cultura
L’insieme delle cognizioni
intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura,
l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo
soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità,
contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le
facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio.
Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle
attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e
religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un
dato momento storico.
1. La nozione di cultura
La nozione di c. si ritrova già nel pensiero antico, dove essa indica
l’educazione dell’uomo a una vita propriamente umana, rappresentata di
solito dalla vita in società e, al livello più elevato, dall’esercizio
delle attività intellettuali. Il significato della paideia/">paideia
greca è certo storicamente mutato, nel corso dei secoli, in connessione
con i mutamenti intervenuti nella concezione della società e dei
valori, ma fin dal 5° sec. a.C., in seguito al consolidarsi della
democrazia e al diffondersi della sofistica, essa viene a designare il
processo di formazione dell’individuo che, attraverso l’educazione,
giunge al possesso delle tecniche necessarie per la convivenza sociale
e per la partecipazione alla vita politica. Nell’insegnamento socratico
e nei dialoghi di Platone la nozione di paideia assume un’impronta
marcatamente etica, e la partecipazione alla vita politica viene a
collegarsi con la ricerca filosofica. In Aristotele e, ancor più
nettamente, nel pensiero ellenistico, questa dimensione etico-politica
della paideia passa in secondo piano in seguito al primato attribuito
alla vita contemplativa rispetto alla vita attiva, e quindi al
prevalere della figura del sapiente che osserva distaccato le vicende
del mondo su quella del filosofo impegnato nella costruzione della
città. Si afferma così un ideale di formazione dell’uomo eminentemente
aristocratico, che esclude dall’ambito della cultura il lavoro manuale,
riservato agli strati inferiori e agli schiavi, considerati come
‘strumenti animati’.
Questo ideale viene accolto anche nel mondo romano. In Cicerone la
cultura animi viene identificata con la filosofia, e la sua funzione
diventa quella di condurre gli uomini da una vita ‘selvaggia’ (o
contadina) a una vita civile, ossia a un’esistenza propriamente umana
che è vita associata, partecipazione alla comunità. La nozione di c.
tende così a esprimersi attraverso termini come humanitas, e in tale
veste verrà accolta nel Medioevo, dove assume però un significato
nettamente religioso trovando una struttura istituzionale
nell’organizzazione del sapere.
L’Umanesimo segna un recupero del significato mondano che la nozione di
c., come formazione dell’uomo, possedeva nell’antichità. Non più la
contemplazione di Dio e la salvezza eterna, ma la vita nel mondo,
all’interno della comunità e dei suoi ordinamenti, costituisce lo scopo
cui deve tendere l’educazione: questo è il senso dell’humanitas, il
termine nel quale si esprime il nuovo ideale della cultura. Nutrita
dalle humanae litterae, vale a dire dalla lettura diretta degli autori
antichi e del ritorno alla classicità che questa rende possibile,
l’humanitas designa un modello di formazione dell’uomo in funzione
dell’uomo, orientato verso la vita civile, cioè un modello che poggia
sulla considerazione di tutte le cose come «create per la salute degli
uomini» (come dice F. Petrarca nel De sui ipsius et multorum
ignorantia) e sull’affermazione della centralità dell’uomo nel mondo,
definita in base al rapporto tra microcosmo e macrocosmo.
Una linea di continuità abbastanza agevole da cogliere collega
(attraverso la diffusione europea dell’Umanesimo e il libertinismo
seicentesco) questa nozione di c. al programma illuministico: un
programma che presuppone, almeno in linea di principio, la
comunicabilità del sapere a tutti gli uomini, in quanto partecipi di
una medesima natura razionale. Con l’Illuminismo la concezione della c.
si spoglia del carattere aristocratico mantenuto ancora in età moderna;
nel suo ambito vengono a confluire per la prima volta non soltanto la
moderna scienza della natura, ma anche – e l’Encyclopédie ne
costituisce la prova inequivocabile – le ‘arti meccaniche’ portatrici
del progresso tecnico. La c. tende così a coincidere con il complesso
delle cognizioni acquisite dall’umanità, che devono essere trasmesse da
una generazione all’altra e accresciute attraverso l’impiego dei poteri
razionali dell’uomo.
2. Lo sviluppo antropologico
Nella seconda metà del 18° sec. si compie una svolta decisiva nella
storia della nozione di c., una svolta rappresentata soprattutto dal
trapasso da un significato ‘soggettivo’ a un significato ‘oggettivo’
della cultura. Essa appare tuttora considerata, non di rado, come un
processo di formazione; ma tale processo risulta determinato in base al
riferimento a un patrimonio intellettuale che è proprio non più del
singolo individuo, ma di un popolo o anche dell’umanità intera. In
questa prospettiva le fasi successive di sviluppo della c. vengono a
coincidere con le tappe del cammino dell’umanità. Così J.G. von Herder,
nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91),
concepisce la c. come un processo che coinvolge l’intero genere umano,
il quale viene a distaccarsi dalla propria origine naturale e si educa
progressivamente, seguendo un piano provvidenziale che si attua
attraverso il passaggio da un popolo all’altro.
