici: dalla cultura alle culture
In una prima fase gli antropologi, partendo dalla definizione di Tylor,
giunsero alla conclusione che tutti i popoli si evolvono seguendo lo
stesso processo, che va dalla cultura primitiva a una cultura
civilizzata; a differenziarli è soltanto la durata della permanenza
nelle varie tappe, la quale fa sì che abbiano un diverso grado di
sviluppo culturale. Già sul finire del 19° secolo, tuttavia,
l'antropologo tedesco Franz Boas, che lavorava negli Stati Uniti,
accusò gli evoluzionisti di aver costruito una "storia immaginaria",
basata su semplici (e a volte ingannevoli) somiglianze tra culture
diverse. Le culture primitive, secondo Boas, dovevano essere studiate
nella loro particolarità, cercando di individuarne gli abiti sociali,
cioè le attività svolte dagli individui, e i prodotti di tali attività,
ossia la cultura materiale. Boas sostenne, inoltre, che ogni cultura
deve le sue caratteristiche non a cause extra-culturali ‒ come la
collocazione geografica, le connotazioni biologiche o psicologiche dei
suoi membri, l'organizzazione economica ‒ ma alla sua storia culturale
precedente e al contatto con altre culture (contatto dovuto alle
migrazioni, attraverso le quali le culture si sono diffuse). Portato
alle sue estreme conseguenze, il principio dell'individualità delle
culture condusse al relativismo culturale, ossia alla concezione
secondo la quale tutte le culture hanno il medesimo valore e quindi non
ha senso metterle a confronto per esprimere giudizi di valore. Nella
seconda metà del Novecento, tuttavia, alcuni antropologi hanno ripreso
le tesi evoluzioniste, sostenendo che un'analisi comparata delle
diverse culture rivela la presenza di alcune caratteristiche comuni e
permette, quindi, di individuare fasi di sviluppo universali. Tali fasi
sarebbero rintracciabili in due importanti rivoluzioni tecnologiche:
quella agricola ‒ che segnò il passaggio dalle attività di raccolta,
caccia e pesca alla coltivazione dei campi e all'allevamento del
bestiame ‒ e quella urbana, che segnò il passaggio dalla vita di
villaggio a quella di città.
La sfida dell'etologia
Come si è detto, il concetto di cultura, nel corso dei secoli, si è
progressivamente dilatato, sino ad assumere un significato diverso da
quello originario. Per un lunghissimo periodo la cultura ha coinciso
con un insieme di saperi altamente qualificati, il cui scopo era
formare l'uomo in quanto tale. A partire dal 18° secolo, però, nel
concetto di cultura sono stati inclusi anche i costumi. Tale
innovazione, sviluppata nel corso del 19° secolo dagli antropologi, ha
condotto a considerare la cultura come l'insieme delle capacità e delle
attività che gli uomini sviluppano grazie all'apprendimento. Secondo
questa prospettiva, è cultura tutto ciò che non è natura. Ma anche
questa nuova definizione è stata messa in discussione. Nella seconda
metà del Novecento, infatti, gli etologi ‒ gli studiosi del
comportamento animale ‒ hanno dimostrato che molte specie animali sono
capaci di apprendere alcuni comportamenti e di trasmetterli ai propri
discendenti; inoltre anche gli animali hanno sistemi di comunicazione,
seppure diversi da quelli umani. In tal modo, come l'antropologia aveva
esteso il concetto di cultura dai popoli 'civilizzati' ai popoli
primitivi, parlando di 'culture primitive', l'etologia ha esteso tale
concetto al mondo animale, sostenendo l'esistenza di 'culture animali'.
Cultura e civiltà nella storiografia
Una concezione della cultura che ebbe una profonda influenza nel corso
del Novecento fu quella del pensatore tedesco Oswald Spengler, secondo
il quale le culture sono come organismi biologici. Ogni cultura, come
ogni essere vivente, ha il suo patrimonio biologico particolare, in
virtù del quale produrrà un proprio mondo simbolico, del tutto diverso
da quello delle altre culture (il che rende impossibile la reciproca
comprensione); e ogni cultura, come ogni essere vivente, è destinata a
morire. Quando lo slancio creativo di una cultura si esaurisce, allora
inizia il suo declino, che corrisponde alla fase della civilizzazione,
dove predomina il sapere tecnico-scientifico. Cultura e civilizzazione
rappresentano per Spengler due fasi diverse nel ciclo vitale di un
popolo: la civilizzazione (Zivilisation) non è altro che l'ultimo
stadio di una cultura (Kultur). E la civiltà occidentale si trova
esattamente in questa fase: non a caso la sua opera si intitola Il
tramonto dell'Occidente (1918-22).
