cultura
1. Introduzione
La seconda metà del sec. XVIII ha segnato una svolta decisiva
nell'elaborazione del concetto di cultura, anche sotto il profilo
terminologico. È in questa epoca, infatti, che esso cessa di indicare
in modo esclusivo il processo di formazione della personalità umana e
la sua capacità di ‛coltivarsi', secondo una metafora che chiaramente
rimanda al significato etimologico del termine, per designare invece
una realtà oggettiva, vale a dire una condizione propria dell'umanità
intera o di un singolo popolo, oppure il movimento che deve condurre al
raggiungimento di tale condizione. Non più la ciceroniana cultura
animi, non più la cultura umanisticamente intesa come lo sforzo di
educazione attraverso il quale la personalità individuale viene
formandosi, nell'intento di adeguarsi a un modello ideale di umanità,
bensì la cultura concepita come lo sviluppo verso uno stato sociale
contrapposto alla barbarie, che caratterizza la vicenda storica del
genere umano o di una sua determinata parte. Il trapasso dal
significato ‛soggettivo' al significato ‛oggettivo' del termine -
linguisticamente percepibile anche dalla caduta del complemento di
specificazione che lo aveva di solito accompagnato - è perciò
rivelativo di una più profonda trasformazione concettuale, vale a dire
del passaggio da una determinazione in termini individuali a una
determinazione in termini storico-sociali della cultura. La cultura
appare tuttora considerata, il più delle volte, come un processo di
formazione; ma questo non riguarda più il singolo bensì l'umanità o un
gruppo sociale, e le varie fasi di sviluppo della cultura vengono fatte
coincidere con le tappe storiche del cammino dell'umanità. Le Ideen zur
Philosophie der Geschichte der Menschheit di J. G. Herder (pubblicate
tra il 1784 e il 1791) rappresentano il primo esempio di impiego su
larga scala del concetto di cultura in questa nuova accezione.
Attraverso l'opera di sistemazione teorica dell'etnologia tedesca della
prima metà dell'Ottocento - basterà qui ricordare l'Allgemeine
Cultur-Geschichte der Menschheit (1843-1852) e la Allgemeine
Culturwissenschaft (1854-1855) di G. F. Klemm - esso si è trasmesso
fino all'antropologia evoluzionistica e, di qui, all'antropologia
contemporanea.
Non è casuale che la trasformazione del concetto di cultura si sia
compiuta nel mondo tedesco nel corso del trapasso, per tanti aspetti
ancora oscuro, dall'illuminismo al clima intellettuale romantico. Ciò
vale a spiegare la contrapposizione tra cultura e civilisation, che
rappresenterà in seguito un motivo ricorrente nella storia dei rapporti
tra i due termini. Prodotto peculiare del pensiero illuministico
francese, ma ben presto diffuso anche oltre la Manica, il concetto di
civilisation era servito soprattutto a designare un livello di vita
associata che si colloca al di là dell'esistenza asociale dei popoli
selvaggi e dell'esistenza sociale, ma ancor priva di un'organizzazione
razionale, dei popoli barbari: un livello di vita caratterizzato dal
progressivo sviluppo della ragione umana, dal suo sforzo di dominio
della natura e dall'impegno verso il miglioramento delle condizioni di
esistenza degli uomini. In questo modo la tripartizione tra stato
selvaggio, barbarie e civiltà veniva a indicare le grandi fasi
successive dello sviluppo dell'umanità nel suo avanzamento verso uno
stato finale caratterizzato dall'acquisizione dell'autonomia razionale
da parte dell'uomo e dalla diffusione crescente dei ‛lumi'. Questa
concezione della storia come storia della civiltà sta alla base
dell'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations (1756) e delle altre
opere storiche di Voltaire, e costituisce pure il nucleo ispiratore
della storiografia illuministica inglese, da Hume a Robertson e a
Gibbon. Anche se nell'opera di Voltaire è ancora assente il termine
civilisation - che compare soltanto verso la fine degli anni sessanta,
al termine della grande stagione produttiva dell'illuminismo francese,
per poi diffondersi rapidamente nei due decenni successivi - il verbo
civiliser e l'aggettivo civilisé vi occupano invece un posto di primo
piano, e si trovano largamente impiegati da numerosi altri autori di
quel periodo.
Cultura e civiltà: due termini, due concetti che sorgono dunque sulla
base di due tradizioni differenti, e che esprimono - nonostante la loro
apparente somiglianza - due diverse concezioni dell'uomo e della
storia. Ciò spiega sia la tendenza abbastanza frequente a definirli in
antitesi l'uno con l'altro, sia la difficoltà di tradurre la loro
contrapposizione in una distinzione di carattere ‛neutrale'. La
polemica antiilluministica condotta da Herder in Auch eine Philosophie
der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774), il violento pamphlet
che rappresenta la prima espressione dello storicismo romantico, è
anche una presa di posizione ante litteram del concetto di cultura nei
confronti del concetto di civiltà. Tra la polemica del giovane Herder e
la contrapposizione - frequente nel pensiero tedesco del periodo
successivo alla prima guerra mondiale - tra l'attività creatrice della
Kultur e il carattere puramente meccanico della Zivilisation
tecnico-scientifica, vi è un legame di continuità che non è difficile
riconoscere, pur nel mutare dell'orizzonte storico. E, sull'altro
versante, la rivendicazione della civilisation, prodotto di un impegno
razionale, contro le manifestazioni oscure e primitive della Kultur
costituisce una risposta di chiara origine illuministica alla
concezione romantica della storia.
Non è certamente questa la sede adatta per tentare anche soltanto di
abbozzare una storia di questi due concetti, dei loro rapporti e della
loro contrapposizione, che richiederebbe la ricostruzione delle linee
di sviluppo della storia intellettuale (e non soltanto intellettuale)
europea degli ultimi due secoli. Quel che qui preme è piuttosto di
individuare - al di là di quest'antitesi apertamente ideologica - i
significati principali che il concetto di cultura ha assunto nell'epoca
contemporanea, i concetti ad esso di volta in volta correlati
positivamente o negativamente, il complesso di problemi in relazione ai
quali esso si è venuto definendo. In questa prospettiva la
contrapposizione tra cultura e civiltà riveste un'importanza
indubbiamente minore; e ciò soprattutto in seguito al consolidarsi del
primo termine in precisi contesti disciplinari e, al contrario, alla
maggiore indeterminatezza in cui è rimasto il secondo.
Cultura e civiltà hanno infatti avuto, nel panorama intellettuale del
Novecento, un destino assai diseguale. Il concetto di civiltà si è
dimostrato più tenacemente refrattario a una definizione scientifica, e
quindi a un impiego neutrale; anche quando si è cercato di usarlo in
questo modo, esso ha mantenuto una mal celata impronta valutativa. Più
che un concetto suscettibile di essere formulato in regole precise, la
civiltà si è rivelata un'idea, talvolta addirittura un modello ideale.
Anche lasciando da parte troppo scoperte esaltazioni di stampo
etnocentrico della civiltà contro la barbarie, o della civiltà
occidentale nei confronti di altre civiltà - ricorrenti tanto nelle
ideologie colonialistiche quanto nella propaganda dei tempi della
‛guerra fredda' - le varie teorie storico-filosofiche della civiltà
sono servite, di solito, a discriminare in termini di valore le diverse
forme di organizzazione sociale, cioè a individuare nello sviluppo
dell'umanità un livello di vita considerato ‛superiore'. Il concetto di
cultura è stato invece oggetto di una lunga elaborazione che ha fatto
di esso un concetto-chiave delle scienze sociali. Anche se l'uso del
termine in chiave valutativa è tuttora largamente diffuso, né si può
presumere che abbia a scomparire - basti pensare a contrapposizioni
come quelle tra ‛cultura' e ‛ignoranza', tra ‛cultura di élite' e
‛cultura di massa' -, il concetto di cultura ha assunto per altro verso
una veste scientifica, conquistando un posto di rilievo non soltanto
nella storiografia o nella discussione filosofica, ma anche in
discipline come l'antropologia, la sociologia, la psicanalisi e, più di
recente, l'etologia.
La differenza dei contesti disciplinari ha largamente condizionato la
concezione della cultura e la problematica relativa ai suoi diversi
significati. Non c'è dubbio, per esempio, che l'importanza preminente
assunta dal contesto antropologico, dagli ultimi decenni del secolo
scorso fin verso gli anni cinquanta, ha posto in primo piano problemi
quali quelli della struttura interna della cultura intesa in senso
globale, cioè come il patrimonio sociale dell'umanità o di un
determinato gruppo sociale che ne costituisce il portatore, o ancora
della pluralità e dei rapporti tra le culture, del relativismo
culturale, dell'acculturazione, e così via. Ma la diversità di contesto
non è, a ben vedere, determinante. Molti dei problemi che
caratterizzano la discussione contemporanea sulla cultura ricorrono
infatti in contesti differenti, mantenendo però la loro fisionomia
peculiare e conducendo a impostazioni analoghe. L'intrecciarsi dei
contesti disciplinari appare quindi altrettanto importante della loro
diversità. Per comprendere la complessa articolazione del dibattito
contemporaneo sulla cultura, nonché le formulazioni concettuali alle
quali ha dato luogo, sarà necessario tener conto di entrambe queste
coordinate, e perciò tracciare una specie di ‛mappa' semantica che
renda conto sia della configurazione specifica che la discussione ha
assunto all'interno di una data disciplina, sia delle relazioni che
intercorrono tra i diversi contesti disciplinari.
Nel far ciò si procederà muovendo dai significati più generali ai più
specifici, cioè dalle designazioni più comprensive della cultura alle
sue accezioni più determinate e quindi particolari. Per questa via è
possibile, come si vedrà, individuare alcuni principali campi di
discussione: a) il dibattito sulla cultura come concetto che designa
l'elemento propriamente ‛umano', ossia le caratteristiche distintive
del mondo dell'uomo nei confronti della natura, o del comportamento
umano nei confronti del comportamento animale; b) il dibattito
sull'origine e sull'evoluzione della cultura, che prende le mosse
dall'antropologia ottocentesca e che si sviluppa attraverso la critica
dei suoi presupposti; c) il dibattito sulle basi psichiche della
cultura, che ha il suo punto di partenza nell'opera di Freud e che si
articola attraverso il confronto tra prospettive psicanalitiche e
prospettive antropologiche; d) il dibattito sulla pluralità delle
culture e sulle implicazioni filosofiche del riconoscimento
dell'esistenza di culture individuali, caratterizzate da propri sistemi
di valori; e) il dibattito sulle differenze e sui rapporti tra le
culture, che si sviluppa attraverso la ricerca di criteri distintivi
tra culture primitive e civiltà, per approdare allo studio dei fenomeni
di acculturazione; f) il dibattito sulla cultura intesa come sistema
specifico, ossia come un aspetto del processo storico distinto dalla
vita politica ed economica o come un aspetto della sovrastruttura (in
senso marxiano) distinto sia dalla struttura economica, cioè dai
rapporti di produzione e di lavoro, sia dalla sfera anch'essa
sovrastrutturale dei processi politici; g) il dibattito sui rapporti
tra cultura e società, con i tentativi che ne sono derivati di
analizzare la stratificazione sociale della cultura, la sua
organizzazione, i suoi rapporti con le tendenze di sviluppo proprie
della società contemporanea.
2. La cultura come designazione dell'elemento propriamente umano
Il ricorso al concetto di cultura per individuare il processo storico
dell'umanità e per differenziarlo dalla natura è di origine herderiana,
e si trova largamente diffuso nella concezione romantica della storia.
