cultura



1. Introduzione

La seconda metà del sec. XVIII ha segnato una svolta decisiva nell'elaborazione del concetto di cultura, anche sotto il profilo terminologico. È in questa epoca, infatti, che esso cessa di indicare in modo esclusivo il processo di formazione della personalità umana e la sua capacità di ‛coltivarsi', secondo una metafora che chiaramente rimanda al significato etimologico del termine, per designare invece una realtà oggettiva, vale a dire una condizione propria dell'umanità intera o di un singolo popolo, oppure il movimento che deve condurre al raggiungimento di tale condizione. Non più la ciceroniana cultura animi, non più la cultura umanisticamente intesa come lo sforzo di educazione attraverso il quale la personalità individuale viene formandosi, nell'intento di adeguarsi a un modello ideale di umanità, bensì la cultura concepita come lo sviluppo verso uno stato sociale contrapposto alla barbarie, che caratterizza la vicenda storica del genere umano o di una sua determinata parte. Il trapasso dal significato ‛soggettivo' al significato ‛oggettivo' del termine - linguisticamente percepibile anche dalla caduta del complemento di specificazione che lo aveva di solito accompagnato - è perciò rivelativo di una più profonda trasformazione concettuale, vale a dire del passaggio da una determinazione in termini individuali a una determinazione in termini storico-sociali della cultura. La cultura appare tuttora considerata, il più delle volte, come un processo di formazione; ma questo non riguarda più il singolo bensì l'umanità o un gruppo sociale, e le varie fasi di sviluppo della cultura vengono fatte coincidere con le tappe storiche del cammino dell'umanità. Le Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit di J. G. Herder (pubblicate tra il 1784 e il 1791) rappresentano il primo esempio di impiego su larga scala del concetto di cultura in questa nuova accezione. Attraverso l'opera di sistemazione teorica dell'etnologia tedesca della prima metà dell'Ottocento - basterà qui ricordare l'Allgemeine Cultur-Geschichte der Menschheit (1843-1852) e la Allgemeine Culturwissenschaft (1854-1855) di G. F. Klemm - esso si è trasmesso fino all'antropologia evoluzionistica e, di qui, all'antropologia contemporanea.
Non è casuale che la trasformazione del concetto di cultura si sia compiuta nel mondo tedesco nel corso del trapasso, per tanti aspetti ancora oscuro, dall'illuminismo al clima intellettuale romantico. Ciò vale a spiegare la contrapposizione tra cultura e civilisation, che rappresenterà in seguito un motivo ricorrente nella storia dei rapporti tra i due termini. Prodotto peculiare del pensiero illuministico francese, ma ben presto diffuso anche oltre la Manica, il concetto di civilisation era servito soprattutto a designare un livello di vita associata che si colloca al di là dell'esistenza asociale dei popoli selvaggi e dell'esistenza sociale, ma ancor priva di un'organizzazione razionale, dei popoli barbari: un livello di vita caratterizzato dal progressivo sviluppo della ragione umana, dal suo sforzo di dominio della natura e dall'impegno verso il miglioramento delle condizioni di esistenza degli uomini. In questo modo la tripartizione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà veniva a indicare le grandi fasi successive dello sviluppo dell'umanità nel suo avanzamento verso uno stato finale caratterizzato dall'acquisizione dell'autonomia razionale da parte dell'uomo e dalla diffusione crescente dei ‛lumi'. Questa concezione della storia come storia della civiltà sta alla base dell'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations (1756) e delle altre opere storiche di Voltaire, e costituisce pure il nucleo ispiratore della storiografia illuministica inglese, da Hume a Robertson e a Gibbon. Anche se nell'opera di Voltaire è ancora assente il termine civilisation - che compare soltanto verso la fine degli anni sessanta, al termine della grande stagione produttiva dell'illuminismo francese, per poi diffondersi rapidamente nei due decenni successivi - il verbo civiliser e l'aggettivo civilisé vi occupano invece un posto di primo piano, e si trovano largamente impiegati da numerosi altri autori di quel periodo.
Cultura e civiltà: due termini, due concetti che sorgono dunque sulla base di due tradizioni differenti, e che esprimono - nonostante la loro apparente somiglianza - due diverse concezioni dell'uomo e della storia. Ciò spiega sia la tendenza abbastanza frequente a definirli in antitesi l'uno con l'altro, sia la difficoltà di tradurre la loro contrapposizione in una distinzione di carattere ‛neutrale'. La polemica antiilluministica condotta da Herder in Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774), il violento pamphlet che rappresenta la prima espressione dello storicismo romantico, è anche una presa di posizione ante litteram del concetto di cultura nei confronti del concetto di civiltà. Tra la polemica del giovane Herder e la contrapposizione - frequente nel pensiero tedesco del periodo successivo alla prima guerra mondiale - tra l'attività creatrice della Kultur e il carattere puramente meccanico della Zivilisation tecnico-scientifica, vi è un legame di continuità che non è difficile riconoscere, pur nel mutare dell'orizzonte storico. E, sull'altro versante, la rivendicazione della civilisation, prodotto di un impegno razionale, contro le manifestazioni oscure e primitive della Kultur costituisce una risposta di chiara origine illuministica alla concezione romantica della storia.
Non è certamente questa la sede adatta per tentare anche soltanto di abbozzare una storia di questi due concetti, dei loro rapporti e della loro contrapposizione, che richiederebbe la ricostruzione delle linee di sviluppo della storia intellettuale (e non soltanto intellettuale) europea degli ultimi due secoli. Quel che qui preme è piuttosto di individuare - al di là di quest'antitesi apertamente ideologica - i significati principali che il concetto di cultura ha assunto nell'epoca contemporanea, i concetti ad esso di volta in volta correlati positivamente o negativamente, il complesso di problemi in relazione ai quali esso si è venuto definendo. In questa prospettiva la contrapposizione tra cultura e civiltà riveste un'importanza indubbiamente minore; e ciò soprattutto in seguito al consolidarsi del primo termine in precisi contesti disciplinari e, al contrario, alla maggiore indeterminatezza in cui è rimasto il secondo.
Cultura e civiltà hanno infatti avuto, nel panorama intellettuale del Novecento, un destino assai diseguale. Il concetto di civiltà si è dimostrato più tenacemente refrattario a una definizione scientifica, e quindi a un impiego neutrale; anche quando si è cercato di usarlo in questo modo, esso ha mantenuto una mal celata impronta valutativa. Più che un concetto suscettibile di essere formulato in regole precise, la civiltà si è rivelata un'idea, talvolta addirittura un modello ideale. Anche lasciando da parte troppo scoperte esaltazioni di stampo etnocentrico della civiltà contro la barbarie, o della civiltà occidentale nei confronti di altre civiltà - ricorrenti tanto nelle ideologie colonialistiche quanto nella propaganda dei tempi della ‛guerra fredda' - le varie teorie storico-filosofiche della civiltà sono servite, di solito, a discriminare in termini di valore le diverse forme di organizzazione sociale, cioè a individuare nello sviluppo dell'umanità un livello di vita considerato ‛superiore'. Il concetto di cultura è stato invece oggetto di una lunga elaborazione che ha fatto di esso un concetto-chiave delle scienze sociali. Anche se l'uso del termine in chiave valutativa è tuttora largamente diffuso, né si può presumere che abbia a scomparire - basti pensare a contrapposizioni come quelle tra ‛cultura' e ‛ignoranza', tra ‛cultura di élite' e ‛cultura di massa' -, il concetto di cultura ha assunto per altro verso una veste scientifica, conquistando un posto di rilievo non soltanto nella storiografia o nella discussione filosofica, ma anche in discipline come l'antropologia, la sociologia, la psicanalisi e, più di recente, l'etologia.
La differenza dei contesti disciplinari ha largamente condizionato la concezione della cultura e la problematica relativa ai suoi diversi significati. Non c'è dubbio, per esempio, che l'importanza preminente assunta dal contesto antropologico, dagli ultimi decenni del secolo scorso fin verso gli anni cinquanta, ha posto in primo piano problemi quali quelli della struttura interna della cultura intesa in senso globale, cioè come il patrimonio sociale dell'umanità o di un determinato gruppo sociale che ne costituisce il portatore, o ancora della pluralità e dei rapporti tra le culture, del relativismo culturale, dell'acculturazione, e così via. Ma la diversità di contesto non è, a ben vedere, determinante. Molti dei problemi che caratterizzano la discussione contemporanea sulla cultura ricorrono infatti in contesti differenti, mantenendo però la loro fisionomia peculiare e conducendo a impostazioni analoghe. L'intrecciarsi dei contesti disciplinari appare quindi altrettanto importante della loro diversità. Per comprendere la complessa articolazione del dibattito contemporaneo sulla cultura, nonché le formulazioni concettuali alle quali ha dato luogo, sarà necessario tener conto di entrambe queste coordinate, e perciò tracciare una specie di ‛mappa' semantica che renda conto sia della configurazione specifica che la discussione ha assunto all'interno di una data disciplina, sia delle relazioni che intercorrono tra i diversi contesti disciplinari.
Nel far ciò si procederà muovendo dai significati più generali ai più specifici, cioè dalle designazioni più comprensive della cultura alle sue accezioni più determinate e quindi particolari. Per questa via è possibile, come si vedrà, individuare alcuni principali campi di discussione: a) il dibattito sulla cultura come concetto che designa l'elemento propriamente ‛umano', ossia le caratteristiche distintive del mondo dell'uomo nei confronti della natura, o del comportamento umano nei confronti del comportamento animale; b) il dibattito sull'origine e sull'evoluzione della cultura, che prende le mosse dall'antropologia ottocentesca e che si sviluppa attraverso la critica dei suoi presupposti; c) il dibattito sulle basi psichiche della cultura, che ha il suo punto di partenza nell'opera di Freud e che si articola attraverso il confronto tra prospettive psicanalitiche e prospettive antropologiche; d) il dibattito sulla pluralità delle culture e sulle implicazioni filosofiche del riconoscimento dell'esistenza di culture individuali, caratterizzate da propri sistemi di valori; e) il dibattito sulle differenze e sui rapporti tra le culture, che si sviluppa attraverso la ricerca di criteri distintivi tra culture primitive e civiltà, per approdare allo studio dei fenomeni di acculturazione; f) il dibattito sulla cultura intesa come sistema specifico, ossia come un aspetto del processo storico distinto dalla vita politica ed economica o come un aspetto della sovrastruttura (in senso marxiano) distinto sia dalla struttura economica, cioè dai rapporti di produzione e di lavoro, sia dalla sfera anch'essa sovrastrutturale dei processi politici; g) il dibattito sui rapporti tra cultura e società, con i tentativi che ne sono derivati di analizzare la stratificazione sociale della cultura, la sua organizzazione, i suoi rapporti con le tendenze di sviluppo proprie della società contemporanea.