La concezione di Spengler fu ripresa dallo storico inglese Arnold
Joseph Toynbee, il quale sostenne che ogni civiltà ‒ ossia ogni società
complessa che ha superato il livello dell'umanità primitiva ‒ passa
attraverso quattro fasi: nascita, crescita, crollo e disgregazione. Ma
questo ciclo, per Toynbee, non ha un andamento 'fatale', perché dipende
dalla capacità degli uomini di reagire alle sfide interne o esterne.
Una civiltà sorge quando un gruppo umano, rompendo la 'crosta della
tradizione' propria della cultura primitiva, risponde con successo a
una sfida postagli dall'ambiente o dal contatto con altri gruppi: di
qui inizia il suo sviluppo, che proseguirà sin quando tale gruppo saprà
fronteggiare le sfide che l'ambiente e la storia gli propongono.
La cultura nella sociologia
Anche la sociologia contemporanea ha cercato di definire il concetto di
cultura, in alcuni casi ponendolo in relazione con quello di civiltà.
Secondo il sociologo tedesco Alfred Weber, per esempio, cultura e
civiltà sono processi paralleli: la prima comprende le manifestazioni
creative e i valori di una società e si esprime in forme individuali;
la seconda, invece, coincide con il progresso tecnico-scientifico ed è
comune a varie società. Secondo il sociologo americano Talcott Parsons,
invece, la cultura è un sistema simbolico che ha come scopo essenziale
la socializzazione degli individui, ossia il loro inserimento
all'interno del gruppo sociale. Anche il sociologo francese Émile
Durkheim aveva sottolineato tale funzione; partendo da una definizione
più ampia di cultura ‒ come insieme dei modi di pensare, sentire e
agire appresi e condivisi da molte persone ‒ Durkheim aveva sostenuto
che essa permette la costituzione degli individui in una collettività.
Tali collettività possono avere ambiti territoriali diversi: per
esempio, in un unico contesto globale, come quello di una cultura
nazionale, può esistere una molteplicità di collettività parziali,
chiamate subculture, come le culture regionali, quelle etniche, la
cultura dei giovani e così via.
La cultura nella psicoanalisi
Il problema dell'origine della cultura è stato affrontato anche da
Sigmund Freud. Il padre della psicoanalisi ha sostenuto che lo sviluppo
psicologico del singolo e lo sviluppo culturale della specie umana
seguirebbero il medesimo processo, all'inizio del quale si troverebbe
il conflitto con la figura paterna (da lui chiamato complesso di
Edipo). Freud parte dall'ipotesi dell'orda primitiva: al suo interno il
padre esercitava un dominio assoluto, che includeva il monopolio
sessuale di tutte le donne. I figli, uccidendo e mangiando il padre,
mettono fine a tale dominio, ma sono assaliti da un terribile senso di
colpa, che li conduce a fondare l'organizzazione sociale sul tabù
dell'incesto. Lo stesso processo ‒ in modo del tutto simbolico, si badi
bene! ‒ avviene secondo Freud a livello individuale: ogni bambino prova
verso il padre un sentimento ambivalente, di odio e ammirazione al
tempo stesso, perché vede in lui un rivale più forte nella lotta per
l'amore della madre. L'uccisione del padre simboleggia la liberazione
dalla sua autorità, mentre il pasto totemico simboleggia
l'interiorizzazione della medesima autorità (il divenire adulti);
l'esito finale, anche in questo caso, è la repressione di una parte
degli istinti sessuali. Freud, in seguito, generalizzò le sue
conclusioni, elaborando una teoria dello sviluppo culturale. Il
principio del piacere spinge gli individui a soddisfare in modo non
regolato tutti i propri impulsi sessuali; ma un simile comportamento
rende impossibile la nascita di qualsiasi forma di vita sociale. Ogni
società poggia quindi sul principio di realtà, ossia sul riconoscimento
che non tutti i nostri desideri possono essere soddisfatti; ed è
proprio la repressione parziale degli istinti sessuali che permette di
liberare l'energia psichica necessaria per raggiungere obiettivi più
complessi, di tipo sociale e culturale. Se per un verso la repressione
degli istinti sessuali è dunque necessaria, per un altro l'eccesso di
repressione può provocare la disgregazione della vita sociale:
indebolisce infatti l'Eros e mette in libertà impulsi aggressivi e
distruttivi.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it