Ma la distinzione nei confronti della natura era ben lungi dal
significare un'opposizione a essa: la cultura sorge infatti sulla base
della natura e con la natura mantiene, almeno ai suoi inizi, un
rapporto di sostanziale continuità. Per lo Herder delle Ideen il
processo storico dell'umanità ha il proprio punto di partenza in un
quadro cosmico-naturale che ne costituisce il presupposto necessario:
‟stella tra le stelle", il nostro pianeta offre l'ambiente adatto per
l'esistenza dell'uomo, per la sua peculiare organizzazione fisica e per
la diffusione del genere umano sulla superficie terrestre, da cui trae
origine la storia. Di conseguenza, il distacco della cultura dalla
natura si compie gradualmente, nella misura in cui l'umanità percorre
le varie tappe del suo processo di formazione e acquisisce così la
propria autonomia. In questi termini la distinzione natura-cultura
esprime un duplice rapporto di continuità e di progressiva
differenziazione. Da ciò deriva l'insistenza - soprattutto da parte
della Scuola storica tedesca - sulla relazione tra la cultura e i
singoli popoli che ne sono portatori: l'individualità dello ‛spirito
del popolo' viene assunta a principio esplicativo delle manifestazioni
culturali di ogni popolo, dando luogo al riconoscimento di una
molteplicità di forme etniche di cultura attraverso le quali si
realizza il processo storico dell'umanità.
Sostanzialmente diverso appare il significato della distinzione tra
natura e cultura quando, negli ultimi anni dell'Ottocento e all'inizio
del Novecento, essa viene ripresa per dare una risposta al problema
della differenziazione tra scienze della natura e scienze
storico-sociali. L'impostazione herderiana è completamente messa in
disparte e la base per la soluzione del problema è fornita da una
teoria della conoscenza di derivazione kantiana. Negli scritti di W.
Windelband (che nel 1894 scrive il saggio Geschichte und
Naturwissenschaft) e del suo allievo H. Rickert, l'antitesi tra natura
e cultura designa anzitutto due modi di considerazione della realtà,
connessi a due diversi orientamenti del conoscere: la natura è la
realtà considerata in riferimento a leggi generali, mentre la cultura è
la realtà considerata in riferimento all'individuale. Così la cultura
risulta definita come l'oggetto specifico della conoscenza storica, e
reciprocamente questa viene determinata in base alla relazione con
valori culturali che trovano nella storia il loro campo di
realizzazione. Anche se Windelband aveva ammesso - in polemica con la
concezione diltheyana delle ‛scienze dello spirito' - la possibilità
che qualsiasi fenomeno divenga oggetto sia della scienza naturale sia
della conoscenza storica, la contrapposizione metodologica tra natura e
cultura si è di fatto tradotta, in Rickert, in un'equivalenza tra mondo
storico e cultura, concepiti come un mondo logicamente autonomo
rispetto a quello studiato dalla scienza naturale. L'affermazione
dell'irriducibilità delle scienze storico-sociali al procedimento
generalizzante della scienza della natura diventa così la base di una
concezione onnicomprensiva della cultura, che la identifica col mondo
storico-sociale dell'uomo. A ciò si accompagna un'ulteriore
determinazione, destinata ad avere largo seguito nei decenni
successivi: la definizione della cultura in termini di valori, o più
precisamente di rapporto con i valori. Ciò che costituisce l'elemento
differenziante della cultura rispetto alla natura è la relazione dei
suoi processi con determinati valori - poco importa se trascendenti o
immanenti - i quali danno a essi significato: la significatività di un
avvenimento storico, ciò che lo rende anzi un ‛individuo' storico,
consiste nella relazione con i valori che esso realizza.
Un'analoga matrice kantiana si trova sovente nei principali tentativi
di ‛filosofia della cultura' compiuti nella prima metà di questo
secolo. Ciò vale soprattutto nel caso di E. Cassirer, il quale -
muovendo da una posizione di ortodossia neocriticistica quale quella
della Scuola di Marburg - è pervenuto, prima nella Philosophie der
symbolischen Formen (1923-1929) e più tardi nell'Essay on man (1944), a
una concezione dell'uomo come animale simbolico e quindi a una
considerazione del mondo umano come il risultato di processi di
simbolizzazione. Non soltanto la conoscenza scientifica, ma anche il
linguaggio e il mito, la religione e l'arte e, più in generale, tutte
le forme di attività umana sono, in questo senso, forme simboliche. Il
richiamo da un lato alla tradizione della linguistica ottocentesca (da
W. von Humboldt a M. Müller) e dall'altro agli studi sul pensiero
mitico (da E. B. Taylor e J. G. Frazer fino a L. Lévy-Bruhl) e, insieme
a esso, l'interpretazione in chiave kantiana dello sviluppo della
scienza moderna conducono Cassirer a individuare l'elemento specifico
dell'attività umana nella capacità di produrre simboli e di creare in
tale maniera un universo differente da quello naturale, in cui il
rapporto con la natura è mediato dall'uso dei simboli. Gli animali si
avvalgono puramente di segni, mai di simboli; l'uomo soltanto è animale
simbolico. Perciò egli non si pone direttamente di fronte alla realtà
circostante, ma può soltanto interpretarla attraverso determinate forme
simboliche che danno forma all'esperienza. E l'universo simbolico così
costituito non è altro che la cultura, la quale comprende tutti i campi
dell'attività umana in quanto attività simbolica. Compito di una
‛filosofia della cultura' diventa perciò quello di individuare le forme
simboliche che stanno a base di questi diversi campi, di riconoscerle
nella loro specificità e di analizzarne i rapporti: mentre le scienze
storico-sociali studiano il contenuto molteplice della cultura, alla
riflessione filosofica spetta determinarne i principi produttivi.
Non nella ‛filosofia della cultura' di Cassirer, alla quale è
sostanzialmente estranea qualsiasi dimensione sociologica, bensì
nell'antropologia culturale così come si viene sviluppando, nella prima
metà del secolo, in terra americana - soprattutto ad opera di F. Boas e
della sua scuola - si può trovare l'elaborazione e l'impiego
sistematico di un significato ‛totale' della cultura, definita come un
campo di indagine autonomo e distinto rispetto all'oggetto delle varie
discipline naturalistiche. In realtà, tale significato era stato
enunciato per la prima volta fin dal 1871, nel primo capitolo di
Primitive culture, da E. B. Tylor, e aveva fornito all'antropologia
evoluzionistica di fine Ottocento il fondamento teorico per riconoscere
l'esistenza di una ‛cultura primitiva' caratterizzata da una propria
fisionomia, che costituisce il punto di partenza dello sviluppo
culturale dell'umanità. Tylor aveva dato della cultura una definizione
tale da comprendervi non soltanto le attività specificamente
intellettuali come la religione, il sapere scientifico, l'arte, la
morale e il diritto ma anche il costume e, in generale, qualsiasi
capacità o abitudine acquisita socialmente. Proprio questa estensione
dell'ambito della cultura gli aveva consentito di mostrarne la presenza
ovunque esiste o è esistita una società umana con suoi particolari
costumi, e quindi anche presso i popoli primitivi. Tylor riprendeva
così l'interpretazione illuministica dello sviluppo storico come
passaggio graduale dallo stato selvaggio alla barbarie, e dalla
barbarie alla civiltà; ma riconosceva nei popoli selvaggi una forma
particolare di cultura qualificata come ‛cultura primitiva', che ha la
propria base nell'animismo e che si presenta con caratteri uniformi
presso tutti i popoli.
Pur respingendo lo schema storico-evolutivo di Tylor e la sua
interpretazione della ‛cultura primitiva' come momento a sé stante
dell'evoluzione culturale dell'umanità, rintracciabile nella storia di
ogni società, Boas accoglie questo significato ‛totale' della cultura e
lo assume come base per definire l'impostazione della scienza
antropologica. La cultura viene in tal modo a configurarsi come un
complesso di elementi o di ‛tratti', nel cui interno si possono
distinguere due componenti principali: da una parte gli ‛abiti'
sociali, cioè le reazioni e le attività che caratterizzano il
comportamento degli individui i quali fanno parte di una certa
comunità, dall'altra i prodotti di quest'attività, vale a dire quella
che l'etnologia ottocentesca aveva qualificato con l'espressione
‛cultura materiale'. Della cultura così intesa Boas mette in rilievo
due aspetti fondamentali: il suo carattere acquisito e la sua
irriducibilità a condizioni extraculturali. In The mind of primitive
man (1911) Boas definisce la cultura in base al suo peculiare
meccanismo di trasmissione: la cultura non è, nè può essere, oggetto di
trasmissione per via genetica, ma è invece oggetto di apprendimento.
Essa costituisce un'eredità non biologica ma sociale, un patrimonio non
del singolo individuo bensì del gruppo sociale. Di conseguenza, i
fenomeni culturali possono essere spiegati soltanto riportandoli ad
altri fenomeni anch'essi culturali, non già attraverso un'arbitraria
riduzione a fenomeni esterni alla cultura. La cultura non è determinata
dall'ambiente geografico, tant'è vero che forme di cultura differenti
possono sorgere in ambienti simili e forme di cultura analoghe si
presentano in ambienti quanto mai diversi; la cultura non è determinata
dalle caratteristiche biologiche dei popoli, poiché tra differenze
razziali e differenze culturali non c'è corrispondenza; infine la
cultura non è neppure determinata economicamente, poiché la stessa
struttura economica dipende a sua volta da condizioni culturali, anzi è
parte della cultura.
Riprendendo la polemica anti-deterministica di Boas allo scopo di
garantire l'autonomia metodologica dell'antropologia culturale, R. H.
Lowie perviene a ribadire, in Culture and ethnology (1917) e in
Primitive society (1920), l'irriducibilità dei fenomeni culturali non
soltanto a condizioni geografiche o biologiche, ma anche a
caratteristiche psicologiche: le ‛determinanti' della cultura possono
essere interne o esterne, cioè possono risiedere nel corso precedente
di una data cultura o nei suoi rapporti con altre culture, ma in
entrambi i casi rivestono carattere culturale. Il punto di vista
boasiano trova la sua formulazione estrema nel tentativo di elaborare
una teoria della cultura che ne giustifichi l'autonomia anche sul
terreno ontologico, sviluppato da A. L. Kroeber nel saggio The
superorganic (1917) e in numerose opere successive (tra cui particolare
importanza assume il Volume Anthropology, apparso nel 1923 e
ripubblicato in nuova versione nel 1948). Richiamandosi alla
distinzione spenceriana tra evoluzione inorganica, evoluzione organica
ed evoluzione super-organica, Kroeber individua in quest'ultima la sede
propria della cultura, fino a differenziarla - negli scritti posteriori
al 1930 - anche nei confronti della società. La cultura costituisce
infatti un livello di organizzazione (il più complesso e quindi il più
elevato di tutti) distinto non soltanto da quello dei fenomeni fisici o
chimici o biologici o psicologici, ma anche dal livello dei fenomeni
sociali. In quanto irriducibile a una base psicologica, la cultura è
super-individuale; in quanto irriducibile all'organizzazione sociale,
la cultura è parimenti super-sociale. Non la vita in società,
rintracciabile anche presso altre specie, bensì la cultura rappresenta
per Kroeber l'attributo peculiare dell'uomo.
Ciò non vuol dire che Boas e la scuola boasiana intendano definire la
cultura in contrapposizione alla natura; anche per Kroeber, infatti, i
fenomeni culturali fanno sempre parte della natura, pur costituendone
un livello con sue caratteristiche proprie. Il loro intento è invece
quello di definire la cultura come una realtà specifica, non
riconducibile a fenomeni di altro genere anche se ovviamente
condizionata dal rapporto con essi, e di stabilire altresì
un'equivalenza tra la cultura e il mondo umano. In quest'opera di
elaborazione teorica Boas e la scuola boasiana si sono trovati ad
affrontare il problema del limite inferiore della cultura, ossia il
problema della demarcazione tra comportamento umano e comportamento
animale. La risposta a tale problema appare strettamente conforme al
presupposto dell'esclusività umana della cultura, che a sua volta
appare fondato su un altro presupposto: quello dell'esclusività umana
del linguaggio. Se presso molte specie animali si possono trovare forme
di organizzazione sociale, e quindi anche qualcosa di analogo agli
abiti sociali, la cultura rimane una proprietà dell'uomo, in quanto
soltanto l'uomo è capace di apprendimento. In un saggio del 1932 un
antropologo statunitense estraneo alla scuola boasiana (anche se per
qualche aspetto influenzato da Kroeber), G. P. Murdock, indicava i
quattro fattori della cultura nella capacità di formazione degli abiti,
nella vita sociale, nell'intelligenza e nel linguaggio, concludendo
che, mentre i primi tre possono venir rintracciati pure nel mondo
animale, l'ultimo - che è poi quello decisivo - appare proprio soltanto
dell'uomo. Il linguaggio diventa così l'elemento differenziante della
cultura, e la cultura viene riconosciuta come attributo specifico del
comportamento umano.