2. La cultura come designazione dell'elemento propriamente umano

Il ricorso al concetto di cultura per individuare il processo storico dell'umanità e per differenziarlo dalla natura è di origine herderiana, e si trova largamente diffuso nella concezione romantica della storia. Ma la distinzione nei confronti della natura era ben lungi dal significare un'opposizione a essa: la cultura sorge infatti sulla base della natura e con la natura mantiene, almeno ai suoi inizi, un rapporto di sostanziale continuità. Per lo Herder delle Ideen il processo storico dell'umanità ha il proprio punto di partenza in un quadro cosmico-naturale che ne costituisce il presupposto necessario: ‟stella tra le stelle", il nostro pianeta offre l'ambiente adatto per l'esistenza dell'uomo, per la sua peculiare organizzazione fisica e per la diffusione del genere umano sulla superficie terrestre, da cui trae origine la storia. Di conseguenza, il distacco della cultura dalla natura si compie gradualmente, nella misura in cui l'umanità percorre le varie tappe del suo processo di formazione e acquisisce così la propria autonomia. In questi termini la distinzione natura-cultura esprime un duplice rapporto di continuità e di progressiva differenziazione. Da ciò deriva l'insistenza - soprattutto da parte della Scuola storica tedesca - sulla relazione tra la cultura e i singoli popoli che ne sono portatori: l'individualità dello ‛spirito del popolo' viene assunta a principio esplicativo delle manifestazioni culturali di ogni popolo, dando luogo al riconoscimento di una molteplicità di forme etniche di cultura attraverso le quali si realizza il processo storico dell'umanità.
Sostanzialmente diverso appare il significato della distinzione tra natura e cultura quando, negli ultimi anni dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, essa viene ripresa per dare una risposta al problema della differenziazione tra scienze della natura e scienze storico-sociali. L'impostazione herderiana è completamente messa in disparte e la base per la soluzione del problema è fornita da una teoria della conoscenza di derivazione kantiana. Negli scritti di W. Windelband (che nel 1894 scrive il saggio Geschichte und Naturwissenschaft) e del suo allievo H. Rickert, l'antitesi tra natura e cultura designa anzitutto due modi di considerazione della realtà, connessi a due diversi orientamenti del conoscere: la natura è la realtà considerata in riferimento a leggi generali, mentre la cultura è la realtà considerata in riferimento all'individuale. Così la cultura risulta definita come l'oggetto specifico della conoscenza storica, e reciprocamente questa viene determinata in base alla relazione con valori culturali che trovano nella storia il loro campo di realizzazione. Anche se Windelband aveva ammesso - in polemica con la concezione diltheyana delle ‛scienze dello spirito' - la possibilità che qualsiasi fenomeno divenga oggetto sia della scienza naturale sia della conoscenza storica, la contrapposizione metodologica tra natura e cultura si è di fatto tradotta, in Rickert, in un'equivalenza tra mondo storico e cultura, concepiti come un mondo logicamente autonomo rispetto a quello studiato dalla scienza naturale. L'affermazione dell'irriducibilità delle scienze storico-sociali al procedimento generalizzante della scienza della natura diventa così la base di una concezione onnicomprensiva della cultura, che la identifica col mondo storico-sociale dell'uomo. A ciò si accompagna un'ulteriore determinazione, destinata ad avere largo seguito nei decenni successivi: la definizione della cultura in termini di valori, o più precisamente di rapporto con i valori. Ciò che costituisce l'elemento differenziante della cultura rispetto alla natura è la relazione dei suoi processi con determinati valori - poco importa se trascendenti o immanenti - i quali danno a essi significato: la significatività di un avvenimento storico, ciò che lo rende anzi un ‛individuo' storico, consiste nella relazione con i valori che esso realizza.
Un'analoga matrice kantiana si trova sovente nei principali tentativi di ‛filosofia della cultura' compiuti nella prima metà di questo secolo. Ciò vale soprattutto nel caso di E. Cassirer, il quale - muovendo da una posizione di ortodossia neocriticistica quale quella della Scuola di Marburg - è pervenuto, prima nella Philosophie der symbolischen Formen (1923-1929) e più tardi nell'Essay on man (1944), a una concezione dell'uomo come animale simbolico e quindi a una considerazione del mondo umano come il risultato di processi di simbolizzazione. Non soltanto la conoscenza scientifica, ma anche il linguaggio e il mito, la religione e l'arte e, più in generale, tutte le forme di attività umana sono, in questo senso, forme simboliche. Il richiamo da un lato alla tradizione della linguistica ottocentesca (da W. von Humboldt a M. Müller) e dall'altro agli studi sul pensiero mitico (da E. B. Taylor e J. G. Frazer fino a L. Lévy-Bruhl) e, insieme a esso, l'interpretazione in chiave kantiana dello sviluppo della scienza moderna conducono Cassirer a individuare l'elemento specifico dell'attività umana nella capacità di produrre simboli e di creare in tale maniera un universo differente da quello naturale, in cui il rapporto con la natura è mediato dall'uso dei simboli. Gli animali si avvalgono puramente di segni, mai di simboli; l'uomo soltanto è animale simbolico. Perciò egli non si pone direttamente di fronte alla realtà circostante, ma può soltanto interpretarla attraverso determinate forme simboliche che danno forma all'esperienza. E l'universo simbolico così costituito non è altro che la cultura, la quale comprende tutti i campi dell'attività umana in quanto attività simbolica. Compito di una ‛filosofia della cultura' diventa perciò quello di individuare le forme simboliche che stanno a base di questi diversi campi, di riconoscerle nella loro specificità e di analizzarne i rapporti: mentre le scienze storico-sociali studiano il contenuto molteplice della cultura, alla riflessione filosofica spetta determinarne i principi produttivi.
Non nella ‛filosofia della cultura' di Cassirer, alla quale è sostanzialmente estranea qualsiasi dimensione sociologica, bensì nell'antropologia culturale così come si viene sviluppando, nella prima metà del secolo, in terra americana - soprattutto ad opera di F. Boas e della sua scuola - si può trovare l'elaborazione e l'impiego sistematico di un significato ‛totale' della cultura, definita come un campo di indagine autonomo e distinto rispetto all'oggetto delle varie discipline naturalistiche. In realtà, tale significato era stato enunciato per la prima volta fin dal 1871, nel primo capitolo di Primitive culture, da E. B. Tylor, e aveva fornito all'antropologia evoluzionistica di fine Ottocento il fondamento teorico per riconoscere l'esistenza di una ‛cultura primitiva' caratterizzata da una propria fisionomia, che costituisce il punto di partenza dello sviluppo culturale dell'umanità. Tylor aveva dato della cultura una definizione tale da comprendervi non soltanto le attività specificamente intellettuali come la religione, il sapere scientifico, l'arte, la morale e il diritto ma anche il costume e, in generale, qualsiasi capacità o abitudine acquisita socialmente. Proprio questa estensione dell'ambito della cultura gli aveva consentito di mostrarne la presenza ovunque esiste o è esistita una società umana con suoi particolari costumi, e quindi anche presso i popoli primitivi. Tylor riprendeva così l'interpretazione illuministica dello sviluppo storico come passaggio graduale dallo stato selvaggio alla barbarie, e dalla barbarie alla civiltà; ma riconosceva nei popoli selvaggi una forma particolare di cultura qualificata come ‛cultura primitiva', che ha la propria base nell'animismo e che si presenta con caratteri uniformi presso tutti i popoli.
Pur respingendo lo schema storico-evolutivo di Tylor e la sua interpretazione della ‛cultura primitiva' come momento a sé stante dell'evoluzione culturale dell'umanità, rintracciabile nella storia di ogni società, Boas accoglie questo significato ‛totale' della cultura e lo assume come base per definire l'impostazione della scienza antropologica. La cultura viene in tal modo a configurarsi come un complesso di elementi o di ‛tratti', nel cui interno si possono distinguere due componenti principali: da una parte gli ‛abiti' sociali, cioè le reazioni e le attività che caratterizzano il comportamento degli individui i quali fanno parte di una certa comunità, dall'altra i prodotti di quest'attività, vale a dire quella che l'etnologia ottocentesca aveva qualificato con l'espressione ‛cultura materiale'. Della cultura così intesa Boas mette in rilievo due aspetti fondamentali: il suo carattere acquisito e la sua irriducibilità a condizioni extraculturali. In The mind of primitive man (1911) Boas definisce la cultura in base al suo peculiare meccanismo di trasmissione: la cultura non è, nè può essere, oggetto di trasmissione per via genetica, ma è invece oggetto di apprendimento. Essa costituisce un'eredità non biologica ma sociale, un patrimonio non del singolo individuo bensì del gruppo sociale. Di conseguenza, i fenomeni culturali possono essere spiegati soltanto riportandoli ad altri fenomeni anch'essi culturali, non già attraverso un'arbitraria riduzione a fenomeni esterni alla cultura. La cultura non è determinata dall'ambiente geografico, tant'è vero che forme di cultura differenti possono sorgere in ambienti simili e forme di cultura analoghe si presentano in ambienti quanto mai diversi; la cultura non è determinata dalle caratteristiche biologiche dei popoli, poiché tra differenze razziali e differenze culturali non c'è corrispondenza; infine la cultura non è neppure determinata economicamente, poiché la stessa struttura economica dipende a sua volta da condizioni culturali, anzi è parte della cultura.
Riprendendo la polemica anti-deterministica di Boas allo scopo di garantire l'autonomia metodologica dell'antropologia culturale, R. H. Lowie perviene a ribadire, in Culture and ethnology (1917) e in Primitive society (1920), l'irriducibilità dei fenomeni culturali non soltanto a condizioni geografiche o biologiche, ma anche a caratteristiche psicologiche: le ‛determinanti' della cultura possono essere interne o esterne, cioè possono risiedere nel corso precedente di una data cultura o nei suoi rapporti con altre culture, ma in entrambi i casi rivestono carattere culturale. Il punto di vista boasiano trova la sua formulazione estrema nel tentativo di elaborare una teoria della cultura che ne giustifichi l'autonomia anche sul terreno ontologico, sviluppato da A. L. Kroeber nel saggio The superorganic (1917) e in numerose opere successive (tra cui particolare importanza assume il Volume Anthropology, apparso nel 1923 e ripubblicato in nuova versione nel 1948). Richiamandosi alla distinzione spenceriana tra evoluzione inorganica, evoluzione organica ed evoluzione super-organica, Kroeber individua in quest'ultima la sede propria della cultura, fino a differenziarla - negli scritti posteriori al 1930 - anche nei confronti della società. La cultura costituisce infatti un livello di organizzazione (il più complesso e quindi il più elevato di tutti) distinto non soltanto da quello dei fenomeni fisici o chimici o biologici o psicologici, ma anche dal livello dei fenomeni sociali. In quanto irriducibile a una base psicologica, la cultura è super-individuale; in quanto irriducibile all'organizzazione sociale, la cultura è parimenti super-sociale. Non la vita in società, rintracciabile anche presso altre specie, bensì la cultura rappresenta per Kroeber l'attributo peculiare dell'uomo.
Ciò non vuol dire che Boas e la scuola boasiana intendano definire la cultura in contrapposizione alla natura; anche per Kroeber, infatti, i fenomeni culturali fanno sempre parte della natura, pur costituendone un livello con sue caratteristiche proprie. Il loro intento è invece quello di definire la cultura come una realtà specifica, non riconducibile a fenomeni di altro genere anche se ovviamente condizionata dal rapporto con essi, e di stabilire altresì un'equivalenza tra la cultura e il mondo umano. In quest'opera di elaborazione teorica Boas e la scuola boasiana si sono trovati ad affrontare il problema del limite inferiore della cultura, ossia il problema della demarcazione tra comportamento umano e comportamento animale. La risposta a tale problema appare strettamente conforme al presupposto dell'esclusività umana della cultura, che a sua volta appare fondato su un altro presupposto: quello dell'esclusività umana del linguaggio. Se presso molte specie animali si possono trovare forme di organizzazione sociale, e quindi anche qualcosa di analogo agli abiti sociali, la cultura rimane una proprietà dell'uomo, in quanto soltanto l'uomo è capace di apprendimento. In un saggio del 1932 un antropologo statunitense estraneo alla scuola boasiana (anche se per qualche aspetto influenzato da Kroeber), G. P. Murdock, indicava i quattro fattori della cultura nella capacità di formazione degli abiti, nella vita sociale, nell'intelligenza e nel linguaggio, concludendo che, mentre i primi tre possono venir rintracciati pure nel mondo animale, l'ultimo - che è poi quello decisivo - appare proprio soltanto dell'uomo. Il linguaggio diventa così l'elemento differenziante della cultura, e la cultura viene riconosciuta come attributo specifico del comportamento umano.
Il concetto di cultura viene in tal modo assunto a base di una differenziazione in termini qualitativi tra comportamento umano e comportamento animale. L'antitesi tra natura e cultura - teorizzata da Cassirer e, più in generale, dalla ‛filosofia della cultura' - viene sostituita dalla distinzione tra il mondo animale, caratterizzato da una trasmissione per via genetica, e il mondo umano, nel quale all'eredità biologica si affianca un'altra forma di trasmissione, fondata sull'apprendimento e quindi sul linguaggio. Ma proprio quest'affermazione dell'eterogeneità tra comportamento umano e comportamento animale, che discende dal presupposto dell'esclusività umana della cultura, è stata in epoca recente messa in questione dallo sviluppo degli studi sul comportamento animale. Una nuova disciplina sorta sul tronco delle scienze biologiche, l'etologia, ha infatti contestato tale principio, spostando all'interno del mondo animale la ricerca di un limite inferiore della cultura e proponendosi di rintracciare presso altre specie le radici (o magari forme parallele di sviluppo) dei fenomeni culturali prima ritenuti peculiari all'uomo. Gli studi di K. von Frisch, di K. Lorenz, di N. Tinbergen e di numerosi altri studiosi hanno mostrato che anche altre specie animali sono in grado di produrre - e quindi di trasmettere - cultura, in quanto sono anch'esse capaci di apprendimento. La stessa antitesi tra trasmissione per via genetica e trasmissione culturale è stata messa in questione attraverso l'analisi del fenomeno dell'imprinting, ossia di un tipo particolare di apprendimento limitato al periodo immediatamente successivo alla nascita (e in certi casi addirittura al periodo prenatale) e accompagnato dalle cure dei genitori, in virtù del quale il neonato acquisisce certi modi di comportamento tipici della propria specie i quali risultano, in seguito, irreversibili: la preferenza per determinati cibi, la capacità di riconoscere i membri della propria specie, l'ostilità o la tolleranza verso specie differenti. Ma soprattutto è stata dimostrata l'infondatezza del presupposto ultimo sul quale si reggeva l'affermazione dell'esclusività umana della cultura, cioè l'infondatezza del presupposto secondo cui soltanto l'uomo possiede un linguaggio. La presenza di caratteristiche simboliche nei modi di comunicazione di varie specie animali rende ormai insostenibile la loro riduzione a un livello puramente segnico, e impone di riconoscere l'esistenza di veri e propri linguaggi animali.
Se anche nel mondo animale esistono forme di apprendimento, di comportamento simbolico, di linguaggio, se cioè esiste una ‛cultura animale' la cui analisi può essere di aiuto anche per la spiegazione delle basi biologiche della cultura umana, appare chiaro che il concetto di cultura non può più essere impiegato allo scopo di designare le caratteristiche peculiari del mondo umano. Il concetto di cultura ha perduto la funzione discriminante ad esso attribuita e sulla quale poggiava la pretesa di autosufficienza metodologica dell'antropologia culturale (almeno nell'impostazione di Boas e della scuola boasiana). Lo stesso problema della determinazione dei tratti specifici del comportamento umano si pone in termini differenti e richiede di essere affrontato tenendo conto dell'esistenza presso altre specie animali non soltanto di una vita sociale con proprie forme di organizzazione - come era stato ammesso da Spencer a Kroeber e a Murdock - ma anche di altri tipi di cultura, con propri processi di apprendimento e quindi anche di adattamento a nuovi ambienti e di trasformazione strutturale. In questo modo l'etologia, mentre mette in crisi la tradizionale delimitazione del concetto di cultura al mondo umano, apre ad esso un nuovo campo di applicazione. Il concetto di cultura sembra così assolvere una funzione analoga a quella che aveva avuto un secolo prima, allorché Tylor era pervenuto alla formulazione del suo significato ‛totale'. Allora esso aveva consentito di riconoscere l'esistenza di una ‛cultura primitiva' dalla quale derivano le forme di cultura più progredite, allargando l'ambito della cultura dall'esistenza storica alla vita preistorica dell'umanità e spostando all'indietro nel tempo la ricerca della sua origine. Analogamente, esso permette oggi di riconoscere l'esistenza di una ‛cultura animale' che costituisce l'antecedente biologico della cultura umana, estendendo ulteriormente l'ambito della cultura ad altre specie e recuperando a una considerazione in termini culturali anche il comportamento animale.

3. Origine e evoluzione della cultura

Il problema dell'origine e dell'evoluzione della cultura ha avuto un'importanza centrale nell'antropologia di fine Ottocento; anzi, esso è alla base del costituirsi dell'antropologia come disciplina autonoma. L'interesse preminente per le forme primitive di cultura ha infatti posto in primo piano la questione dell'origine della cultura, cioè delle condizioni e delle modalità di passaggio dell'umanità da un'esistenza puramente naturale a un'esistenza storica; mentre, d'altra parte, la considerazione della distanza che intercorre tra tali forme e il livello presente di civiltà ha condotto a determinare il processo attraverso il quale l'umanità si è venuta sviluppando fino a questo livello e, quindi, anche i momenti o le epoche fondamentali in cui si è articolato. Nell'affrontare questo duplice problema l'antropologia evoluzionistica ha fatto appello al presupposto dell'unità dello sviluppo culturale, ossia della sostanziale uniformità del processo evolutivo dei diversi popoli e delle sue singole fasi. Tutti i popoli hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, la quale fornisce la chiave per comprendere il motivo del loro diverso grado di sviluppo culturale. Questa impostazione ha consentito, tra l'altro, di istituire uno stretto parallelismo tra la società antica (in particolare quella del periodo arcaico) e la struttura sociale dei popoli ancora allo stato primitivo, ritrovando in questi ultimi l'equivalente del passato preistorico del mondo europeo. L'adozione del metodo comparativo come strumento di ricostruzione delle varie fasi del processo evolutivo della cultura si proponeva appunto di individuare - mediante l'impiego congiunto di testimonianze storiche e del materiale etnografico - le caratteristiche specifiche di ognuna di esse, nonché l'ordine della loro successione. Poco importa che l'origine della cultura venga rintracciata nel matriarcato o nel patriarcato, o invece in un animismo primitivo dal quale scaturiscono prima il politeismo e quindi il monoteismo (secondo lo schema formulato da Tylor in Primitive culture), oppure che l'evoluzione della cultura venga delineata sulla base della progressione delle forme di organizzazione sociale, delle forme di struttura familiare e delle istituzioni di proprietà, dando luogo a una caratterizzazione sistematica dei singoli periodi dello stato selvaggio, della barbarie e della civiltà (secondo l'analisi condotta nel 1877 da L. H. Morgan in Ancient society, e poi ripresa da Engels), o ancora che la direzione dello sviluppo culturale sia individuata nel trapasso dalla magia alla religione e quindi dalla religione alla scienza (come fa J. G. Frazer in The golden bough, apparso nel 1890 e ripubblicato più volte in edizioni accresciute). Al di là delle differenze anche rilevanti che separano i maestri dell'antropologia evoluzionistica, l'impostazione teorica rimane fondamentalmente la stessa.
Proprio questa impostazione è stata oggetto di critica da parte della scienza antropologica contemporanea, fin dal saggio di Boas The limitations of the comparative method of anthropology (1896). Tale critica è stata diretta a mostrare l'infondatezza del presupposto di una evoluzione unilineare, e quindi delle corrispondenze che in base ad esso l'antropologia evoluzionistica aveva ritenuto di poter scoprire nello sviluppo culturale dell'umanità. Boas, in particolare, ha insistito sulla molteplicità di forme che un medesimo fenomeno etnologico può assumere in contesti differenti, e quindi sull'individualità del processo evolutivo di ogni popolo, contestando quindi la pretesa di attingere - mediante il metodo comparativo - leggi generali di sviluppo universalmente valide e ponendo invece in rilievo l'importanza del fenomeno della diffusione, che può spiegare la presenza di analogie culturali in popoli geograficamente anche lontani. Ma il rifiuto dell'impostazione evoluzionistica si estende pure all'antropologia britannica del periodo tra le due guerre (e in parte a quella posteriore). A. R. Radcliffe-Brown ha infatti respinto il tipo di ricostruzione a cui essa aveva dato luogo qualificandola negativamente come ‟storia congetturale" e denunciando il carattere arbitrario di gran parte delle generalizzazioni così ottenute; mentre B. Malinowski ha criticato il concetto di sopravvivenza - di cui Tylor si era servito per risalire dallo stato presente dello sviluppo culturale alle sue fasi precedenti - proclamando la necessità di determinare su base sincronica la funzione delle istituzioni che costituiscono una data cultura e le loro correlazioni funzionali. In entrambi i casi il problema dell'origine e dell'evoluzione della cultura appare uno pseudoproblema: nel caso di Boas e della scuola boasiana perché il processo di sviluppo culturale è diverso da popolo a popolo, nel caso di Radcliffe-Brown e di Malinowski perché la ricostruzione del passato culturale è al di fuori della sfera di competenza dell'antropologia.
Alla ricerca delle fasi successive di sviluppo della cultura, intesa come un processo sostanzialmente unitario, subentra perciò l'analisi delle diverse aree culturali, del loro ambito geografico e delle loro caratteristiche specifiche. Soprattutto O. T. Mason, C. Wissler e in seguito lo stesso Kroeber (in Cultural and natural areas of native North America, del 1939), affrontando lo studio delle popolazioni indiane del Nordamerica, si sono proposti di individuare le unità geografiche caratterizzate da tratti culturali comuni, e hanno visto in esse il risultato di un processo di diffusione da un centro. In tal modo il principio della diffusione - la cui importanza era stata sottolineata pure da Boas - veniva assunto come strumento per determinare l'età relativa delle caratteristiche proprie di una certa area, in base al presupposto che le caratteristiche più remote devono essere quelle più distanti dal centro, mentre le più recenti si collocano vicino al luogo di origine dell'area culturale. A questa utilizzazione metodologica del principio della diffusione ha fatto riscontro, nel mondo britannico e in quello austrotedesco, l'elaborazione di teorie diffusionistiche di ben più vasta portata, intese a ricondurre le varie forme di cultura a determinati centri di propagazione o, al limite, a un unico centro geografico dal quale la cultura si sarebbe diffusa per tutta la terra in concomitanza con fenomeni migratori o di contatto. Autori come W. H. R. Rivers, G. E. Smith e W. G. Perry in Inghilterra, come F. Graebner in Germania, come W. Schmidt in Austria si sono avvalsi a tale scopo dei concetti di diffusione e di ambito culturale, contrapponendo allo schema storico-evolutivo dell'antropologia ottocentesca un'impostazione nella quale il problema dell'origine della cultura assumeva un significato spaziale anziché temporale, mentre il problema dell'evoluzione veniva tradotto in termini geografici.
Per lungo tempo respinta dall'antropologia contemporanea, l'impostazione evoluzionistica ha avuto un'ampia ripresa negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, a partire da Man makes himself (1936) di V. G. Childe, e ancor più nel dopoguerra, attraverso la pubblicazione degli altri scritti dello stesso Childe (come What happened in history del 1946 e Social evolution del 1951) e l'opera di studiosi come L. A. White e J. Steward. Essi si richiamano allo schema storico-evolutivo dell'antropologia di fine Ottocento, ma il loro tentativo appare assai più elaborato e metodologicamente scaltrito. Lungi dal negare la diversità di sviluppo delle varie aree culturali, essi si propongono infatti di determinare non soltanto il processo evolutivo generale della cultura, ma anche le particolari sequenze di sviluppo delle singole culture. In questo senso Steward ha contrapposto la teoria dell'evoluzione multilineare - che egli ritiene propria del neoevoluzionismo - alla teoria ottocentesca dell'evoluzione unilineare; e anche se White ha rifiutato tale distinzione, insistendo sulla continuità della propria posizione rispetto a Morgan, le differenze teoriche rimangono tuttavia abbastanza nette. Il problema dell'origine della cultura assume la forma più specifica dell'analisi del trapasso da una condizione primitiva allo stato di civiltà, e la ricostruzione del passato culturale dell'umanità appare orientata in vista della determinazione dei mutamenti tecnologici attraverso i quali si è compiuto il suo incivilimento. Childe individua alla base del sorgere della civiltà due successive ‛rivoluzioni', che hanno radicalmente trasformato il modo di approvvigionamento e quindi il sistema di produzione: la rivoluzione agricola, in virtù della quale la coltivazione e l'allevamento del bestiame hanno preso il posto delle tecniche di caccia, di pesca e di raccolta, e la rivoluzione urbana, attraverso la quale si è compiuto il passaggio dalla vita di villaggio alla vita di città. Nella città si sviluppano infatti la divisione del lavoro e le distinzioni di classe, la produzione in vista dello scambio e il mercato; nella città trova il suo centro l'organizzazione statale che subentra a quella tribale; nella città si determinano le condizioni indispensabili per un'autonoma attività intellettuale e per la formazione di un ceto professionale impegnato in essa. La città diventa così la sede di un nuovo tipo di vita sociale, che risulta strutturalmente differente da quello che l'ha preceduto e che può appunto essere definito come civiltà.
Se fino a pochi decenni or sono l'impostazione evoluzionistica sembrava scomparsa dall'orizzonte dell'antropologia contemporanea, essa è oggi risorta a nuova vita, ed è al centro di un dibattito particolarmente intenso negli Stati Uniti e nei paesi dell'America meridionale. Essa ha trovato il suo principale campo di prova nell'analisi delle culture centro- e sudamericane, caratterizzate da un grado di sviluppo notevolemente diverso da quello delle tribù nordamericane alle quali aveva rivolto il proprio interesse la scuola boasiana, o da quello delle popolazioni africane o oceaniane che avevano costituito l'oggetto delle ricerche condotte dall'antropologia inglese. Lo studio di società caratterizzate da insediamenti urbani, da forme complesse di organizzazione produttiva, da sistemi politici di carattere non più tribale ma statale, riproponeva infatti il problema dell'origine delle città, dei rapporti tra città e campagne circostanti, delle condizioni tecnologiche che stanno alla base di questi fenomeni. Ma tale problema poteva trovare risposta soltanto attraverso una ricostruzione storica, cioè attraverso l'individuazione dei momenti successivi di un processo evolutivo e delle modalità di trapasso dall'uno all'altro momento. Questa ricostruzione non si propone però di riportare lo sviluppo dei diversi popoli a uno schema universalmente valido, ma prende in considerazione anche le variabili ecologiche, cercando di mettere in rilievo - soprattutto nell'opera di Steward - la correlazione tra ambiente e organizzazione sociale e di assumerla come base di spiegazione delle differenze culturali. In tal modo il neoevoluzionismo non si pone come una semplice ripresa dell'impostazione dell'antropologia ottocentesca, ma perviene a correggerla sostanzialmente arricchendo lo schema storico-evolutivo di una nuova dimensione: quella della variabilità della cultura in rapporto al suo contesto geografico.