Il concetto di cultura viene in tal modo assunto a base di una
differenziazione in termini qualitativi tra comportamento umano e
comportamento animale. L'antitesi tra natura e cultura - teorizzata da
Cassirer e, più in generale, dalla ‛filosofia della cultura' - viene
sostituita dalla distinzione tra il mondo animale, caratterizzato da
una trasmissione per via genetica, e il mondo umano, nel quale
all'eredità biologica si affianca un'altra forma di trasmissione,
fondata sull'apprendimento e quindi sul linguaggio. Ma proprio
quest'affermazione dell'eterogeneità tra comportamento umano e
comportamento animale, che discende dal presupposto dell'esclusività
umana della cultura, è stata in epoca recente messa in questione dallo
sviluppo degli studi sul comportamento animale. Una nuova disciplina
sorta sul tronco delle scienze biologiche, l'etologia, ha infatti
contestato tale principio, spostando all'interno del mondo animale la
ricerca di un limite inferiore della cultura e proponendosi di
rintracciare presso altre specie le radici (o magari forme parallele di
sviluppo) dei fenomeni culturali prima ritenuti peculiari all'uomo. Gli
studi di K. von Frisch, di K. Lorenz, di N. Tinbergen e di numerosi
altri studiosi hanno mostrato che anche altre specie animali sono in
grado di produrre - e quindi di trasmettere - cultura, in quanto sono
anch'esse capaci di apprendimento. La stessa antitesi tra trasmissione
per via genetica e trasmissione culturale è stata messa in questione
attraverso l'analisi del fenomeno dell'imprinting, ossia di un tipo
particolare di apprendimento limitato al periodo immediatamente
successivo alla nascita (e in certi casi addirittura al periodo
prenatale) e accompagnato dalle cure dei genitori, in virtù del quale
il neonato acquisisce certi modi di comportamento tipici della propria
specie i quali risultano, in seguito, irreversibili: la preferenza per
determinati cibi, la capacità di riconoscere i membri della propria
specie, l'ostilità o la tolleranza verso specie differenti. Ma
soprattutto è stata dimostrata l'infondatezza del presupposto ultimo
sul quale si reggeva l'affermazione dell'esclusività umana della
cultura, cioè l'infondatezza del presupposto secondo cui soltanto
l'uomo possiede un linguaggio. La presenza di caratteristiche
simboliche nei modi di comunicazione di varie specie animali rende
ormai insostenibile la loro riduzione a un livello puramente segnico, e
impone di riconoscere l'esistenza di veri e propri linguaggi animali.
Se anche nel mondo animale esistono forme di apprendimento, di
comportamento simbolico, di linguaggio, se cioè esiste una ‛cultura
animale' la cui analisi può essere di aiuto anche per la spiegazione
delle basi biologiche della cultura umana, appare chiaro che il
concetto di cultura non può più essere impiegato allo scopo di
designare le caratteristiche peculiari del mondo umano. Il concetto di
cultura ha perduto la funzione discriminante ad esso attribuita e sulla
quale poggiava la pretesa di autosufficienza metodologica
dell'antropologia culturale (almeno nell'impostazione di Boas e della
scuola boasiana). Lo stesso problema della determinazione dei tratti
specifici del comportamento umano si pone in termini differenti e
richiede di essere affrontato tenendo conto dell'esistenza presso altre
specie animali non soltanto di una vita sociale con proprie forme di
organizzazione - come era stato ammesso da Spencer a Kroeber e a
Murdock - ma anche di altri tipi di cultura, con propri processi di
apprendimento e quindi anche di adattamento a nuovi ambienti e di
trasformazione strutturale. In questo modo l'etologia, mentre mette in
crisi la tradizionale delimitazione del concetto di cultura al mondo
umano, apre ad esso un nuovo campo di applicazione. Il concetto di
cultura sembra così assolvere una funzione analoga a quella che aveva
avuto un secolo prima, allorché Tylor era pervenuto alla formulazione
del suo significato ‛totale'. Allora esso aveva consentito di
riconoscere l'esistenza di una ‛cultura primitiva' dalla quale derivano
le forme di cultura più progredite, allargando l'ambito della cultura
dall'esistenza storica alla vita preistorica dell'umanità e spostando
all'indietro nel tempo la ricerca della sua origine. Analogamente, esso
permette oggi di riconoscere l'esistenza di una ‛cultura animale' che
costituisce l'antecedente biologico della cultura umana, estendendo
ulteriormente l'ambito della cultura ad altre specie e recuperando a
una considerazione in termini culturali anche il comportamento animale.
3. Origine e evoluzione della cultura
Il problema dell'origine e dell'evoluzione della cultura ha avuto
un'importanza centrale nell'antropologia di fine Ottocento; anzi, esso
è alla base del costituirsi dell'antropologia come disciplina autonoma.
L'interesse preminente per le forme primitive di cultura ha infatti
posto in primo piano la questione dell'origine della cultura, cioè
delle condizioni e delle modalità di passaggio dell'umanità da
un'esistenza puramente naturale a un'esistenza storica; mentre, d'altra
parte, la considerazione della distanza che intercorre tra tali forme e
il livello presente di civiltà ha condotto a determinare il processo
attraverso il quale l'umanità si è venuta sviluppando fino a questo
livello e, quindi, anche i momenti o le epoche fondamentali in cui si è
articolato. Nell'affrontare questo duplice problema l'antropologia
evoluzionistica ha fatto appello al presupposto dell'unità dello
sviluppo culturale, ossia della sostanziale uniformità del processo
evolutivo dei diversi popoli e delle sue singole fasi. Tutti i popoli
hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò
che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, la
quale fornisce la chiave per comprendere il motivo del loro diverso
grado di sviluppo culturale. Questa impostazione ha consentito, tra
l'altro, di istituire uno stretto parallelismo tra la società antica
(in particolare quella del periodo arcaico) e la struttura sociale dei
popoli ancora allo stato primitivo, ritrovando in questi ultimi
l'equivalente del passato preistorico del mondo europeo. L'adozione del
metodo comparativo come strumento di ricostruzione delle varie fasi del
processo evolutivo della cultura si proponeva appunto di individuare -
mediante l'impiego congiunto di testimonianze storiche e del materiale
etnografico - le caratteristiche specifiche di ognuna di esse, nonché
l'ordine della loro successione. Poco importa che l'origine della
cultura venga rintracciata nel matriarcato o nel patriarcato, o invece
in un animismo primitivo dal quale scaturiscono prima il politeismo e
quindi il monoteismo (secondo lo schema formulato da Tylor in Primitive
culture), oppure che l'evoluzione della cultura venga delineata sulla
base della progressione delle forme di organizzazione sociale, delle
forme di struttura familiare e delle istituzioni di proprietà, dando
luogo a una caratterizzazione sistematica dei singoli periodi dello
stato selvaggio, della barbarie e della civiltà (secondo l'analisi
condotta nel 1877 da L. H. Morgan in Ancient society, e poi ripresa da
Engels), o ancora che la direzione dello sviluppo culturale sia
individuata nel trapasso dalla magia alla religione e quindi dalla
religione alla scienza (come fa J. G. Frazer in The golden bough,
apparso nel 1890 e ripubblicato più volte in edizioni accresciute). Al
di là delle differenze anche rilevanti che separano i maestri
dell'antropologia evoluzionistica, l'impostazione teorica rimane
fondamentalmente la stessa.
Proprio questa impostazione è stata oggetto di critica da parte della
scienza antropologica contemporanea, fin dal saggio di Boas The
limitations of the comparative method of anthropology (1896). Tale
critica è stata diretta a mostrare l'infondatezza del presupposto di
una evoluzione unilineare, e quindi delle corrispondenze che in base ad
esso l'antropologia evoluzionistica aveva ritenuto di poter scoprire
nello sviluppo culturale dell'umanità. Boas, in particolare, ha
insistito sulla molteplicità di forme che un medesimo fenomeno
etnologico può assumere in contesti differenti, e quindi
sull'individualità del processo evolutivo di ogni popolo, contestando
quindi la pretesa di attingere - mediante il metodo comparativo - leggi
generali di sviluppo universalmente valide e ponendo invece in rilievo
l'importanza del fenomeno della diffusione, che può spiegare la
presenza di analogie culturali in popoli geograficamente anche lontani.
Ma il rifiuto dell'impostazione evoluzionistica si estende pure
all'antropologia britannica del periodo tra le due guerre (e in parte a
quella posteriore). A. R. Radcliffe-Brown ha infatti respinto il tipo
di ricostruzione a cui essa aveva dato luogo qualificandola
negativamente come ‟storia congetturale" e denunciando il carattere
arbitrario di gran parte delle generalizzazioni così ottenute; mentre
B. Malinowski ha criticato il concetto di sopravvivenza - di cui Tylor
si era servito per risalire dallo stato presente dello sviluppo
culturale alle sue fasi precedenti - proclamando la necessità di
determinare su base sincronica la funzione delle istituzioni che
costituiscono una data cultura e le loro correlazioni funzionali. In
entrambi i casi il problema dell'origine e dell'evoluzione della
cultura appare uno pseudoproblema: nel caso di Boas e della scuola
boasiana perché il processo di sviluppo culturale è diverso da popolo a
popolo, nel caso di Radcliffe-Brown e di Malinowski perché la
ricostruzione del passato culturale è al di fuori della sfera di
competenza dell'antropologia.
Alla ricerca delle fasi successive di sviluppo della cultura, intesa
come un processo sostanzialmente unitario, subentra perciò l'analisi
delle diverse aree culturali, del loro ambito geografico e delle loro
caratteristiche specifiche. Soprattutto O. T. Mason, C. Wissler e in
seguito lo stesso Kroeber (in Cultural and natural areas of native
North America, del 1939), affrontando lo studio delle popolazioni
indiane del Nordamerica, si sono proposti di individuare le unità
geografiche caratterizzate da tratti culturali comuni, e hanno visto in
esse il risultato di un processo di diffusione da un centro. In tal
modo il principio della diffusione - la cui importanza era stata
sottolineata pure da Boas - veniva assunto come strumento per
determinare l'età relativa delle caratteristiche proprie di una certa
area, in base al presupposto che le caratteristiche più remote devono
essere quelle più distanti dal centro, mentre le più recenti si
collocano vicino al luogo di origine dell'area culturale. A questa
utilizzazione metodologica del principio della diffusione ha fatto
riscontro, nel mondo britannico e in quello austrotedesco,
l'elaborazione di teorie diffusionistiche di ben più vasta portata,
intese a ricondurre le varie forme di cultura a determinati centri di
propagazione o, al limite, a un unico centro geografico dal quale la
cultura si sarebbe diffusa per tutta la terra in concomitanza con
fenomeni migratori o di contatto. Autori come W. H. R. Rivers, G. E.
Smith e W. G. Perry in Inghilterra, come F. Graebner in Germania, come
W. Schmidt in Austria si sono avvalsi a tale scopo dei concetti di
diffusione e di ambito culturale, contrapponendo allo schema
storico-evolutivo dell'antropologia ottocentesca un'impostazione nella
quale il problema dell'origine della cultura assumeva un significato
spaziale anziché temporale, mentre il problema dell'evoluzione veniva
tradotto in termini geografici.