4. Le basi psichiche della cultura

Il problema dell'origine della cultura trova una formulazione ambivalente, in termini per un verso storico-evolutivi e per l'altro verso psicologici, nell'opera di Freud e nella psicanalisi di derivazione freudiana (v. psicanalisi). A fondamento di questa formulazione sta il postulato del parallelismo tra ontogenesi e filogenesi, tra sviluppo psichico individuale e sviluppo culturale della specie: l'analisi del sorgere della cultura ai primordi dell'umanità deve condurre alla scoperta di quelle medesime strutture inconsce, di quegli stessi meccanismi di rimozione che si trovano alla radice della formazione della personalità. Il punto di partenza della concezione psicanalitica della cultura è perciò l'impostazione evoluzionistica nei termini propri dell'antropologia ottocentesca: lo sviluppo culturale della specie umana viene considerato come un processo unidirezionale, che muove da una situazione traumatica corrispondente a quella dell'infanzia. Ma in virtù di quest'analogia la ricerca dell'origine della cultura viene a coincidere con la ricerca delle sue basi psichiche, universalmente presenti in ogni individuo e in qualsiasi forma di organizzazione sociale.
Fin da Totem und Tabu (1912-1913) il fondatore della psicanalisi appare impegnato nel tentativo di determinare le ‟concordanze tra la vita psichica dei primitivi e dei nevrotici", e quindi di individuare il meccanismo di repressione degli impulsi sessuali nel quale dev'essere riconosciuta la condizione del sorgere della cultura umana. Nella sua analisi Freud si richiama agli studi sul totemismo di Frazer e di W. Robertson Smith, nonché alla teoria darwiniana dell'orda primitiva come punto di partenza dell'evoluzione culturale dell'umanità: i suoi presupposti sono, in larga misura, quelli dell'antropologia evoluzionistica, e su di essi non sembra incidere la critica che in quel periodo ne stava conducendo la scuola boasiana. Secondo Freud, all'origine della cultura si trova una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi: il parricidio originario, che mette fine al monopolio sessuale delle donne da parte del padre tiranno e suscita nei figli che l'hanno ucciso un rimorso collettivo e quindi il senso di colpa per il delitto compiuto, si presenta come la premessa necessaria del divieto dell'incesto, attraverso il quale si costituisce un'organizzazione sociale fondata sulla repressione degli impulsi sessuali e sulla regolamentazione dei modi di soddisfarli. E così la figura del padre primitivo, che dispone in maniera esclusiva delle donne del gruppo, rivela la propria analogia con quella del padre che monopolizza l'amore della madre, avvalendosi della propria posizione di superiorità per precluderne al figlio la fruizione sessuale; l'atteggiamento dei figli nei confronti del padre primitivo mostra gli stessi tratti ambivalenti, di odio e di ammirazione, che spingono l'individuo a identificarsi col padre pur riconoscendo in lui il rivale vittorioso nell'amore per la madre; il senso di colpa per il parricidio è l'equivalente del senso di colpa prodotto da questa situazione di rivalità e dall'avversione per il padre che essa comporta; il pasto totemico, con la sopravvivenza del padre ucciso nel corpo dei figli, simbolizza l'interiorizzazione dell'autorità paterna; infine, in entrambi i casi, l'esito è la repressione dell'istinto, vale a dire la rinuncia alle donne del gruppo o la rinuncia al rapporto sessuale con la madre. Il complesso di Edipo diventa quindi l'elemento decisivo per spiegare il trapasso dall'orda primitiva - che rappresenta ancora una situazione naturale - a un'organizzazione sociale in cui il tabù dell'incesto presiede ai rapporti tra i membri del gruppo.
Negli scritti successivi, da Jenseits des Lustprinzips (1920) fino a Die Zukunft einer Illusion (1927) e a Das Unbehagen in der Kultur (1930), Freud ha generalizzato queste conclusioni in una teoria dello sviluppo culturale fondata sulla contrapposizione tra principio del piacere e principio della realtà. La cultura è possibile in virtù della repressione dell'istinto, della limitazione e del differimento del piacere, della subordinazione del principio del piacere al principio della realtà. Il soddisfacimento non regolato degli impulsi sessuali è di ostacolo al progredire della cultura, anzi lo rende impossibile; la repressione è il prezzo inevitabile della cultura. Naturalmente, non ogni repressione è culturalmente produttiva: tra la repressione che dà luogo alla nevrosi e la repressione-sublimazione che consente di realizzare fini superiori, differendo il soddisfacimento degii impulsi sessuali e traducendoli in impulsi di altra specie, esistono sostanziali differenze. Ma qualsiasi organizzazione sociale, e quindi qualsiasi forma di cultura, poggia sulla limitazione della sessualità: essa si procura l'energia di cui ha bisogno sottraendola alla sessualità. E proprio in ciò sta la radice della crisi intrinseca allo sviluppo della cultura, così come Freud la definisce in Das Unbehagen in der Kultur: la sottrazione continua di energia indebolisce l'Eros, mette in libertà gli impulsi aggressivi e distruttivi, consente all'istinto di morte di manifestarsi incontrastato. All'interpretazione dell'origine della cultura formulata in Totem und Tabu fa così riscontro, negli scritti freudiani degli anni venti, una teoria della crisi della cultura la quale esprime in linguaggio psicanalitico la consapevolezza - largamente diffusa nel clima intellettuale europeo del primo dopoguerra, da O. Spengler a J. Huizinga e a J. Ortega y Gasset, - di una tendenza alla decadenza e all'autodistruzione, immanente al processo culturale.
Di queste due concezioni la prima non soltanto ha avuto larghissima risonanza nella letteratura psicanalitica, ma è stata altresì oggetto di discussione da parte di antropologi come Kroeber (in una recensione apparsa nel 1920) e Malinowski (in Sex and repression in savage society del 1927). Se l'atteggiamento di Kroeber è decisamente polemico, la posizione di Malinowski è al tempo stesso critica e recettiva. Malinowski respinge infatti la spiegazione freudiana dell'origine della cultura, ponendo in luce il circolo vizioso a cui mette capo qualificando con caratteristiche culturali la situazione dell'orda primitiva, dalla quale dovrebbe essere derivata la cultura stessa. Egli accetta però il programma freudiano di ricerca delle basi psichiche della cultura, ponendo a confronto l'interpretazione di Freud con i risultati della ricerca sul campo. Attraverso l'analisi dell'organizzazione socio-familiare melanesiana Malinowski si propone di dimostrare che - lungi dall'essere universale, come aveva preteso Freud - il complesso di Edipo si trova soltanto nelle società di tipo patriarcale ed è invece assente in una società matrilineare nella quale il portatore dell'autorità non è il padre ma lo zio materno, e la repressione sessuale ha per oggetto non il rapporto con la madre ma quello con le sorelle. Egli riconosce così l'esistenza di un complesso che condiziona la formazione della personalità, ma respinge il presupposto dell'unicità di tale complesso: lungi dal costituire il fondamento della cultura, il complesso di Edipo è esso stesso un prodotto culturale, legato a determinate forme di organizzazione sociale e soprattutto a una particolare struttura familiare. L'esito di questa correzione apportata all'interpretazione freudiana della cultura è perciò non soltanto l'abbandono dello schema storico-evolutivo presente in Totem und Tabu, ma anche la relativizzazione del complesso di Edipo e l'affermazione dell'esistenza di altri complessi strutturalmente differenti e quindi non riducibili ad esso. Una conclusione del genere era ovviamente inaccettabile dal punto di vista psicanalitico; e infatti l'opera di G. Róheim, il maggiore esponente dell'ortodossia freudiana in campo psicanalitico, è diretta a ribadire l'universalità del complesso di Edipo e la sua indipendenza da condizioni socio-culturali. In The riddle of the Sphynx (1934) e in varie opere successive, Róheim si è proposto di dimostrare l'identità della situazione infantile in tutte le società, individuandone i tratti caratteristici nel legame libidico con la madre e nello sviluppo di una sessualità precoce. Ciò non vuol dire che non esistano differenze culturali da una società all'altra; ma lungi dal determinare la formazione di tipi diversi di complessi, esse risultano condizionate dalla particolare specie di trauma che si verifica nell'età infantile. Róheim istituisce così una correlazione tra il trauma ontogenetico proprio di una data cultura, comune a tutti i suoi membri, e i modelli da cui essa è caratterizzata: ma l'elemento fondamentale rimane il primo, non già il secondo.
Questo contrasto di principio che separa Malinowski da Freud, e reciprocamente Róheim da Malinowski, lascia posto - a partire dalla metà degli anni trenta - a un legame più stretto e positivo tra psicanalisi e antropologia. Le prospettive psicanalitiche cominciano ad agire all'interno dell'antropologia culturale ispirando da una parte le ricerche di M. Mead, dall'altra gli studi sui rapporti tra cultura e personalità intrapresi da A. Kardiner, R. Linton e altri studiosi. In tale recezione della psicanalisi lo schema storico-evolutivo di Totem und Tabu appare decisamente abbandonato, e viene al tempo stesso lasciato cadere il postulato del parallelismo tra ontogenesi e filogenesi. La ricerca delle basi psichiche della cultura si trasforma nella ricerca della correlazione tra forme di cultura e strutture della personalità, considerate come termini in rapporto di dipendenza reciproca.
A differenza dell'interpretazione dell'origine della cultura, la teoria della crisi della cultura, esposta da Freud in Die Zukunft einer Illusion e in Das Unbehagen in der Kultur, è rimasta estranea all'ambito degli studi antropologici. Essa ha invece trovato una significativa rielaborazione ad opera di H. Marcuse, che in Eros and civilization (1955) ne ha dato una trascrizione ‛filosofica' avvalendosi delle categorie socio-politiche della Scuola di Francoforte. Marcuse ha accolto la tesi freudiana della connessione tra cultura e repressione degli impulsi sessuali, introducendo però una distinzione tra due tipi di repressione: la repressione fondamentale, senza la quale non è possibile nessuna forma di cultura, e la repressione addizionale, dipendente dai rapporti di dominio-subordinazione e quindi storicamente condizionata dal legame con determinate forme di organizzazione sociale. In questa prospettiva il principio della realtà appare modificato, nel mondo contemporaneo, nella forma specifica del principio di prestazione, che impone appunto di soffocare gli impulsi sessuali e di subordinarli al conseguimento degli scopi di una società industriale orientata verso l'aumento crescente della produttività e verso la meccanizzazione della vita. Marcuse perviene così a formulare l'alternativa utopica di una cultura non repressiva, nella quale la repressione addizionale dev'essere eliminata e il principio della realtà - liberato dal principio di prestazione - può finalmente conciliarsi con quello del piacere. Una conclusione siffatta rappresenta però il capovolgimento del punto di vista di Freud, più che la sua prosecuzione. Non soltanto il problema della crisi immanente alla cultura si è trasformato nel problema della possibilità di una liberazione dalla repressione inerente alle forme storiche di organizzazione sociale, ma l'indicazione terapeutica implicita nell'analisi di Freud si trasforma nella critica della cultura esistente e nell'indicazione di una società alternativa.