Per lungo tempo respinta dall'antropologia contemporanea,
l'impostazione evoluzionistica ha avuto un'ampia ripresa negli anni
immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, a partire da Man
makes himself (1936) di V. G. Childe, e ancor più nel dopoguerra,
attraverso la pubblicazione degli altri scritti dello stesso Childe
(come What happened in history del 1946 e Social evolution del 1951) e
l'opera di studiosi come L. A. White e J. Steward. Essi si richiamano
allo schema storico-evolutivo dell'antropologia di fine Ottocento, ma
il loro tentativo appare assai più elaborato e metodologicamente
scaltrito. Lungi dal negare la diversità di sviluppo delle varie aree
culturali, essi si propongono infatti di determinare non soltanto il
processo evolutivo generale della cultura, ma anche le particolari
sequenze di sviluppo delle singole culture. In questo senso Steward ha
contrapposto la teoria dell'evoluzione multilineare - che egli ritiene
propria del neoevoluzionismo - alla teoria ottocentesca dell'evoluzione
unilineare; e anche se White ha rifiutato tale distinzione, insistendo
sulla continuità della propria posizione rispetto a Morgan, le
differenze teoriche rimangono tuttavia abbastanza nette. Il problema
dell'origine della cultura assume la forma più specifica dell'analisi
del trapasso da una condizione primitiva allo stato di civiltà, e la
ricostruzione del passato culturale dell'umanità appare orientata in
vista della determinazione dei mutamenti tecnologici attraverso i quali
si è compiuto il suo incivilimento. Childe individua alla base del
sorgere della civiltà due successive ‛rivoluzioni', che hanno
radicalmente trasformato il modo di approvvigionamento e quindi il
sistema di produzione: la rivoluzione agricola, in virtù della quale la
coltivazione e l'allevamento del bestiame hanno preso il posto delle
tecniche di caccia, di pesca e di raccolta, e la rivoluzione urbana,
attraverso la quale si è compiuto il passaggio dalla vita di villaggio
alla vita di città. Nella città si sviluppano infatti la divisione del
lavoro e le distinzioni di classe, la produzione in vista dello scambio
e il mercato; nella città trova il suo centro l'organizzazione statale
che subentra a quella tribale; nella città si determinano le condizioni
indispensabili per un'autonoma attività intellettuale e per la
formazione di un ceto professionale impegnato in essa. La città diventa
così la sede di un nuovo tipo di vita sociale, che risulta
strutturalmente differente da quello che l'ha preceduto e che può
appunto essere definito come civiltà.
Se fino a pochi decenni or sono l'impostazione evoluzionistica sembrava
scomparsa dall'orizzonte dell'antropologia contemporanea, essa è oggi
risorta a nuova vita, ed è al centro di un dibattito particolarmente
intenso negli Stati Uniti e nei paesi dell'America meridionale. Essa ha
trovato il suo principale campo di prova nell'analisi delle culture
centro- e sudamericane, caratterizzate da un grado di sviluppo
notevolemente diverso da quello delle tribù nordamericane alle quali
aveva rivolto il proprio interesse la scuola boasiana, o da quello
delle popolazioni africane o oceaniane che avevano costituito l'oggetto
delle ricerche condotte dall'antropologia inglese. Lo studio di società
caratterizzate da insediamenti urbani, da forme complesse di
organizzazione produttiva, da sistemi politici di carattere non più
tribale ma statale, riproponeva infatti il problema dell'origine delle
città, dei rapporti tra città e campagne circostanti, delle condizioni
tecnologiche che stanno alla base di questi fenomeni. Ma tale problema
poteva trovare risposta soltanto attraverso una ricostruzione storica,
cioè attraverso l'individuazione dei momenti successivi di un processo
evolutivo e delle modalità di trapasso dall'uno all'altro momento.
Questa ricostruzione non si propone però di riportare lo sviluppo dei
diversi popoli a uno schema universalmente valido, ma prende in
considerazione anche le variabili ecologiche, cercando di mettere in
rilievo - soprattutto nell'opera di Steward - la correlazione tra
ambiente e organizzazione sociale e di assumerla come base di
spiegazione delle differenze culturali. In tal modo il neoevoluzionismo
non si pone come una semplice ripresa dell'impostazione
dell'antropologia ottocentesca, ma perviene a correggerla
sostanzialmente arricchendo lo schema storico-evolutivo di una nuova
dimensione: quella della variabilità della cultura in rapporto al suo
contesto geografico.
4. Le basi psichiche della cultura
Il problema dell'origine della cultura trova una formulazione
ambivalente, in termini per un verso storico-evolutivi e per l'altro
verso psicologici, nell'opera di Freud e nella psicanalisi di
derivazione freudiana (v. psicanalisi). A fondamento di questa
formulazione sta il postulato del parallelismo tra ontogenesi e
filogenesi, tra sviluppo psichico individuale e sviluppo culturale
della specie: l'analisi del sorgere della cultura ai primordi
dell'umanità deve condurre alla scoperta di quelle medesime strutture
inconsce, di quegli stessi meccanismi di rimozione che si trovano alla
radice della formazione della personalità. Il punto di partenza della
concezione psicanalitica della cultura è perciò l'impostazione
evoluzionistica nei termini propri dell'antropologia ottocentesca: lo
sviluppo culturale della specie umana viene considerato come un
processo unidirezionale, che muove da una situazione traumatica
corrispondente a quella dell'infanzia. Ma in virtù di quest'analogia la
ricerca dell'origine della cultura viene a coincidere con la ricerca
delle sue basi psichiche, universalmente presenti in ogni individuo e
in qualsiasi forma di organizzazione sociale.
Fin da Totem und Tabu (1912-1913) il fondatore della psicanalisi appare
impegnato nel tentativo di determinare le ‟concordanze tra la vita
psichica dei primitivi e dei nevrotici", e quindi di individuare il
meccanismo di repressione degli impulsi sessuali nel quale dev'essere
riconosciuta la condizione del sorgere della cultura umana. Nella sua
analisi Freud si richiama agli studi sul totemismo di Frazer e di W.
Robertson Smith, nonché alla teoria darwiniana dell'orda primitiva come
punto di partenza dell'evoluzione culturale dell'umanità: i suoi
presupposti sono, in larga misura, quelli dell'antropologia
evoluzionistica, e su di essi non sembra incidere la critica che in
quel periodo ne stava conducendo la scuola boasiana. Secondo Freud,
all'origine della cultura si trova una situazione traumatica
corrispondente a quella che genera la nevrosi: il parricidio
originario, che mette fine al monopolio sessuale delle donne da parte
del padre tiranno e suscita nei figli che l'hanno ucciso un rimorso
collettivo e quindi il senso di colpa per il delitto compiuto, si
presenta come la premessa necessaria del divieto dell'incesto,
attraverso il quale si costituisce un'organizzazione sociale fondata
sulla repressione degli impulsi sessuali e sulla regolamentazione dei
modi di soddisfarli. E così la figura del padre primitivo, che dispone
in maniera esclusiva delle donne del gruppo, rivela la propria analogia
con quella del padre che monopolizza l'amore della madre, avvalendosi
della propria posizione di superiorità per precluderne al figlio la
fruizione sessuale; l'atteggiamento dei figli nei confronti del padre
primitivo mostra gli stessi tratti ambivalenti, di odio e di
ammirazione, che spingono l'individuo a identificarsi col padre pur
riconoscendo in lui il rivale vittorioso nell'amore per la madre; il
senso di colpa per il parricidio è l'equivalente del senso di colpa
prodotto da questa situazione di rivalità e dall'avversione per il
padre che essa comporta; il pasto totemico, con la sopravvivenza del
padre ucciso nel corpo dei figli, simbolizza l'interiorizzazione
dell'autorità paterna; infine, in entrambi i casi, l'esito è la
repressione dell'istinto, vale a dire la rinuncia alle donne del gruppo
o la rinuncia al rapporto sessuale con la madre. Il complesso di Edipo
diventa quindi l'elemento decisivo per spiegare il trapasso dall'orda
primitiva - che rappresenta ancora una situazione naturale - a
un'organizzazione sociale in cui il tabù dell'incesto presiede ai
rapporti tra i membri del gruppo.
Negli scritti successivi, da Jenseits des Lustprinzips (1920) fino a
Die Zukunft einer Illusion (1927) e a Das Unbehagen in der Kultur
(1930), Freud ha generalizzato queste conclusioni in una teoria dello
sviluppo culturale fondata sulla contrapposizione tra principio del
piacere e principio della realtà. La cultura è possibile in virtù della
repressione dell'istinto, della limitazione e del differimento del
piacere, della subordinazione del principio del piacere al principio
della realtà. Il soddisfacimento non regolato degli impulsi sessuali è
di ostacolo al progredire della cultura, anzi lo rende impossibile; la
repressione è il prezzo inevitabile della cultura. Naturalmente, non
ogni repressione è culturalmente produttiva: tra la repressione che dà
luogo alla nevrosi e la repressione-sublimazione che consente di
realizzare fini superiori, differendo il soddisfacimento degii impulsi
sessuali e traducendoli in impulsi di altra specie, esistono
sostanziali differenze. Ma qualsiasi organizzazione sociale, e quindi
qualsiasi forma di cultura, poggia sulla limitazione della sessualità:
essa si procura l'energia di cui ha bisogno sottraendola alla
sessualità. E proprio in ciò sta la radice della crisi intrinseca allo
sviluppo della cultura, così come Freud la definisce in Das Unbehagen
in der Kultur: la sottrazione continua di energia indebolisce l'Eros,
mette in libertà gli impulsi aggressivi e distruttivi, consente
all'istinto di morte di manifestarsi incontrastato. All'interpretazione
dell'origine della cultura formulata in Totem und Tabu fa così
riscontro, negli scritti freudiani degli anni venti, una teoria della
crisi della cultura la quale esprime in linguaggio psicanalitico la
consapevolezza - largamente diffusa nel clima intellettuale europeo del
primo dopoguerra, da O. Spengler a J. Huizinga e a J. Ortega y Gasset,
- di una tendenza alla decadenza e all'autodistruzione, immanente al
processo culturale.
Di queste due concezioni la prima non soltanto ha avuto larghissima
risonanza nella letteratura psicanalitica, ma è stata altresì oggetto
di discussione da parte di antropologi come Kroeber (in una recensione
apparsa nel 1920) e Malinowski (in Sex and repression in savage society
del 1927). Se l'atteggiamento di Kroeber è decisamente polemico, la
posizione di Malinowski è al tempo stesso critica e recettiva.
Malinowski respinge infatti la spiegazione freudiana dell'origine della
cultura, ponendo in luce il circolo vizioso a cui mette capo
qualificando con caratteristiche culturali la situazione dell'orda
primitiva, dalla quale dovrebbe essere derivata la cultura stessa. Egli
accetta però il programma freudiano di ricerca delle basi psichiche
della cultura, ponendo a confronto l'interpretazione di Freud con i
risultati della ricerca sul campo. Attraverso l'analisi
dell'organizzazione socio-familiare melanesiana Malinowski si propone
di dimostrare che - lungi dall'essere universale, come aveva preteso
Freud - il complesso di Edipo si trova soltanto nelle società di tipo
patriarcale ed è invece assente in una società matrilineare nella quale
il portatore dell'autorità non è il padre ma lo zio materno, e la
repressione sessuale ha per oggetto non il rapporto con la madre ma
quello con le sorelle. Egli riconosce così l'esistenza di un complesso
che condiziona la formazione della personalità, ma respinge il
presupposto dell'unicità di tale complesso: lungi dal costituire il
fondamento della cultura, il complesso di Edipo è esso stesso un
prodotto culturale, legato a determinate forme di organizzazione
sociale e soprattutto a una particolare struttura familiare. L'esito di
questa correzione apportata all'interpretazione freudiana della cultura
è perciò non soltanto l'abbandono dello schema storico-evolutivo
presente in Totem und Tabu, ma anche la relativizzazione del complesso
di Edipo e l'affermazione dell'esistenza di altri complessi
strutturalmente differenti e quindi non riducibili ad esso. Una
conclusione del genere era ovviamente inaccettabile dal punto di vista
psicanalitico; e infatti l'opera di G. Róheim, il maggiore esponente
dell'ortodossia freudiana in campo psicanalitico, è diretta a ribadire
l'universalità del complesso di Edipo e la sua indipendenza da
condizioni socio-culturali. In The riddle of the Sphynx (1934) e in
varie opere successive, Róheim si è proposto di dimostrare l'identità
della situazione infantile in tutte le società, individuandone i tratti
caratteristici nel legame libidico con la madre e nello sviluppo di una
sessualità precoce. Ciò non vuol dire che non esistano differenze
culturali da una società all'altra; ma lungi dal determinare la
formazione di tipi diversi di complessi, esse risultano condizionate
dalla particolare specie di trauma che si verifica nell'età infantile.
Róheim istituisce così una correlazione tra il trauma ontogenetico
proprio di una data cultura, comune a tutti i suoi membri, e i modelli
da cui essa è caratterizzata: ma l'elemento fondamentale rimane il
primo, non già il secondo.
Questo contrasto di principio che separa Malinowski da Freud, e
reciprocamente Róheim da Malinowski, lascia posto - a partire dalla
metà degli anni trenta - a un legame più stretto e positivo tra
psicanalisi e antropologia. Le prospettive psicanalitiche cominciano ad
agire all'interno dell'antropologia culturale ispirando da una parte le
ricerche di M. Mead, dall'altra gli studi sui rapporti tra cultura e
personalità intrapresi da A. Kardiner, R. Linton e altri studiosi. In
tale recezione della psicanalisi lo schema storico-evolutivo di Totem
und Tabu appare decisamente abbandonato, e viene al tempo stesso
lasciato cadere il postulato del parallelismo tra ontogenesi e
filogenesi. La ricerca delle basi psichiche della cultura si trasforma
nella ricerca della correlazione tra forme di cultura e strutture della
personalità, considerate come termini in rapporto di dipendenza
reciproca.
A differenza dell'interpretazione dell'origine della cultura, la teoria
della crisi della cultura, esposta da Freud in Die Zukunft einer
Illusion e in Das Unbehagen in der Kultur, è rimasta estranea
all'ambito degli studi antropologici. Essa ha invece trovato una
significativa rielaborazione ad opera di H. Marcuse, che in Eros and
civilization (1955) ne ha dato una trascrizione ‛filosofica'
avvalendosi delle categorie socio-politiche della Scuola di
Francoforte. Marcuse ha accolto la tesi freudiana della connessione tra
cultura e repressione degli impulsi sessuali, introducendo però una
distinzione tra due tipi di repressione: la repressione fondamentale,
senza la quale non è possibile nessuna forma di cultura, e la
repressione addizionale, dipendente dai rapporti di
dominio-subordinazione e quindi storicamente condizionata dal legame
con determinate forme di organizzazione sociale. In questa prospettiva
il principio della realtà appare modificato, nel mondo contemporaneo,
nella forma specifica del principio di prestazione, che impone appunto
di soffocare gli impulsi sessuali e di subordinarli al conseguimento
degli scopi di una società industriale orientata verso l'aumento
crescente della produttività e verso la meccanizzazione della vita.
Marcuse perviene così a formulare l'alternativa utopica di una cultura
non repressiva, nella quale la repressione addizionale dev'essere
eliminata e il principio della realtà - liberato dal principio di
prestazione - può finalmente conciliarsi con quello del piacere. Una
conclusione siffatta rappresenta però il capovolgimento del punto di
vista di Freud, più che la sua prosecuzione. Non soltanto il problema
della crisi immanente alla cultura si è trasformato nel problema della
possibilità di una liberazione dalla repressione inerente alle forme
storiche di organizzazione sociale, ma l'indicazione terapeutica
implicita nell'analisi di Freud si trasforma nella critica della
cultura esistente e nell'indicazione di una società alternativa.
5. La pluralità delle culture
Il distacco dall'antropologia evoluzionistica non si esprime soltanto
nel rifiuto di uno schema storico-evolutivo e nella ricerca di nuove
prospettive di indagine dei fenomeni culturali; esso si manifesta
anche, a livello semantico, nel passaggio da un discorso ‛sulla'
cultura a un discorso ‛sulle' culture. Alla negazione della pretesa di
riportare le varie società a uno schema di sviluppo universalmente
valido fa riscontro infatti il riconoscimento dell'individualità delle
culture, ognuna delle quali richiede di essere studiata nelle sue
caratteristiche peculiari, ossia in ciò che ha di differente dalle
altre. Il concetto di cultura assume così la funzione di un concetto
collettivo, che designa non già un singolo oggetto ma una categoria di
oggetti. Ancora una volta spetta a Boas il merito di aver posto le
premesse di questo mutamento di impostazione. All'affermazione
dell'autonomia della cultura si accompagna, in The mind of primitive
man e nei successivi scritti di Boas, la considerazione delle varie
culture come strutture sorte storicamente, e comprensibili soltanto in
base al loro particolare processo storico. Di conseguenza,
l'antropologia assume a proprio oggetto non già la cultura, bensì le
singole culture e i loro rapporti, lo sviluppo di ogni singola cultura
e il complesso di relazioni che la lega con un determinato ambiente e
con altre culture. Richiamandosi alla distinzione istituita da W.
Windelband tra scienze idiografiche e scienze nomotetiche, e
accogliendo quindi l'equiparazione tra metodo storico e orientamento
verso l'individualità, Boas perviene a definire l'antropologia come
scienza storica. Soltanto un'impostazione storica consente infatti di
considerare le culture nel loro processo di formazione e di sviluppo,
sostituendo a uno schema storico-evolutivo universalmente valido
l'analisi dei modi specifici in cui una cultura si è storicamente
configurata. Muovendo da una diversa impostazione metodologica,
Malinowski perveniva, verso la fine degli anni venti, a definire le
culture come sistemi funzionali da studiare nella loro strutturazione
interna, in maniera da determinare le istituzioni che le costituiscono
e le funzioni assolte da ognuna. Anche per questa via, oggetto della
ricerca antropologica diventa perciò la singola cultura, poiché ciò che
di fatto esiste sono le varie culture nella loro individualità.
Dal riconoscimento della pluralità delle culture ha tratto origine,
dopo il 1930, la preminente attenzione accordata alla loro dimensione
normativa. Soprattutto nell'ambiente americano si è compiuto il
passaggio da una considerazione delle culture in termini di abiti di
gruppo, ossia di comportamenti empiricamente osservabili, a una
considerazione in termini di modelli di comportamento. Fermo restando
il significato ‛totale' del concetto di cultura, questo viene ora a
designare non tanto la totalità dei comportamenti presenti in un certo
gruppo sociale, quanto il complesso dei modelli di comportamento
condivisi dai membri del gruppo e quindi socialmente accettati, ai
quali è attribuita la funzione di regolare la condotta individuale. La
struttura portante della cultura viene così individuata nel suo
particolare sistema di valori, quale può essere ricostruito sulla base
delle regole che presiedono al comportamento concreto degli individui e
delle sanzioni che colpiscono i comportamenti devianti. Studiare una
cultura vuol dire perciò, in ultima analisi, determinare il suo sistema
di valori. Tale svolta è rappresentata soprattutto da opere come
Patterns of culture (1934) di R. Benedict e Configurations of culture
growth (1944) di A. L. Kroeber, nonché da studi di argomento più
circostanziato come quelli di C. Kluckhohn sulla cultura navaho. La
Benedict considera le singole culture come il risultato di un processo
di selezione - tra le innumerevoli possibilità di comportamento - di
certi tipi conformi al suo orientamento fondamentale e agli scopi che
essa si prefigge, e perciò come un complesso organico di elementi in
rapporto di integrazione reciproca. Anche per Kroeber ogni cultura è
una totalità caratterizzata da propri modelli che ne costituiscono lo
‛stile', e che danno la loro impronta a tutte le sue creazioni.
L'insegnamento di Boas si incontra così con il richiamo a Dilthey e
soprattutto a Spengler, mettendo capo a una concezione delle culture in
termini di sistemi di valori. Su questa strada C. Kluckhohn e W. H.
Kelly pervengono, in un saggio del 1945, a definire la cultura come un
sistema di ‛schemi di vita' che devono servire come ‛guide' del
comportamento, incanalando le reazioni umane in base a modelli
sanzionati dal gruppo.
Il riconoscimento della pluralità delle culture ha avuto conseguenze
importanti anche sulla considerazione del rapporto tra cultura e
personalità. Già E. Sapir e la stessa Benedict avevano sottolineato la
correlazione tra l'orientamento complessivo di una cultura e la
struttura della personalità; e del resto l'analisi di Patterns of
culture è diretta a porre in luce anche le caratteristiche psicologiche
che differenziano gli individui appartenenti a culture diverse. Con
l'opera di A. Kardiner e di R. Linton questa correlazione diventa
oggetto di un'analisi sistematica, la quale si richiama al presupposto
che a ogni cultura corrisponde un tipo particolare di personalità,
definita come ‛personalità fondamentale'. In The individual and his
society (1939), e successivamente in The psychological frontiers of
society (1945), Kardiner si è proposto di individuare nel periodo della
prima infanzia il sorgere di alcuni atteggiamenti fondamentali che
determinano la formazione di un tipo di personalità comune a tutti i
membri di una data cultura. Analogamente Linton, in The cultural
background of personality (1945), ha mostrato la capacità della cultura
di modellare una struttura della personalità, rispetto alla quale le
personalità dei singoli individui rappresentano variazioni di tipo
normale oppure, qualora se ne discostino oltre un certo limite, forme
devianti. Questa personalità fondamentale può d'altra parte articolarsi
in una serie di tipi coesistenti all'interno di una cultura e relativi
a modi diversi di formazione. La correlazione tra cultura e personalità
non costituisce più un rapporto univoco per ogni cultura, così come
l'aveva interpretato la Benedict, ma viene a specificarsi in base alle
differenze interne alle singole culture.
Ma il riconoscimento della pluralità delle culture rivela anche
implicazioni importanti di ordine filosofico, che sono venute in luce
soltanto a partire dagli anni trenta. Esse sono, in primo luogo,
implicazioni negative: il rifiuto della pretesa di ricondurre le
diversità culturali a una matrice unitaria, la negazione dell'esistenza
di valori assoluti comuni a tutte le culture, il rifiuto
dell'etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore
privilegiato a una cultura particolare. La traduzione in termini
positivi di questi presupposti ha rappresentato la base del relativismo
culturale, inteso come affermazione dell'eguaglianza assiologica delle
varie culture e, al limite, della loro incomparabilità. Le sue origini
devono essere cercate in due direzioni. Per un verso, esso è una
ripresa dello storicismo diltheyano e soprattutto della concezione
spengleriana della storia, con la trasformazione da essa operata della
teoria dell'autocentralità dei sistemi di cultura e delle epoche
storiche in un'impostazione che proclamava l'eterogeneità insuperabile
delle culture, la differenza radicale e l'incomunicabilità dei loro
sistemi di valori, la chiusura reciproca dei loro mondi simbolici. Per
l'altro verso, esso si richiama alla teoria di ispirazione darwiniana
di W. G. Sumner, l'autore di Folkways (1906), e del suo allievo A.