5. La pluralità delle culture

Il distacco dall'antropologia evoluzionistica non si esprime soltanto nel rifiuto di uno schema storico-evolutivo e nella ricerca di nuove prospettive di indagine dei fenomeni culturali; esso si manifesta anche, a livello semantico, nel passaggio da un discorso ‛sulla' cultura a un discorso ‛sulle' culture. Alla negazione della pretesa di riportare le varie società a uno schema di sviluppo universalmente valido fa riscontro infatti il riconoscimento dell'individualità delle culture, ognuna delle quali richiede di essere studiata nelle sue caratteristiche peculiari, ossia in ciò che ha di differente dalle altre. Il concetto di cultura assume così la funzione di un concetto collettivo, che designa non già un singolo oggetto ma una categoria di oggetti. Ancora una volta spetta a Boas il merito di aver posto le premesse di questo mutamento di impostazione. All'affermazione dell'autonomia della cultura si accompagna, in The mind of primitive man e nei successivi scritti di Boas, la considerazione delle varie culture come strutture sorte storicamente, e comprensibili soltanto in base al loro particolare processo storico. Di conseguenza, l'antropologia assume a proprio oggetto non già la cultura, bensì le singole culture e i loro rapporti, lo sviluppo di ogni singola cultura e il complesso di relazioni che la lega con un determinato ambiente e con altre culture. Richiamandosi alla distinzione istituita da W. Windelband tra scienze idiografiche e scienze nomotetiche, e accogliendo quindi l'equiparazione tra metodo storico e orientamento verso l'individualità, Boas perviene a definire l'antropologia come scienza storica. Soltanto un'impostazione storica consente infatti di considerare le culture nel loro processo di formazione e di sviluppo, sostituendo a uno schema storico-evolutivo universalmente valido l'analisi dei modi specifici in cui una cultura si è storicamente configurata. Muovendo da una diversa impostazione metodologica, Malinowski perveniva, verso la fine degli anni venti, a definire le culture come sistemi funzionali da studiare nella loro strutturazione interna, in maniera da determinare le istituzioni che le costituiscono e le funzioni assolte da ognuna. Anche per questa via, oggetto della ricerca antropologica diventa perciò la singola cultura, poiché ciò che di fatto esiste sono le varie culture nella loro individualità.
Dal riconoscimento della pluralità delle culture ha tratto origine, dopo il 1930, la preminente attenzione accordata alla loro dimensione normativa. Soprattutto nell'ambiente americano si è compiuto il passaggio da una considerazione delle culture in termini di abiti di gruppo, ossia di comportamenti empiricamente osservabili, a una considerazione in termini di modelli di comportamento. Fermo restando il significato ‛totale' del concetto di cultura, questo viene ora a designare non tanto la totalità dei comportamenti presenti in un certo gruppo sociale, quanto il complesso dei modelli di comportamento condivisi dai membri del gruppo e quindi socialmente accettati, ai quali è attribuita la funzione di regolare la condotta individuale. La struttura portante della cultura viene così individuata nel suo particolare sistema di valori, quale può essere ricostruito sulla base delle regole che presiedono al comportamento concreto degli individui e delle sanzioni che colpiscono i comportamenti devianti. Studiare una cultura vuol dire perciò, in ultima analisi, determinare il suo sistema di valori. Tale svolta è rappresentata soprattutto da opere come Patterns of culture (1934) di R. Benedict e Configurations of culture growth (1944) di A. L. Kroeber, nonché da studi di argomento più circostanziato come quelli di C. Kluckhohn sulla cultura navaho. La Benedict considera le singole culture come il risultato di un processo di selezione - tra le innumerevoli possibilità di comportamento - di certi tipi conformi al suo orientamento fondamentale e agli scopi che essa si prefigge, e perciò come un complesso organico di elementi in rapporto di integrazione reciproca. Anche per Kroeber ogni cultura è una totalità caratterizzata da propri modelli che ne costituiscono lo ‛stile', e che danno la loro impronta a tutte le sue creazioni. L'insegnamento di Boas si incontra così con il richiamo a Dilthey e soprattutto a Spengler, mettendo capo a una concezione delle culture in termini di sistemi di valori. Su questa strada C. Kluckhohn e W. H. Kelly pervengono, in un saggio del 1945, a definire la cultura come un sistema di ‛schemi di vita' che devono servire come ‛guide' del comportamento, incanalando le reazioni umane in base a modelli sanzionati dal gruppo.
Il riconoscimento della pluralità delle culture ha avuto conseguenze importanti anche sulla considerazione del rapporto tra cultura e personalità. Già E. Sapir e la stessa Benedict avevano sottolineato la correlazione tra l'orientamento complessivo di una cultura e la struttura della personalità; e del resto l'analisi di Patterns of culture è diretta a porre in luce anche le caratteristiche psicologiche che differenziano gli individui appartenenti a culture diverse. Con l'opera di A. Kardiner e di R. Linton questa correlazione diventa oggetto di un'analisi sistematica, la quale si richiama al presupposto che a ogni cultura corrisponde un tipo particolare di personalità, definita come ‛personalità fondamentale'. In The individual and his society (1939), e successivamente in The psychological frontiers of society (1945), Kardiner si è proposto di individuare nel periodo della prima infanzia il sorgere di alcuni atteggiamenti fondamentali che determinano la formazione di un tipo di personalità comune a tutti i membri di una data cultura. Analogamente Linton, in The cultural background of personality (1945), ha mostrato la capacità della cultura di modellare una struttura della personalità, rispetto alla quale le personalità dei singoli individui rappresentano variazioni di tipo normale oppure, qualora se ne discostino oltre un certo limite, forme devianti. Questa personalità fondamentale può d'altra parte articolarsi in una serie di tipi coesistenti all'interno di una cultura e relativi a modi diversi di formazione. La correlazione tra cultura e personalità non costituisce più un rapporto univoco per ogni cultura, così come l'aveva interpretato la Benedict, ma viene a specificarsi in base alle differenze interne alle singole culture.
Ma il riconoscimento della pluralità delle culture rivela anche implicazioni importanti di ordine filosofico, che sono venute in luce soltanto a partire dagli anni trenta. Esse sono, in primo luogo, implicazioni negative: il rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, la negazione dell'esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture, il rifiuto dell'etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare. La traduzione in termini positivi di questi presupposti ha rappresentato la base del relativismo culturale, inteso come affermazione dell'eguaglianza assiologica delle varie culture e, al limite, della loro incomparabilità. Le sue origini devono essere cercate in due direzioni. Per un verso, esso è una ripresa dello storicismo diltheyano e soprattutto della concezione spengleriana della storia, con la trasformazione da essa operata della teoria dell'autocentralità dei sistemi di cultura e delle epoche storiche in un'impostazione che proclamava l'eterogeneità insuperabile delle culture, la differenza radicale e l'incomunicabilità dei loro sistemi di valori, la chiusura reciproca dei loro mondi simbolici. Per l'altro verso, esso si richiama alla teoria di ispirazione darwiniana di W. G. Sumner, l'autore di Folkways (1906), e del suo allievo A. Keller, i quali avevano considerato lo sviluppo culturale come un processo di adattamento dei diversi gruppi sociali al loro ambiente specifico, che conduce ad adottare certe forme di comportamento e a escluderne altre, dando così luogo a una varietà di costumi tra loro irriducibili e parimenti legittimi. Questa duplice ascendenza fa sì che il relativismo culturale costituisca, nell'antropologia contemporanea, una dottrina alquanto eclettica e indeterminata, abbracciante formulazioni non di rado contraddittorie. Anche negli scritti del suo teorico più rappresentativo, M. J. Herskovits, esso si configura soprattutto in veste polemica, come il rifiuto di riconoscere criteri di valore applicabili alle diverse culture e di stabilire giudizi di superiorità e di inferiorità tra le loro manifestazioni. Sul terreno metodologico, il relativismo culturale si esprime nel principio che ogni fenomeno culturale dev'essere interpretato in base alla struttura e all'orientamento della cultura di cui fa parte, e quindi in relazione al suo particolare sistema di valori.
Nella sua formulazione estrema, il relativismo culturale respinge l'ammissione non soltanto di ‛assoluti culturali', ma anche di ‛universali culturali', ossia di elementi strutturali comuni alle diverse culture; analogamente, esso afferma non soltanto il valore autonomo di ogni cultura, ma anche l'incomparabilità delle culture e delle loro manifestazioni. Entrambe queste conclusioni trovano, nel panorama dell'antropologia contemporanea, un riscontro negativo. Fin dall'articolo Culture (apparso nel 1931 nell'Encyclopaedia of the social sciences), e poi più ampiamente in A scientific theory of culture (1944), Malinowski ha elaborato una spiegazione della cultura che la riconduce ai bisogni primari inerenti alla natura biologica dell'uomo, cioè a bisogni comuni a tutti gli individui e a tutte le società. All'universalità di questi bisogni, propri della costituzione dell'uomo in quanto essere naturale, corrisponde d'altra parte la variabilità dei modi di soddisfarli, cioè delle ‛risposte' culturali ad essi fornite dai vari gruppi sociali, che danno origine a loro volta ad altri bisogni di carattere secondario. La diversità delle culture non esclude perciò la possibilità di scorgere alla base delle istituzioni che le compongono una serie di elementi universali, i quali possono essere formulati in uno schema teorico applicabile a tutte le culture. In termini assai diversi da Malinowski, e sulla base di un diverso impianto metodologico, G. P. Murdock ha impostato la ricerca di regolarità nella vita delle culture sostenendo l'importanza decisiva del metodo comparativo. Richiamandosi all'opera di W. G. Sumner e di A. Keller, nonché al programma spenceriano di una ‛sociologia descrittiva', Murdock si è proposto di determinare - attraverso un inventario il più completo possibile dei dati disponibili in merito alle varie culture - l'esistenza di elementi comuni, di fenomeni ricorrenti, i quali possono essere spiegati in base all'azione delimitante delle condizioni biologiche e psicologiche dell'esistenza umana sulle possibilità di scelta delle singole culture. Certamente, anche per Murdock le culture globalmente prese sono tra loro incomparabili, proprio perché possiedono una fisionomia individuale risultante dalla particolare combinazione di quegli elementi; ma ciò non toglie che possano essere oggetto di comparazione i diversi aspetti o settori specifici delle culture. In Social structure (1949), Murdock ha applicato questa impostazione all'analisi della struttura sociale, cercando di determinare le possibilità fondamentali di organizzazione che presiedono ai rapporti di parentela, e ha così delineato un programma di indagine comparativa a largo raggio, il quale si propone di mettere in luce analogie riscontrabili nella vita delle varie culture e di spiegarle mediante categorie universali.