Keller, i quali avevano considerato lo sviluppo culturale come un
processo di adattamento dei diversi gruppi sociali al loro ambiente
specifico, che conduce ad adottare certe forme di comportamento e a
escluderne altre, dando così luogo a una varietà di costumi tra loro
irriducibili e parimenti legittimi. Questa duplice ascendenza fa sì che
il relativismo culturale costituisca, nell'antropologia contemporanea,
una dottrina alquanto eclettica e indeterminata, abbracciante
formulazioni non di rado contraddittorie. Anche negli scritti del suo
teorico più rappresentativo, M. J. Herskovits, esso si configura
soprattutto in veste polemica, come il rifiuto di riconoscere criteri
di valore applicabili alle diverse culture e di stabilire giudizi di
superiorità e di inferiorità tra le loro manifestazioni. Sul terreno
metodologico, il relativismo culturale si esprime nel principio che
ogni fenomeno culturale dev'essere interpretato in base alla struttura
e all'orientamento della cultura di cui fa parte, e quindi in relazione
al suo particolare sistema di valori.
Nella sua formulazione estrema, il relativismo culturale respinge
l'ammissione non soltanto di ‛assoluti culturali', ma anche di
‛universali culturali', ossia di elementi strutturali comuni alle
diverse culture; analogamente, esso afferma non soltanto il valore
autonomo di ogni cultura, ma anche l'incomparabilità delle culture e
delle loro manifestazioni. Entrambe queste conclusioni trovano, nel
panorama dell'antropologia contemporanea, un riscontro negativo. Fin
dall'articolo Culture (apparso nel 1931 nell'Encyclopaedia of the
social sciences), e poi più ampiamente in A scientific theory of
culture (1944), Malinowski ha elaborato una spiegazione della cultura
che la riconduce ai bisogni primari inerenti alla natura biologica
dell'uomo, cioè a bisogni comuni a tutti gli individui e a tutte le
società. All'universalità di questi bisogni, propri della costituzione
dell'uomo in quanto essere naturale, corrisponde d'altra parte la
variabilità dei modi di soddisfarli, cioè delle ‛risposte' culturali ad
essi fornite dai vari gruppi sociali, che danno origine a loro volta ad
altri bisogni di carattere secondario. La diversità delle culture non
esclude perciò la possibilità di scorgere alla base delle istituzioni
che le compongono una serie di elementi universali, i quali possono
essere formulati in uno schema teorico applicabile a tutte le culture.
In termini assai diversi da Malinowski, e sulla base di un diverso
impianto metodologico, G. P. Murdock ha impostato la ricerca di
regolarità nella vita delle culture sostenendo l'importanza decisiva
del metodo comparativo. Richiamandosi all'opera di W. G. Sumner e di A.
Keller, nonché al programma spenceriano di una ‛sociologia
descrittiva', Murdock si è proposto di determinare - attraverso un
inventario il più completo possibile dei dati disponibili in merito
alle varie culture - l'esistenza di elementi comuni, di fenomeni
ricorrenti, i quali possono essere spiegati in base all'azione
delimitante delle condizioni biologiche e psicologiche dell'esistenza
umana sulle possibilità di scelta delle singole culture. Certamente,
anche per Murdock le culture globalmente prese sono tra loro
incomparabili, proprio perché possiedono una fisionomia individuale
risultante dalla particolare combinazione di quegli elementi; ma ciò
non toglie che possano essere oggetto di comparazione i diversi aspetti
o settori specifici delle culture. In Social structure (1949), Murdock
ha applicato questa impostazione all'analisi della struttura sociale,
cercando di determinare le possibilità fondamentali di organizzazione
che presiedono ai rapporti di parentela, e ha così delineato un
programma di indagine comparativa a largo raggio, il quale si propone
di mettere in luce analogie riscontrabili nella vita delle varie
culture e di spiegarle mediante categorie universali.
6. Differenze e rapporti tra le culture
Attraverso il trapasso a una considerazione delle culture come
strutture individuali e distinte, il concetto di cultura rischia di
diventare scarsamente determinato e quindi piuttosto generico. Esso
risulta infatti applicabile indifferentemente alla cultura di una tribù
fornita di un'organizzazione sociale relativamente semplice (come le
tribù nordamericane che hanno costituito l'oggetto principale di
ricerca della scuola boasiana), oppure alla cultura di una società
caratterizzata da un grado maggiore di complessità e di persistenza, o
anche - nel caso limite - a una cultura abbracciante un'area geografica
e un arco storico molto vasti, e comune a diverse società (come quella
della società europea o di altre analoghe società). Ciò ha posto il
problema della distinzione, all'interno delle culture considerate come
‛genere', di sottospecie fornite di determinate caratteristiche e, in
particolare, il problema della distinzione tra culture primitive e
culture progredite - vale a dire, in altri termini, tra culture
primitive e civiltà. Nell'antropologia ottocentesca il problema era già
risolto in partenza, attraverso la delineazione di uno schema
storico-evolutivo nel quale la civiltà rappresenta la fase conclusiva,
che comprende le società pervenute a uno stadio superiore di sviluppo:
in tal modo Morgan poteva indicare il momento del sorgere della civiltà
dalla barbarie, qualificandolo con criteri quali quelli del passaggio
da un'organizzazione gentilizia a un'organizzazione propriamente
politica, dell'affermarsi della famiglia monogamica e, in
corrispondenza con questa, della proprietà privata. Nell'antropologia
contemporanea, invece, la caratterizzazione di qualsiasi gruppo sociale
in termini di cultura rende la questione assai più difficile da
risolvere; e le soluzioni proposte sono infatti molteplici e disparate,
né si prestano sempre a essere distinte in maniera precisa.
Una prima soluzione - che risale allo stesso Morgan - qualifica le
culture primitive come società illetterate e le civiltà come società
letterate, le quali sono in grado, possedendo la scrittura, di
tramandare documenti in base a cui è possibile ricostruirne la storia:
rifacendosi a una distinzione di questo genere, Radcliffe-Brown ha
delimitato l'ambito della ricerca antropologica allo studio del primo
tipo di società, riservando alla sociologia lo studio del secondo.
Un'altra soluzione, avanzata soprattutto da L. Lévy-Bruhl - e
sostanzialmente di matrice bergsoniana - considera le culture primitive
come prive di sviluppo e le civiltà come società in mutamento,
riservando a quest'ultime la dimensione storica. Pur riconoscendo che
anche le culture primitive sono il risultato di un processo di
trasformazione, per quanto il più delle volte a noi ignoto, Cl.
Lévi-Strauss ha ripreso tale distinzione riformulandola nell'antitesi
tra società ‛fredde', refrattarie a ogni modificazione della loro
struttura e ispirate da una fondamentale tendenza alla conservazione, e
società ‛calde', orientate in senso dinamico. Una terza soluzione - di
origine cassireriana, e proposta per esempio da D. Bidney in
Theoretical anthropology (1953) - caratterizza le civiltà in base alla
presenza di forme simboliche, cioè in base al costituirsi in forma
distinta di attività relativamente autonome dal processo di adattamento
all'ambiente naturale. Una quarta soluzione formulata, come si è visto,
da Childe, e ripresa dal neoevoluzionismo - definisce le civiltà sulla
base del verificarsi di determinate trasformazioni tecnologiche, e in
primo luogo della rivoluzione urbana: il sorgere delle civiltà
presuppone la formazione delle città, con i mutamenti di produzione e
di organizzazione sociale che essa comporta. Vi è ancora un'ultima
soluzione, di carattere non più qualitativo ma piuttosto quantitativo,
che individua la differenza tra culture primitive e civiltà nel minore
o maggior grado di complessità e di articolazione interna, considerando
la civiltà come un conglomerato di culture legate da rapporti di
affinità e formatosi in una certa area geografica, la cui vicenda
storica copre un arco temporale che si prolunga nei secoli.
L'antropologia contemporanea ha privilegiato, di solito, lo studio
delle culture primitive, suscettibili di essere analizzate globalmente,
anche se non sono mancati - a partire da Kroeber - tentativi anche
importanti di applicare i metodi di ricerca antropologica a società più
complesse, qualificabili in un senso o nell'altro come civiltà.
Tuttavia, l'analisi delle civiltà come sottospecie distinta delle
culture è stata condotta prevalentemente al di fuori dell'antropologia,
o da parte della ricerca storica (che ha studiato lo sviluppo delle
singole civiltà e i rapporti storicamente determinati tra certe civiltà
in una data epoca) oppure da parte di teorie generali della storia, il
più delle volte a metà strada tra concezioni filosofiche e
generalizzazioni su base induttiva. Il punto di partenza di queste
teorie, nel panorama intellettuale del Novecento, è da ricercarsi in
Der Untergang des Abendlandes (1918-1922) di O. Spengler e nella sua
interpretazione della storia come storia di culture superiori tra loro
distinte, appartenenti a una medesima specie biologica e quindi
sottoposte alle leggi di sviluppo e di decadenza proprie di tale
specie. Spengler nega l'esistenza di culture primitive, relegandole sul
piano dell'esistenza naturale che antecede la storia, e limita la
propria considerazione alle culture pervenute al livello dell'esistenza
storica, ossia alle civiltà. Ogni organismo del genere si costituisce
sulla base dell'umanità primitiva distaccandosi da essa e acquistando
così una propria autonomia, cioè una forma peculiare che ne
caratterizza tutte le manifestazioni; e il momento di questa
costituzione è dato dall'insediamento stabile di una società in una
determinata regione, che la vincola per sempre a un dato suolo - è, in
altri termini, il sorgere delle città. Esiste quindi una perfetta
corrispondenza tra storia, sviluppo delle culture (o civiltà) e vita
urbana: non vi è storia al di fuori del processo evolutivo di questi
organismi, e l'esistenza storica dell'uomo coincide con l'appartenenza
ad essi. Ma dal momento che ogni organismo storico nasce con un suo
complesso di possibilità biologicamente determinato e che il suo
sviluppo ne è la realizzazione graduale - secondo fasi prestabilite -
ne consegue che esso è destinato a tramontare e a perire quando tale
complesso si sia esaurito: al pari di un qualsiasi organismo vegetale o
animale, pure le culture percorrono un loro ciclo vitale e vengono a
morte allorché esso si sia concluso. Ma la differenza di patrimonio
biologico tra le varie culture fa sì che ognuna si crei un proprio
mondo simbolico, diverso da quello delle altre: da ciò l'eterogeneità
insuperabile che separa le culture e le loro manifestazioni, impedendo
la loro reciproca comprensione.
L'opera di Spengier ha avuto una larghissima risonanza, da un lato
ispirando direttamente o indirettamente la letteratura sulla ‛crisi
della civiltà' nel corso degli anni venti, dall'altro fornendo nuovi
strumenti concettuali alle interpretazioni razzistiche della cultura,
diffuse nella Germania del periodo nazista. Essa ha pure agito, come si
è visto, in campo antropologico: le ambiziose pretese di Kroeber in
Configurations of culture growth e negli scritti successivi riflettono
chiaramente questo rapporto. Anche in sociologia essa ha ispirato opere
come Social and cultural dynamics (1937-1941) di P. A. Sorokin. Ma la
prosecuzione più importante - anche se in chiave apertamente critica -
del programma spengleriano è rappresentata da A study of history
(1934-1954) di A. J. Toynbee, che si propone appunto di delineare una
teoria della storia fondata sullo studio comparativo delle diverse
civiltà e del loro processo di sviluppo. Toynbee considera infatti le
civiltà come società complesse che hanno superato il livello
dell'umanità primitiva e che costituiscono, sotto il profilo
metodologico, campi di studio forniti di un'autonoma intelligibilità,
cercando di rintracciare nella loro vicenda storica un medesimo ciclo
articolato nei quattro momenti della nascita, della crescita, del
crollo e della disgregazione. Lungi dal rivestire un significato
deterministico o fatalistico (come in Spengler), questo schema assume
come principio interpretativo la capacità di risposta dell'uomo a sfide
esterne o interne: una civiltà sorge quando un gruppo umano riesce a
rispondere con successo a una sfida postagli dall'ambiente, ossia da
particolari condizioni geografiche o dal contatto con altri gruppi,
rompendo in tal modo la ‟crosta della tradizione" propria delle culture
primitive; essa continua a svilupparsi finché è in grado di superare le
sfide di fronte alle quali viene a trovarsi; il crollo e la
disgregazione di una civiltà sono invece il risultato di sfide alle
quali non è stata data un'adeguata risposta e, quindi, di una perdita
della capacità di risposta umana. Su questa base Toynbee determina i
momenti chiave del processo evolutivo delle civiltà e i fenomeni che li
caratterizzano, cercando di mostrare la corrispondenza tra le epoche
successive di sviluppo di civiltà spazialmente e temporalmente remote.
Lo studio delle culture, delle loro differenze interne e delle loro
sottospecie trova un complemento necessario nell'analisi dei loro
rapporti. L'antropologia dei primi decenni del secolo ha insistito
soprattutto sull'individualità di ogni cultura, e quindi sulla
necessità di analizzarla nella sua struttura interna: ciò ha dato
luogo, sia nella scuola boasiana sia nell'ambiente inglese (si pensi,
per esempio, a Malinowski), a un programma di descrizione delle singole
culture, che lasciava in ombra i rapporti con le culture circostanti.
Questa situazione è mutata verso la fine degli anni trenta e, assai più
decisamente, nei decenni successivi, durante i quali il contatto tra le
culture e i processi di acculturazione sono diventati un tema centrale
di indagine e di discussione. Ciò ha condotto a considerare le varie
culture non come entità autosufficienti, ma come strutture che entrano
in rapporto e agiscono l'una sull'altra in situazioni quanto mai
disparate: di eguaglianza o di diseguaglianza, di convivenza pacifica o
di ostilità, di indipendenza reciproca o di dominio-subordinazione, di
scambio o di influenza unilaterale. Processi di acculturazione di
questo genere sono presenti nella vita di qualsiasi cultura, primitiva
o progredita - salvo casi eccezionali di completo isolamento - e hanno
dato luogo a esiti molto differenti, come l'assimilazione reciproca tra
due culture, l'incorporazione di una cultura inferiore o più debole in
un'altra superiore o più forte, la pura e semplice estinzione di una
cultura attraverso la sottomissione o lo sterminio del gruppo sociale
che ne è il portatore, o ancora a nuove forme di equilibrio prodotte
dalla trasformazione di entrambe le culture a contatto. Ma questi
processi hanno assunto un rilievo preponderante in seguito
all'espansione coloniale europea e al tentativo della cultura
occidentale di sovrapporsi alle culture tradizionali, di spogliarle
delle loro caratteristiche distintive, di subordinarle a sé. Il
problema dell'acculturazione - così com'è stato definito nel Memo-
randum for the study of acculturation (1936) di R. Redfield, R. Linton
e M. J. Herskovits, o nel volume di Herskovits del 1938, e in seguito
ripreso da una vasta letteratura - si presenta perciò soprattutto come
il problema delle relazioni tra la cultura occidentale e le altre
culture; e lo studio dei processi di acculturazione è diventato
soprattutto lo studio dei processi di espansione, di assimilazione e di
incorporazione da parte della prima, nonché delle reazioni che questo
urto ha suscitato presso le culture extraeuropee. A una considerazione
prevalentemente statica di queste ultime, consueta nell'antropologia
dei primi decenni del secolo, è subentrato in tal modo lo studio della
loro trasformazione e delle risposte culturali che esse hanno elaborato
nei confronti della cultura europea. Le ricerche sull'acculturazione
rappresentano perciò oggi un terreno d'incontro particolarmente fecondo
tra analisi antropologica, teoria sociologica della ‛modernizzazione' e
studio storico del processo di sviluppo e dei mutamenti intervenuti
nelle culture extraeuropee.
7. La cultura come sistema specifico
Fin qui ci siamo soffermati a considerare le discussioni e le
formulazioni teoriche inerenti al significato ‛totale' del concetto di
cultura, cioè a quel significato che è stato per la prima volta
enunciato da Tylor e che è diventato corrente nella scienza
antropologica contemporanea. Accanto ad esso si è però mantenuto un
altro significato che può essere definito ‛parziale', in quanto
definisce appunto la cultura come un settore o un sistema specifico
della vita sociale. Esso restringe l'ambito della cultura alle
manifestazioni della vita intellettuale, distinguendole dalla sfera dei
fenomeni politici ed economici, dalle tecniche produttive, dai rapporti
di classe e, in generale, dai costumi. La cultura appare perciò
considerata come un complesso di manifestazioni ‛superiori', nel
duplice senso che esse si presentano almeno astrattamente separate
dall'apparato materiale dell'esistenza e che costituiscono il prodotto
dell'attività di gruppi sociali specializzati, ai quali la società ha
delegato determinate funzioni come quelle della religione, della
produzione artistica e letteraria, della ricerca scientifica, della
riflessione etica ecc. Come non tutti gli aspetti di una società
rientrano nella sua cultura, così non tutti gli individui (o gli strati
sociali) partecipano ad essa, o per lo meno non intervengono in forma
attiva nella sua elaborazione. A ciò si aggiunge un'ulteriore
delimitazione, connessa al fatto che non tutte le società sono
portatrici della cultura così intesa, in quanto questa può sorgere
soltanto laddove è stato raggiunto un livello produttivo ed è stato
realizzato un grado di divisione del lavoro che consentano la
formazione di gruppi professionalmente impegnati nell'esercizio
dell'attività intellettuale.
Le formulazioni teoriche di tale significato hanno sottolineato, di
volta in volta, l'autonomia della cultura dagli altri aspetti della
vita sociale oppure, al contrario, la sua dipendenza da condizioni
strutturali. La prima alternativa emerge con particolare chiarezza
nell'Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883) di W. Dilthey, il
quale ha distinto, in base alla loro diversa struttura, i sistemi di
cultura e i sistemi di organizzazione esterna della società. I primi
hanno origine dall'associarsi di più individui in vista di scopi comuni
liberamente scelti, la cui realizzazione comporta una produzione di
valori che diventano costitutivi di una certa epoca; ai secondi è
invece essenziale un elemento coercitivo, senza il quale non è
possibile alcuna organizzazione politica o economica. Tra la cultura e
la sfera dei rapporti politici ed economici vi è quindi una diversità
strutturale e anche un rapporto di indipendenza reciproca: pur nelle
loro relazioni, la cultura e l'organizzazione esterna della società si
sviluppano in forma autonoma. Da questo punto di vista risulta perciò
possibile una ‛storia della cultura' distinta dalla storia delle
vicende degli Stati. La seconda alternativa trae origine dalla teoria
marxiana (e più generalmente marxistica) della cultura considerata come
un aspetto della sovrastruttura, che in quanto tale riflette i rapporti
di produzione e di lavoro propri di una determinata struttura
economico-sociale. In questa prospettiva le manifestazioni
intellettuali derivano il loro significato oggettivo dal legame con un
particolare modo di produzione, con il tipo di divisione del lavoro,
con la forma della proprietà, e possono venir spiegate soltanto
riportandole alla loro base strutturale. Non esiste quindi uno sviluppo
autonomo della cultura: ogni movimento culturale è espressione di un
processo sottostante, che ne costituisce il fattore ‛in ultima analisi'
determinante.
Anche il problema dei rapporti tra cultura e civiltà trova una diversa
impostazione sulla base del significato ‛parziale' del concetto di
cultura. Sovente - per quanto in maniera piuttosto indeterminata - la
civiltà viene considerata comprensiva della cultura, cioè viene
concepita come una totalità di cui le manifestazioni intellettuali
costituiscono un aspetto specifico: in questo senso, per esempio, la
civiltà europea abbraccia la cultura europea e, oltre ad essa, una
serie di altri elementi come la struttura politica, economica, sociale
del mondo europeo. Accanto a questa formulazione del rapporto si
possono trovare altri tentativi di definire la cultura e la civiltà
come due sistemi entrambi specifici, nessuno dei quali è comprensivo
dell'altro. La piattaforma teorica di questi tentativi è offerta dalla
concezione spengleriana della storia, nella quale però la cultura e la
civiltà sono considerate come momenti successivi dell'esistenza di un
medesimo organismo. Per Spengler, la Zivilisation rappresenta infatti
la fase del ‛declino' o del ‛tramonto' di una cultura, la fase nella
quale essa si avvia inevitabilmente verso la fine, dopo aver esaurito
le proprie possibilità creative. Cultura e civiltà restano in tal modo
termini onnicomprensivi, ma si distinguono l'una dall'altra come
momenti storicamente distinti e non sovrapponibili. Nella sociologia
tedesca del primo dopoguerra, questa distinzione ha assunto una portata
sincronica nell'opera di A. Weber, il quale è pervenuto a concepire la
cultura e la civiltà come due aspetti compresenti, anzi come due
processi che si svolgono contemporaneamente ma con differenti modalità.
Nel saggio Prinzipielles zur Kultursoziologie (1920-1921) e in vari
libri successivi, Weber ha distinto tre aspetti costitutivi del
processo storico: la struttura sociale, che coincide con la sfera dei
rapporti politici ed economici, la cultura, che abbraccia le
manifestazioni ‛creative' della vita spirituale, e infine la civiltà,
che rappresenta la sfera del progresso tecnico-scientifico. Il
movimento culturale è quello dal quale sorgono i valori peculiari di
ogni società, e si esprime quindi in forme individuali; il processo
della civiltà è invece comune alle diverse società, e riveste carattere
cumulativo. Questa impostazione è stata ripresa - nella sociologia
statunitense tra le due guerre - da autori come R. E. Park e
soprattutto R. M. MacIver, sfociando in una definizione correlativa dei
due termini fondata sulla distinzione tra fini e mezzi: la cultura
diventa così l'incarnazione dei fini di una società, mentre la civiltà
fornisce l'apparato strumentale per realizzarli.
La cultura intesa come sistema sociale specifico può essere definita
non soltanto in riferimento alla civiltà, ma anche ad altri termini: si
pensi, per esempio, alla distinzione di J. Burckhardt tra le ‛potenze'
dello Stato, della religione e della cultura, oppure all'analisi dei
rapporti tra cultura e religione condotta da T. S. Eliot nelle Notes
towards the definition of culture (1948). Inoltre, essa può venir
definita nelle sue componenti strutturali e analizzata nei suoi diversi
campi. A una problematica del genere si rifanno le molteplici
discussioni - largamente diffuse nella letteratura filosofica, ma non
estranee neppure all'ambito degli studi socio-antropologici - sui
rapporti tra religione e scienza, tra scienza e filosofia, ecc., o sul
‛posto' che un particolare elemento occupa nell'insieme della cultura.
In questo orizzonte si collocano pure il dibattito sui rapporti tra
specializzazione scientifica e ‛cultura generale' e la polemica sulle
‛due culture', aperta dal libro di C. P. Snow apparso nel 1950, che in
qualche modo ne costituisce la prosecuzione. L'uno e l'altra sono
ispirati dalla preoccupazione di porre rimedio all'unilateralità della
cultura e di assicurare l'equilibrio tra le sue varie componenti. Nel
primo, l'insistenza sui limiti di una cultura specialistica conduce al
recupero dell'ideale di una formazione completa della personalità,
capace di fornire la base e i criteri direttivi per un uso corretto e
responsabile delle tecniche scientifiche. Nella seconda, l'affermazione
dell'unilateralità della cultura umanistica (da parte degli scienziati)
o di quella scientifica (da parte degli umanisti) rivela un'esigenza di
integrazione che in certi casi mette capo alla proposta di una sintesi
culturale, capace di contemperare i valori tradizionali con la
mentalità progressiva della scienza moderna. Entrambe queste
discussioni assumono quindi una portata ideologica e si sviluppano su
un piano chiaramente valutativo, cosicché il loro contributo
all'analisi dei fenomeni culturali e alla formulazione del concetto di
cultura appare di scarso rilievo.