6. Differenze e rapporti tra le culture

Attraverso il trapasso a una considerazione delle culture come strutture individuali e distinte, il concetto di cultura rischia di diventare scarsamente determinato e quindi piuttosto generico. Esso risulta infatti applicabile indifferentemente alla cultura di una tribù fornita di un'organizzazione sociale relativamente semplice (come le tribù nordamericane che hanno costituito l'oggetto principale di ricerca della scuola boasiana), oppure alla cultura di una società caratterizzata da un grado maggiore di complessità e di persistenza, o anche - nel caso limite - a una cultura abbracciante un'area geografica e un arco storico molto vasti, e comune a diverse società (come quella della società europea o di altre analoghe società). Ciò ha posto il problema della distinzione, all'interno delle culture considerate come ‛genere', di sottospecie fornite di determinate caratteristiche e, in particolare, il problema della distinzione tra culture primitive e culture progredite - vale a dire, in altri termini, tra culture primitive e civiltà. Nell'antropologia ottocentesca il problema era già risolto in partenza, attraverso la delineazione di uno schema storico-evolutivo nel quale la civiltà rappresenta la fase conclusiva, che comprende le società pervenute a uno stadio superiore di sviluppo: in tal modo Morgan poteva indicare il momento del sorgere della civiltà dalla barbarie, qualificandolo con criteri quali quelli del passaggio da un'organizzazione gentilizia a un'organizzazione propriamente politica, dell'affermarsi della famiglia monogamica e, in corrispondenza con questa, della proprietà privata. Nell'antropologia contemporanea, invece, la caratterizzazione di qualsiasi gruppo sociale in termini di cultura rende la questione assai più difficile da risolvere; e le soluzioni proposte sono infatti molteplici e disparate, né si prestano sempre a essere distinte in maniera precisa.
Una prima soluzione - che risale allo stesso Morgan - qualifica le culture primitive come società illetterate e le civiltà come società letterate, le quali sono in grado, possedendo la scrittura, di tramandare documenti in base a cui è possibile ricostruirne la storia: rifacendosi a una distinzione di questo genere, Radcliffe-Brown ha delimitato l'ambito della ricerca antropologica allo studio del primo tipo di società, riservando alla sociologia lo studio del secondo. Un'altra soluzione, avanzata soprattutto da L. Lévy-Bruhl - e sostanzialmente di matrice bergsoniana - considera le culture primitive come prive di sviluppo e le civiltà come società in mutamento, riservando a quest'ultime la dimensione storica. Pur riconoscendo che anche le culture primitive sono il risultato di un processo di trasformazione, per quanto il più delle volte a noi ignoto, Cl. Lévi-Strauss ha ripreso tale distinzione riformulandola nell'antitesi tra società ‛fredde', refrattarie a ogni modificazione della loro struttura e ispirate da una fondamentale tendenza alla conservazione, e società ‛calde', orientate in senso dinamico. Una terza soluzione - di origine cassireriana, e proposta per esempio da D. Bidney in Theoretical anthropology (1953) - caratterizza le civiltà in base alla presenza di forme simboliche, cioè in base al costituirsi in forma distinta di attività relativamente autonome dal processo di adattamento all'ambiente naturale. Una quarta soluzione formulata, come si è visto, da Childe, e ripresa dal neoevoluzionismo - definisce le civiltà sulla base del verificarsi di determinate trasformazioni tecnologiche, e in primo luogo della rivoluzione urbana: il sorgere delle civiltà presuppone la formazione delle città, con i mutamenti di produzione e di organizzazione sociale che essa comporta. Vi è ancora un'ultima soluzione, di carattere non più qualitativo ma piuttosto quantitativo, che individua la differenza tra culture primitive e civiltà nel minore o maggior grado di complessità e di articolazione interna, considerando la civiltà come un conglomerato di culture legate da rapporti di affinità e formatosi in una certa area geografica, la cui vicenda storica copre un arco temporale che si prolunga nei secoli.
L'antropologia contemporanea ha privilegiato, di solito, lo studio delle culture primitive, suscettibili di essere analizzate globalmente, anche se non sono mancati - a partire da Kroeber - tentativi anche importanti di applicare i metodi di ricerca antropologica a società più complesse, qualificabili in un senso o nell'altro come civiltà. Tuttavia, l'analisi delle civiltà come sottospecie distinta delle culture è stata condotta prevalentemente al di fuori dell'antropologia, o da parte della ricerca storica (che ha studiato lo sviluppo delle singole civiltà e i rapporti storicamente determinati tra certe civiltà in una data epoca) oppure da parte di teorie generali della storia, il più delle volte a metà strada tra concezioni filosofiche e generalizzazioni su base induttiva. Il punto di partenza di queste teorie, nel panorama intellettuale del Novecento, è da ricercarsi in Der Untergang des Abendlandes (1918-1922) di O. Spengler e nella sua interpretazione della storia come storia di culture superiori tra loro distinte, appartenenti a una medesima specie biologica e quindi sottoposte alle leggi di sviluppo e di decadenza proprie di tale specie. Spengler nega l'esistenza di culture primitive, relegandole sul piano dell'esistenza naturale che antecede la storia, e limita la propria considerazione alle culture pervenute al livello dell'esistenza storica, ossia alle civiltà. Ogni organismo del genere si costituisce sulla base dell'umanità primitiva distaccandosi da essa e acquistando così una propria autonomia, cioè una forma peculiare che ne caratterizza tutte le manifestazioni; e il momento di questa costituzione è dato dall'insediamento stabile di una società in una determinata regione, che la vincola per sempre a un dato suolo - è, in altri termini, il sorgere delle città. Esiste quindi una perfetta corrispondenza tra storia, sviluppo delle culture (o civiltà) e vita urbana: non vi è storia al di fuori del processo evolutivo di questi organismi, e l'esistenza storica dell'uomo coincide con l'appartenenza ad essi. Ma dal momento che ogni organismo storico nasce con un suo complesso di possibilità biologicamente determinato e che il suo sviluppo ne è la realizzazione graduale - secondo fasi prestabilite - ne consegue che esso è destinato a tramontare e a perire quando tale complesso si sia esaurito: al pari di un qualsiasi organismo vegetale o animale, pure le culture percorrono un loro ciclo vitale e vengono a morte allorché esso si sia concluso. Ma la differenza di patrimonio biologico tra le varie culture fa sì che ognuna si crei un proprio mondo simbolico, diverso da quello delle altre: da ciò l'eterogeneità insuperabile che separa le culture e le loro manifestazioni, impedendo la loro reciproca comprensione.
L'opera di Spengier ha avuto una larghissima risonanza, da un lato ispirando direttamente o indirettamente la letteratura sulla ‛crisi della civiltà' nel corso degli anni venti, dall'altro fornendo nuovi strumenti concettuali alle interpretazioni razzistiche della cultura, diffuse nella Germania del periodo nazista. Essa ha pure agito, come si è visto, in campo antropologico: le ambiziose pretese di Kroeber in Configurations of culture growth e negli scritti successivi riflettono chiaramente questo rapporto. Anche in sociologia essa ha ispirato opere come Social and cultural dynamics (1937-1941) di P. A. Sorokin. Ma la prosecuzione più importante - anche se in chiave apertamente critica - del programma spengleriano è rappresentata da A study of history (1934-1954) di A. J. Toynbee, che si propone appunto di delineare una teoria della storia fondata sullo studio comparativo delle diverse civiltà e del loro processo di sviluppo. Toynbee considera infatti le civiltà come società complesse che hanno superato il livello dell'umanità primitiva e che costituiscono, sotto il profilo metodologico, campi di studio forniti di un'autonoma intelligibilità, cercando di rintracciare nella loro vicenda storica un medesimo ciclo articolato nei quattro momenti della nascita, della crescita, del crollo e della disgregazione. Lungi dal rivestire un significato deterministico o fatalistico (come in Spengler), questo schema assume come principio interpretativo la capacità di risposta dell'uomo a sfide esterne o interne: una civiltà sorge quando un gruppo umano riesce a rispondere con successo a una sfida postagli dall'ambiente, ossia da particolari condizioni geografiche o dal contatto con altri gruppi, rompendo in tal modo la ‟crosta della tradizione" propria delle culture primitive; essa continua a svilupparsi finché è in grado di superare le sfide di fronte alle quali viene a trovarsi; il crollo e la disgregazione di una civiltà sono invece il risultato di sfide alle quali non è stata data un'adeguata risposta e, quindi, di una perdita della capacità di risposta umana. Su questa base Toynbee determina i momenti chiave del processo evolutivo delle civiltà e i fenomeni che li caratterizzano, cercando di mostrare la corrispondenza tra le epoche successive di sviluppo di civiltà spazialmente e temporalmente remote.
Lo studio delle culture, delle loro differenze interne e delle loro sottospecie trova un complemento necessario nell'analisi dei loro rapporti. L'antropologia dei primi decenni del secolo ha insistito soprattutto sull'individualità di ogni cultura, e quindi sulla necessità di analizzarla nella sua struttura interna: ciò ha dato luogo, sia nella scuola boasiana sia nell'ambiente inglese (si pensi, per esempio, a Malinowski), a un programma di descrizione delle singole culture, che lasciava in ombra i rapporti con le culture circostanti. Questa situazione è mutata verso la fine degli anni trenta e, assai più decisamente, nei decenni successivi, durante i quali il contatto tra le culture e i processi di acculturazione sono diventati un tema centrale di indagine e di discussione. Ciò ha condotto a considerare le varie culture non come entità autosufficienti, ma come strutture che entrano in rapporto e agiscono l'una sull'altra in situazioni quanto mai disparate: di eguaglianza o di diseguaglianza, di convivenza pacifica o di ostilità, di indipendenza reciproca o di dominio-subordinazione, di scambio o di influenza unilaterale. Processi di acculturazione di questo genere sono presenti nella vita di qualsiasi cultura, primitiva o progredita - salvo casi eccezionali di completo isolamento - e hanno dato luogo a esiti molto differenti, come l'assimilazione reciproca tra due culture, l'incorporazione di una cultura inferiore o più debole in un'altra superiore o più forte, la pura e semplice estinzione di una cultura attraverso la sottomissione o lo sterminio del gruppo sociale che ne è il portatore, o ancora a nuove forme di equilibrio prodotte dalla trasformazione di entrambe le culture a contatto. Ma questi processi hanno assunto un rilievo preponderante in seguito all'espansione coloniale europea e al tentativo della cultura occidentale di sovrapporsi alle culture tradizionali, di spogliarle delle loro caratteristiche distintive, di subordinarle a sé. Il problema dell'acculturazione - così com'è stato definito nel Memo- randum for the study of acculturation (1936) di R. Redfield, R. Linton e M. J. Herskovits, o nel volume di Herskovits del 1938, e in seguito ripreso da una vasta letteratura - si presenta perciò soprattutto come il problema delle relazioni tra la cultura occidentale e le altre culture; e lo studio dei processi di acculturazione è diventato soprattutto lo studio dei processi di espansione, di assimilazione e di incorporazione da parte della prima, nonché delle reazioni che questo urto ha suscitato presso le culture extraeuropee. A una considerazione prevalentemente statica di queste ultime, consueta nell'antropologia dei primi decenni del secolo, è subentrato in tal modo lo studio della loro trasformazione e delle risposte culturali che esse hanno elaborato nei confronti della cultura europea. Le ricerche sull'acculturazione rappresentano perciò oggi un terreno d'incontro particolarmente fecondo tra analisi antropologica, teoria sociologica della ‛modernizzazione' e studio storico del processo di sviluppo e dei mutamenti intervenuti nelle culture extraeuropee.