8. I rapporti tra cultura e società
Il riferimento alla società è sempre implicito in qualsiasi
formulazione del concetto di cultura, tanto nel suo significato
‛totale' quando in quello ‛parziale'. Sia che si concepisca la cultura
come il complesso dei modi di vita di un certo gruppo sociale, o come
il complesso dei modelli di comportamento e dei valori condivisi dai
suoi membri, o ancora come il processo di sviluppo dell'umanità da una
condizione primitiva allo stato di civiltà, sia che la si intenda
invece come un aspetto o sistema specifico della vita sociale, il
concetto di cultura risulta in ogni caso definito in virtù di tale
riferimento. Nella scienza antropologica contemporanea la cultura tende
a essere identificata, come si è visto, con l'eredità sociale propria
di una determinata comunità, e i termini ‛cultura' e ‛società' sono non
di rado impiegati in modo interscambiabile. Per Boas e per la scuola
boasiana esiste una corrispondenza tra ogni cultura e la società che ne
è portatrice: del resto, il principio dell'irriducibilità della cultura
a condizioni extraculturali non è altro che la traduzione in linguaggio
antropologico del principio durkheimiano secondo cui un fatto sociale
può essere spiegato soltanto riportandolo ad altri fatti sociali. Anche
per Malinowski cultura e società coincidono sostanzialmente, tant'è
vero che la struttura della cultura risulta definita mediante un
concetto tipicamente sociologico qual è quello di istituzione: ogni
cultura è un complesso di istituzioni, cioè di sistemi organizzati di
attività rivolti al soddisfacimento di determinati bisogni. Questa
indiscriminazione tra cultura e società ha fatto sì che l'analisi della
base sociale della cultura si sia mantenuta a lungo su un piano
generico, senza condurre a una precisa determinazione dei rapporti tra
forme di cultura e organizzazione interna della società.
Soltanto in epoca più recente, con l'allargamento del campo di indagine
della scienza antropologica a società complesse, con l'applicazione dei
suoi metodi allo studio di società in trasformazione o addirittura di
società progredite, è venuto in primo piano il problema
dell'individuazione delle diverse forme di cultura esistenti
all'interno di una società e della loro connessione con determinati
gruppi sociali. Ciò ha dato luogo a vari tentativi di determinare in
forma esplicita il rapporto tra cultura e società - nel senso di
affermarne l'identità o per lo meno la coestensività, oppure nel senso
opposto di delimitare l'ambito della cultura considerandola un aspetto
specifico del processo sociale - che si sono intrecciati con lo sforzo
di definire l'oggetto rispettivo dell'antropologia e della sociologia.
Una prima soluzione del problema è quella di considerare la cultura e
la società come coestensive, distinguendole tuttavia in quanto sistemi
particolari e reciprocamente irriducibili all'interno del sistema
generale dell'azione: è la soluzione formulata da T. Parsons, in
collaborazione con antropologi come Kluckhohn, in Toward a general
theory of action (1951), e poi ripresa in The social system (1951).
L'azione sociale può essere analizzata in riferimento a tre sistemi
distinti, sui quali si fondano le tre scienze sociali di base, vale a
dire l'antropologia, la psicologia sociale e la sociologia: la cultura,
la personalità e il sistema sociale. In questa prospettiva la cultura
appare costituita da sistemi simbolici i quali agiscono come
orientamenti di valore che rendono possibile la socializzazione della
personalità e il perpetuarsi del gruppo; essa funziona da mediatrice
tra l'individuo e la società. Tra cultura e società si ha in tal modo
una distinzione puramente analitica, che non esclude ma comporta la
loro inscindibilità di fatto. Sul versante opposto si colloca la
soluzione proposta da Radcliffe-Brown, che riflette l'impostazione
metodologica dell'antropologia sociale sviluppatasi in Inghilterra: la
cultura è un aspetto del processo complessivo della vita sociale, e
consiste precisamente nella trasmissione da una generazione all'altra
del patrimonio di idee e di valori del gruppo sociale. Così delimitata,
la cultura non può costituire l'oggetto della ricerca antropologica,
che viene invece individuato nella struttura sociale in quanto
complesso di istituzioni tra loro connesse funzionalmente. Ciò conduce
a distinguere la scienza antropologica dalla sociologia prescindendo
dal riferimento al concetto di cultura e quindi in base al diverso tipo
di società su cui verte la loro indagine: l'antropologia sociale si
occupa delle società primitive, mentre lo studio delle società
progredite è riservato alla sociologia.
È chiaro che il problema del rapporto con la società acquista
un'importanza ben più rilevante quando ci si colloca dal punto di vista
del significato ‛parziale' del concetto di cultura. In questo quadro il
contributo del marxismo appare particolarmente significativo, ancorché
esso si sia manifestato più a livello di analisi concreta anziché in
sede propriamente teorica (v. marxismo). A tutt'oggi manca, infatti,
una teoria marxistica della cultura che tenga conto del processo di
elaborazione concettuale degli studi socioantropologici nel corso di
questo secolo; del resto, il carattere sovrastrutturale attribuito alla
cultura ha impedito che essa diventasse un tema centrale nell'opera di
Marx e nel marxismo ottocentesco. Nel periodo tra le due guerre, e
ancor più a partire dagli anni cinquanta, l'interesse per i ceti
intellettuali e per la loro funzione storica ha proposto al pensiero
marxista la considerazione della cultura e dei rapporti tra forme di
cultura e classi sociali. Il problema dei rapporti tra cultura e
società è così venuto a configurarsi nella veste specifica di
un'analisi della stratificazione sociale dei fenomeni culturali e
quindi della loro origine di classe. A tale scopo riveste particolare
importanza la distinzione, formulata da A. Gramsci nei Quaderni del
carcere (pubblicati nel 1945-1951, ma la cui redazione risale al
periodo tra il 1929 e il 1935), tra ceti egemonici e ceti subalterni,
considerati portatori di tradizioni culturali differenti. Il rapporto
di dominio-subordinazione esistente tra le diverse classi sociali - con
la polarizzazione dicotomica che la struttura di classe comporta,
secondo lo schema marxiano - viene qui assunto come base per la
spiegazione delle diversità culturali che si riscontrano all'interno di
una società. Da una parte i ceti egemonici appaiono portatori di una
cultura ‛superiore', fondata sul possesso (e talvolta sul monopolio) di
determinati strumenti di elaborazione culturale come, per esempio, la
capacità di leggere e di scrivere; dall'altra i ceti subalterni
appaiono, nella misura in cui sono riusciti a resistere al tentativo di
integrazione da parte della cultura superiore, i portatori di un'altra
cultura, cioè di una cultura ‛inferiore' che si oppone - con maggiore o
minore successo - alla penetrazione dei modelli prodotti dai ceti
egemonici.
Un'impostazione di questo genere riconosce quindi la capacità di
produzione culturale dei diversi gruppi sociali, considerando la
circolazione della cultura non già come un processo di diffusione a
senso unico - cioè dai ceti egemonici a quelli subalterni - bensì come
un insieme di rapporti di scambio che si instaurano su una base
tendenzialmente conflittuale. Ben poco essa ha perciò in comune con una
considerazione della cultura che muova dalla dicotomia tra cultura di
élite e cultura di massa, la quale riserva invece la capacità di
produzione culturale a un determinato gruppo sociale, attribuendo agli
altri una funzione puramente recettiva. Sorta da una tradizione di
critica in chiave aristocratico-conservatrice del mondo contemporaneo -
che da Burckhardt si prolunga, attraverso l'opera di Spengler, fino
alla letteratura sulla ‛crisi della civiltà' degli anni venti - questa
dicotomia trova il proprio fondamento nell'immagine di una società resa
uniforme, e quindi spersonalizzata, dalla duplice spinta della
democratizzazione e dell'industrializzazione, nonché
nell'interpretazione della diffusione della cultura come sottoprodotto
di tale processo. Essa presuppone una concezione della cultura come
fenomeno di élite, come creazione di forme culturali la cui fruizione è
riservata agli individui (o ai ceti) che hanno ricevuto una particolare
educazione, e che sono destinate a degradarsi inevitabilmente quando ne
venga allargata l'area di destinazione. D'altra parte essa comporta una
considerazione della massa come soggetto passivo dei processi
culturali, che può essere, al massimo, destinatario di un tipo di
produzione sostanzialmente eterogeneo rispetto all'attività culturale
vera e propria.
Queste due impostazioni si ritrovano, sovente mescolate, in gran parte
delle analisi della cultura contemporanea, nonché nel dibattito
sull'organizzazione della cultura, sull'industria culturale e su
analoghi temi. Il filo conduttore di queste analisi è rappresentato
dalla correlazione tra la fisionomia culturale della società
contemporanea e la sua struttura industriale; ma le prospettive
interpretative alle quali esse si ispirano risultano assai differenti.
Da una parte il problema della stratificazione sociale della cultura si
è concretato nello studio sociologico dei fenomeni culturali, con
particolare riguardo alle manifestazioni intellettuali dei ceti
subalterni (basterà menzionare, per il nostro paese, le ricerche di E.
De Martino e di A. M. Cirese); dall'altra, la dicotomia tra cultura di
élite e cultura di massa ha posto in primo piano il rapporto tra
produzione e consumo della cultura, considerato come caratterizzante
l'industria culturale.
Elaborato da M. Horkheimer e Th. W. Adorno nella Dialektik der
Aufklärung (19472), largamente impiegato dallo stesso Adorno e da
Marcuse, il concetto di industria culturale si collega alla critica
della dialettica dell'illuminismo come capovolgimento del progresso in
regresso, e quindi a una valutazione negativa della ragione
tecnico-scientifica: esso designa una situazione in cui l'individuo,
reso impotente dalle forze economiche che dominano la società
contemporanea, è ridotto a essere generico, mentre la cultura diventa
merce, ossia oggetto di consumo. L'impersonalità dell'individuo e
l'oggettività del prodotto culturale sono così le due facce di un'unica
medaglia, i due aspetti del prevalere incontrastato di una cultura di
massa integrata nel meccanismo della società. La critica della cultura
sviluppata su questa base si risolve perciò nel vagheggiamento
retrospettivo di una cultura non di massa ma di élite, patrimonio
esclusivo di un ceto di intellettuali la cui attività era - o sembrava
essere - indipendente da esigenze economico-produttive. È significativo
che, nel saggio Remarks on a redefinition of culture (1965), Marcuse
non soltanto riprenda la distinzione tra cultura e civiltà in termini
di antitesi tra dominio dei valori e sfera del progresso
tecnico-scientifico, ma la faccia coincidere con la distinzione tra
cultura di élite e cultura di massa: mentre la scienza è
democraticamente partecipabile da tutti i membri di una società a causa
del suo carattere strumentale e impersonale, la cultura presuppone un
movimento di ritiro che è riservato a un'élite intellettuale (e
sociale).
Al di là delle differenze di impostazione tra un'analisi di derivazione
marxiana e un'analisi che si richiami ai presupposti della Scuola di
Francoforte, è opportuno indicare alcuni problemi che rivestono una
rilevanza centrale per lo studio sociologico della cultura
contemporanea. Si tratta, in primo luogo, di individuare i rapporti tra
manifestazioni intellettuali e gruppi sociali; di determinare le
istituzioni in cui si articola l'organizzazione della cultura; di
stabilire per ogni forma di attività culturale il suo processo di
elaborazione e di diffusione, nonché le trasformazioni che subisce in
seguito al contatto con gruppi sociali diversi da quello che l'ha
prodotta; di precisare la funzione politico-sociale che assume e gli
eventuali mutamenti di questa funzione. Una sociologia della cultura
così intesa è ancora agli inizi; ma soltanto in una prospettiva del
genere potranno emergere nella loro forma concreta, e non attraverso
generalizzazioni di dubbia validità, le strutture della produzione e
della circolazione culturale nella società contemporanea. (Si veda
anche antropologia).
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it