7. La cultura come sistema specifico

Fin qui ci siamo soffermati a considerare le discussioni e le formulazioni teoriche inerenti al significato ‛totale' del concetto di cultura, cioè a quel significato che è stato per la prima volta enunciato da Tylor e che è diventato corrente nella scienza antropologica contemporanea. Accanto ad esso si è però mantenuto un altro significato che può essere definito ‛parziale', in quanto definisce appunto la cultura come un settore o un sistema specifico della vita sociale. Esso restringe l'ambito della cultura alle manifestazioni della vita intellettuale, distinguendole dalla sfera dei fenomeni politici ed economici, dalle tecniche produttive, dai rapporti di classe e, in generale, dai costumi. La cultura appare perciò considerata come un complesso di manifestazioni ‛superiori', nel duplice senso che esse si presentano almeno astrattamente separate dall'apparato materiale dell'esistenza e che costituiscono il prodotto dell'attività di gruppi sociali specializzati, ai quali la società ha delegato determinate funzioni come quelle della religione, della produzione artistica e letteraria, della ricerca scientifica, della riflessione etica ecc. Come non tutti gli aspetti di una società rientrano nella sua cultura, così non tutti gli individui (o gli strati sociali) partecipano ad essa, o per lo meno non intervengono in forma attiva nella sua elaborazione. A ciò si aggiunge un'ulteriore delimitazione, connessa al fatto che non tutte le società sono portatrici della cultura così intesa, in quanto questa può sorgere soltanto laddove è stato raggiunto un livello produttivo ed è stato realizzato un grado di divisione del lavoro che consentano la formazione di gruppi professionalmente impegnati nell'esercizio dell'attività intellettuale.
Le formulazioni teoriche di tale significato hanno sottolineato, di volta in volta, l'autonomia della cultura dagli altri aspetti della vita sociale oppure, al contrario, la sua dipendenza da condizioni strutturali. La prima alternativa emerge con particolare chiarezza nell'Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883) di W. Dilthey, il quale ha distinto, in base alla loro diversa struttura, i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione esterna della società. I primi hanno origine dall'associarsi di più individui in vista di scopi comuni liberamente scelti, la cui realizzazione comporta una produzione di valori che diventano costitutivi di una certa epoca; ai secondi è invece essenziale un elemento coercitivo, senza il quale non è possibile alcuna organizzazione politica o economica. Tra la cultura e la sfera dei rapporti politici ed economici vi è quindi una diversità strutturale e anche un rapporto di indipendenza reciproca: pur nelle loro relazioni, la cultura e l'organizzazione esterna della società si sviluppano in forma autonoma. Da questo punto di vista risulta perciò possibile una ‛storia della cultura' distinta dalla storia delle vicende degli Stati. La seconda alternativa trae origine dalla teoria marxiana (e più generalmente marxistica) della cultura considerata come un aspetto della sovrastruttura, che in quanto tale riflette i rapporti di produzione e di lavoro propri di una determinata struttura economico-sociale. In questa prospettiva le manifestazioni intellettuali derivano il loro significato oggettivo dal legame con un particolare modo di produzione, con il tipo di divisione del lavoro, con la forma della proprietà, e possono venir spiegate soltanto riportandole alla loro base strutturale. Non esiste quindi uno sviluppo autonomo della cultura: ogni movimento culturale è espressione di un processo sottostante, che ne costituisce il fattore ‛in ultima analisi' determinante.
Anche il problema dei rapporti tra cultura e civiltà trova una diversa impostazione sulla base del significato ‛parziale' del concetto di cultura. Sovente - per quanto in maniera piuttosto indeterminata - la civiltà viene considerata comprensiva della cultura, cioè viene concepita come una totalità di cui le manifestazioni intellettuali costituiscono un aspetto specifico: in questo senso, per esempio, la civiltà europea abbraccia la cultura europea e, oltre ad essa, una serie di altri elementi come la struttura politica, economica, sociale del mondo europeo. Accanto a questa formulazione del rapporto si possono trovare altri tentativi di definire la cultura e la civiltà come due sistemi entrambi specifici, nessuno dei quali è comprensivo dell'altro. La piattaforma teorica di questi tentativi è offerta dalla concezione spengleriana della storia, nella quale però la cultura e la civiltà sono considerate come momenti successivi dell'esistenza di un medesimo organismo. Per Spengler, la Zivilisation rappresenta infatti la fase del ‛declino' o del ‛tramonto' di una cultura, la fase nella quale essa si avvia inevitabilmente verso la fine, dopo aver esaurito le proprie possibilità creative. Cultura e civiltà restano in tal modo termini onnicomprensivi, ma si distinguono l'una dall'altra come momenti storicamente distinti e non sovrapponibili. Nella sociologia tedesca del primo dopoguerra, questa distinzione ha assunto una portata sincronica nell'opera di A. Weber, il quale è pervenuto a concepire la cultura e la civiltà come due aspetti compresenti, anzi come due processi che si svolgono contemporaneamente ma con differenti modalità. Nel saggio Prinzipielles zur Kultursoziologie (1920-1921) e in vari libri successivi, Weber ha distinto tre aspetti costitutivi del processo storico: la struttura sociale, che coincide con la sfera dei rapporti politici ed economici, la cultura, che abbraccia le manifestazioni ‛creative' della vita spirituale, e infine la civiltà, che rappresenta la sfera del progresso tecnico-scientifico. Il movimento culturale è quello dal quale sorgono i valori peculiari di ogni società, e si esprime quindi in forme individuali; il processo della civiltà è invece comune alle diverse società, e riveste carattere cumulativo. Questa impostazione è stata ripresa - nella sociologia statunitense tra le due guerre - da autori come R. E. Park e soprattutto R. M. MacIver, sfociando in una definizione correlativa dei due termini fondata sulla distinzione tra fini e mezzi: la cultura diventa così l'incarnazione dei fini di una società, mentre la civiltà fornisce l'apparato strumentale per realizzarli.
La cultura intesa come sistema sociale specifico può essere definita non soltanto in riferimento alla civiltà, ma anche ad altri termini: si pensi, per esempio, alla distinzione di J. Burckhardt tra le ‛potenze' dello Stato, della religione e della cultura, oppure all'analisi dei rapporti tra cultura e religione condotta da T. S. Eliot nelle Notes towards the definition of culture (1948). Inoltre, essa può venir definita nelle sue componenti strutturali e analizzata nei suoi diversi campi. A una problematica del genere si rifanno le molteplici discussioni - largamente diffuse nella letteratura filosofica, ma non estranee neppure all'ambito degli studi socio-antropologici - sui rapporti tra religione e scienza, tra scienza e filosofia, ecc., o sul ‛posto' che un particolare elemento occupa nell'insieme della cultura. In questo orizzonte si collocano pure il dibattito sui rapporti tra specializzazione scientifica e ‛cultura generale' e la polemica sulle ‛due culture', aperta dal libro di C. P. Snow apparso nel 1950, che in qualche modo ne costituisce la prosecuzione. L'uno e l'altra sono ispirati dalla preoccupazione di porre rimedio all'unilateralità della cultura e di assicurare l'equilibrio tra le sue varie componenti. Nel primo, l'insistenza sui limiti di una cultura specialistica conduce al recupero dell'ideale di una formazione completa della personalità, capace di fornire la base e i criteri direttivi per un uso corretto e responsabile delle tecniche scientifiche. Nella seconda, l'affermazione dell'unilateralità della cultura umanistica (da parte degli scienziati) o di quella scientifica (da parte degli umanisti) rivela un'esigenza di integrazione che in certi casi mette capo alla proposta di una sintesi culturale, capace di contemperare i valori tradizionali con la mentalità progressiva della scienza moderna. Entrambe queste discussioni assumono quindi una portata ideologica e si sviluppano su un piano chiaramente valutativo, cosicché il loro contributo all'analisi dei fenomeni culturali e alla formulazione del concetto di cultura appare di scarso rilievo.

8. I rapporti tra cultura e società

Il riferimento alla società è sempre implicito in qualsiasi formulazione del concetto di cultura, tanto nel suo significato ‛totale' quando in quello ‛parziale'. Sia che si concepisca la cultura come il complesso dei modi di vita di un certo gruppo sociale, o come il complesso dei modelli di comportamento e dei valori condivisi dai suoi membri, o ancora come il processo di sviluppo dell'umanità da una condizione primitiva allo stato di civiltà, sia che la si intenda invece come un aspetto o sistema specifico della vita sociale, il concetto di cultura risulta in ogni caso definito in virtù di tale riferimento. Nella scienza antropologica contemporanea la cultura tende a essere identificata, come si è visto, con l'eredità sociale propria di una determinata comunità, e i termini ‛cultura' e ‛società' sono non di rado impiegati in modo interscambiabile. Per Boas e per la scuola boasiana esiste una corrispondenza tra ogni cultura e la società che ne è portatrice: del resto, il principio dell'irriducibilità della cultura a condizioni extraculturali non è altro che la traduzione in linguaggio antropologico del principio durkheimiano secondo cui un fatto sociale può essere spiegato soltanto riportandolo ad altri fatti sociali. Anche per Malinowski cultura e società coincidono sostanzialmente, tant'è vero che la struttura della cultura risulta definita mediante un concetto tipicamente sociologico qual è quello di istituzione: ogni cultura è un complesso di istituzioni, cioè di sistemi organizzati di attività rivolti al soddisfacimento di determinati bisogni. Questa indiscriminazione tra cultura e società ha fatto sì che l'analisi della base sociale della cultura si sia mantenuta a lungo su un piano generico, senza condurre a una precisa determinazione dei rapporti tra forme di cultura e organizzazione interna della società.
Soltanto in epoca più recente, con l'allargamento del campo di indagine della scienza antropologica a società complesse, con l'applicazione dei suoi metodi allo studio di società in trasformazione o addirittura di società progredite, è venuto in primo piano il problema dell'individuazione delle diverse forme di cultura esistenti all'interno di una società e della loro connessione con determinati gruppi sociali. Ciò ha dato luogo a vari tentativi di determinare in forma esplicita il rapporto tra cultura e società - nel senso di affermarne l'identità o per lo meno la coestensività, oppure nel senso opposto di delimitare l'ambito della cultura considerandola un aspetto specifico del processo sociale - che si sono intrecciati con lo sforzo di definire l'oggetto rispettivo dell'antropologia e della sociologia. Una prima soluzione del problema è quella di considerare la cultura e la società come coestensive, distinguendole tuttavia in quanto sistemi particolari e reciprocamente irriducibili all'interno del sistema generale dell'azione: è la soluzione formulata da T. Parsons, in collaborazione con antropologi come Kluckhohn, in Toward a general theory of action (1951), e poi ripresa in The social system (1951). L'azione sociale può essere analizzata in riferimento a tre sistemi distinti, sui quali si fondano le tre scienze sociali di base, vale a dire l'antropologia, la psicologia sociale e la sociologia: la cultura, la personalità e il sistema sociale. In questa prospettiva la cultura appare costituita da sistemi simbolici i quali agiscono come orientamenti di valore che rendono possibile la socializzazione della personalità e il perpetuarsi del gruppo; essa funziona da mediatrice tra l'individuo e la società. Tra cultura e società si ha in tal modo una distinzione puramente analitica, che non esclude ma comporta la loro inscindibilità di fatto. Sul versante opposto si colloca la soluzione proposta da Radcliffe-Brown, che riflette l'impostazione metodologica dell'antropologia sociale sviluppatasi in Inghilterra: la cultura è un aspetto del processo complessivo della vita sociale, e consiste precisamente nella trasmissione da una generazione all'altra del patrimonio di idee e di valori del gruppo sociale. Così delimitata, la cultura non può costituire l'oggetto della ricerca antropologica, che viene invece individuato nella struttura sociale in quanto complesso di istituzioni tra loro connesse funzionalmente. Ciò conduce a distinguere la scienza antropologica dalla sociologia prescindendo dal riferimento al concetto di cultura e quindi in base al diverso tipo di società su cui verte la loro indagine: l'antropologia sociale si occupa delle società primitive, mentre lo studio delle società progredite è riservato alla sociologia.
È chiaro che il problema del rapporto con la società acquista un'importanza ben più rilevante quando ci si colloca dal punto di vista del significato ‛parziale' del concetto di cultura. In questo quadro il contributo del marxismo appare particolarmente significativo, ancorché esso si sia manifestato più a livello di analisi concreta anziché in sede propriamente teorica (v. marxismo). A tutt'oggi manca, infatti, una teoria marxistica della cultura che tenga conto del processo di elaborazione concettuale degli studi socioantropologici nel corso di questo secolo; del resto, il carattere sovrastrutturale attribuito alla cultura ha impedito che essa diventasse un tema centrale nell'opera di Marx e nel marxismo ottocentesco. Nel periodo tra le due guerre, e ancor più a partire dagli anni cinquanta, l'interesse per i ceti intellettuali e per la loro funzione storica ha proposto al pensiero marxista la considerazione della cultura e dei rapporti tra forme di cultura e classi sociali. Il problema dei rapporti tra cultura e società è così venuto a configurarsi nella veste specifica di un'analisi della stratificazione sociale dei fenomeni culturali e quindi della loro origine di classe. A tale scopo riveste particolare importanza la distinzione, formulata da A. Gramsci nei Quaderni del carcere (pubblicati nel 1945-1951, ma la cui redazione risale al periodo tra il 1929 e il 1935), tra ceti egemonici e ceti subalterni, considerati portatori di tradizioni culturali differenti. Il rapporto di dominio-subordinazione esistente tra le diverse classi sociali - con la polarizzazione dicotomica che la struttura di classe comporta, secondo lo schema marxiano - viene qui assunto come base per la spiegazione delle diversità culturali che si riscontrano all'interno di una società. Da una parte i ceti egemonici appaiono portatori di una cultura ‛superiore', fondata sul possesso (e talvolta sul monopolio) di determinati strumenti di elaborazione culturale come, per esempio, la capacità di leggere e di scrivere; dall'altra i ceti subalterni appaiono, nella misura in cui sono riusciti a resistere al tentativo di integrazione da parte della cultura superiore, i portatori di un'altra cultura, cioè di una cultura ‛inferiore' che si oppone - con maggiore o minore successo - alla penetrazione dei modelli prodotti dai ceti egemonici.
Un'impostazione di questo genere riconosce quindi la capacità di produzione culturale dei diversi gruppi sociali, considerando la circolazione della cultura non già come un processo di diffusione a senso unico - cioè dai ceti egemonici a quelli subalterni - bensì come un insieme di rapporti di scambio che si instaurano su una base tendenzialmente conflittuale. Ben poco essa ha perciò in comune con una considerazione della cultura che muova dalla dicotomia tra cultura di élite e cultura di massa, la quale riserva invece la capacità di produzione culturale a un determinato gruppo sociale, attribuendo agli altri una funzione puramente recettiva. Sorta da una tradizione di critica in chiave aristocratico-conservatrice del mondo contemporaneo - che da Burckhardt si prolunga, attraverso l'opera di Spengler, fino alla letteratura sulla ‛crisi della civiltà' degli anni venti - questa dicotomia trova il proprio fondamento nell'immagine di una società resa uniforme, e quindi spersonalizzata, dalla duplice spinta della democratizzazione e dell'industrializzazione, nonché nell'interpretazione della diffusione della cultura come sottoprodotto di tale processo. Essa presuppone una concezione della cultura come fenomeno di élite, come creazione di forme culturali la cui fruizione è riservata agli individui (o ai ceti) che hanno ricevuto una particolare educazione, e che sono destinate a degradarsi inevitabilmente quando ne venga allargata l'area di destinazione. D'altra parte essa comporta una considerazione della massa come soggetto passivo dei processi culturali, che può essere, al massimo, destinatario di un tipo di produzione sostanzialmente eterogeneo rispetto all'attività culturale vera e propria.
Queste due impostazioni si ritrovano, sovente mescolate, in gran parte delle analisi della cultura contemporanea, nonché nel dibattito sull'organizzazione della cultura, sull'industria culturale e su analoghi temi. Il filo conduttore di queste analisi è rappresentato dalla correlazione tra la fisionomia culturale della società contemporanea e la sua struttura industriale; ma le prospettive interpretative alle quali esse si ispirano risultano assai differenti. Da una parte il problema della stratificazione sociale della cultura si è concretato nello studio sociologico dei fenomeni culturali, con particolare riguardo alle manifestazioni intellettuali dei ceti subalterni (basterà menzionare, per il nostro paese, le ricerche di E. De Martino e di A. M. Cirese); dall'altra, la dicotomia tra cultura di élite e cultura di massa ha posto in primo piano il rapporto tra produzione e consumo della cultura, considerato come caratterizzante l'industria culturale.
Elaborato da M. Horkheimer e Th. W. Adorno nella Dialektik der Aufklärung (19472), largamente impiegato dallo stesso Adorno e da Marcuse, il concetto di industria culturale si collega alla critica della dialettica dell'illuminismo come capovolgimento del progresso in regresso, e quindi a una valutazione negativa della ragione tecnico-scientifica: esso designa una situazione in cui l'individuo, reso impotente dalle forze economiche che dominano la società contemporanea, è ridotto a essere generico, mentre la cultura diventa merce, ossia oggetto di consumo. L'impersonalità dell'individuo e l'oggettività del prodotto culturale sono così le due facce di un'unica medaglia, i due aspetti del prevalere incontrastato di una cultura di massa integrata nel meccanismo della società. La critica della cultura sviluppata su questa base si risolve perciò nel vagheggiamento retrospettivo di una cultura non di massa ma di élite, patrimonio esclusivo di un ceto di intellettuali la cui attività era - o sembrava essere - indipendente da esigenze economico-produttive. È significativo che, nel saggio Remarks on a redefinition of culture (1965), Marcuse non soltanto riprenda la distinzione tra cultura e civiltà in termini di antitesi tra dominio dei valori e sfera del progresso tecnico-scientifico, ma la faccia coincidere con la distinzione tra cultura di élite e cultura di massa: mentre la scienza è democraticamente partecipabile da tutti i membri di una società a causa del suo carattere strumentale e impersonale, la cultura presuppone un movimento di ritiro che è riservato a un'élite intellettuale (e sociale).
Al di là delle differenze di impostazione tra un'analisi di derivazione marxiana e un'analisi che si richiami ai presupposti della Scuola di Francoforte, è opportuno indicare alcuni problemi che rivestono una rilevanza centrale per lo studio sociologico della cultura contemporanea. Si tratta, in primo luogo, di individuare i rapporti tra manifestazioni intellettuali e gruppi sociali; di determinare le istituzioni in cui si articola l'organizzazione della cultura; di stabilire per ogni forma di attività culturale il suo processo di elaborazione e di diffusione, nonché le trasformazioni che subisce in seguito al contatto con gruppi sociali diversi da quello che l'ha prodotta; di precisare la funzione politico-sociale che assume e gli eventuali mutamenti di questa funzione. Una sociologia della cultura così intesa è ancora agli inizi; ma soltanto in una prospettiva del genere potranno emergere nella loro forma concreta, e non attraverso generalizzazioni di dubbia validità, le strutture della produzione e della circolazione culturale nella società contemporanea. (Si veda anche antropologia).




Bibliografia

da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it