Da Herder, per il tramite della scienza etnologica tedesca della prima
metà dell’Ottocento, il nuovo concetto di c. perviene all’antropologia
evoluzionistica, trovando una definizione esplicita in Primitive
culture (1871) di E.B. Tylor. E qui avviene un altro mutamento
semantico, non meno importante del precedente e, in certo qual modo,
complementare a esso. La c. non designa più, come avveniva ancora nella
concezione illuministica, soltanto le attività specificamente
intellettuali, ma comprende anche le abitudini e tutte le capacità
acquisite e trasmesse socialmente; di conseguenza, vi è c. ovunque
esista o sia esistita una società umana con propri modi di vita. Questa
estensione del concetto di c. da un lato a tutte le manifestazioni
dell’esistenza sociale, dall’altro a qualsiasi gruppo umano, ha
costituito il fondamento teorico dei vari tentativi di ricostruzione
delle tappe di sviluppo dell’umanità, compiuti dai principali esponenti
dell’antropologia evoluzionistica, i quali fanno tutti appello al
presupposto dell’uniformità del processo evolutivo dei diversi popoli.
Anche quando gli studi antropologici respingeranno tale presupposto,
criticando quei tentativi come ‘storia congetturale’, essi si
richiameranno pur sempre al significato tyloriano di c., precisandolo e
sviluppandone le implicazioni.
Soprattutto la scuola statunitense di F. Boas ha fatto di esso, nei
primi decenni del 20° sec., il concetto-chiave della scienza
antropologica, definendolo come un complesso di ‘abiti’ e di ‘prodotti’
materiali che non si trasmette per via genetica, ma che è invece
oggetto di apprendimento. Così caratterizzato, il concetto di c. si è
trasformato in una nozione collettiva, la quale designa una pluralità
di c. individuali che richiedono di essere studiate nella loro
peculiare espressione storica (come sostiene Boas), oppure nella loro
struttura interna e nelle correlazioni funzionali tra i loro elementi
(come asserisce B. Malinowski). Ciò che di fatto esiste, e a cui si
riferisce la ricerca antropologica, non è più la c. umana in generale,
ma sono le varie c., l’una differente dall’altra. La struttura portante
delle c. viene così individuata da A.L. Kroeber e da altri autori (come
R. Benedict e C. Kluckhohn) in un sistema di valori specifico, che può
essere ricostruito sulla base delle regole che presiedono al
comportamento concreto dei membri di una società e delle sanzioni che
colpiscono i comportamenti devianti. La c. diventa anche un fattore
plasmante della personalità degli individui che ne fanno parte: a ogni
c. corrisponderebbe un tipo particolare di personalità, definito come
personalità fondamentale, rispetto a cui le personalità dei singoli
individui rappresentano semplici variazioni. In questa maniera il
riconoscimento della pluralità delle c. si connette al relativismo
culturale, ossia a una concezione filosofica fondata sul postulato
dell’eguaglianza assiologica delle varie c., che si richiama da un lato
allo storicismo di W. Dilthey e a O. Spengler, dall’altro al
relativismo di ispirazione darwiniana di W.G. Sumner, l’autore di
Folkways (1906).
3. Prospettive psicanalitica e sociologica
A partire dagli ultimi decenni del 19° sec. il concetto di c. si è così
venuto trasformando da nozione storico-filosofica (o pedagogica) in un
concetto scientifico, utilizzato all’interno di un preciso contesto
disciplinare. In tale forma esso compare non soltanto
nell’antropologia, ma anche nella psicanalisi e – seppure in maniera
meno esplicita – nella sociologia contemporanea. In Totem und Tabu
(1912-13), per es., S. Freud ha affrontato il problema dell’origine
della c. umana, sulla base del postulato del parallelismo tra
ontogenesi e filogenesi, tra sviluppo psichico individuale e sviluppo
culturale della specie.
Anche nella sociologia il concetto di c. è stato oggetto di uno sforzo
di definizione, orientato a differenziare tra loro c. e civiltà come
due processi paralleli, l’uno comprendente le manifestazioni creative e
quindi i valori di ogni società e l’altro coincidente con il progresso
tecnico-scientifico (A. Weber), oppure orientato a distinguere la c.
dalla società come un sistema a essa coestensivo, ma pur sempre
specifico, in quanto costituito da sistemi simbolici che rendono
possibile la socializzazione della personalità e che mediano
l’inserimento dell’individuo nel gruppo (T. Parsons). I sociologi
ritengono la c. come un insieme concatenato di modi di pensare, sentire
e agire (É. Durkheim) più o meno formalizzati che, essendo appresi e
condivisi da una pluralità di persone, servono, in modo a un tempo
oggettivo e simbolico, a costituire queste persone in una collettività
particolare e distinta. Naturalmente possono variare gli ambiti
territoriali e i confini sociali delle collettività di riferimento:
così che in un unico contesto globale (per es., le c. nazionali)
possono esistere una molteplicità di c. ‘specifiche’ (per es., le c.
regionali, la c. dei giovani ecc.). In questo caso si usa il termine di
subcultura (o sottocultura).
4. C. animali
Alcuni presupposti dell’antropologia della prima metà del Novecento
appaiono oggi rimessi in questione anche all’interno della stessa
disciplina. Ciò vale già per la tesi dell’autonomia della c. da
qualsiasi condizione extraculturale, e per la conseguente dicotomia tra
mondo animale, caratterizzato da una trasmissione per via genetica, e
mondo umano, caratterizzato dalla trasmissione culturale fondata
sull’apprendimento. Gli studi sul comportamento animale hanno infatti
spostato la linea di demarcazione tra natura e c., ponendo
inequivocabilmente in rilievo che anche altre specie animali, oltre
all’homo sapiens, sono capaci di apprendimento, e quindi possono
produrre e trasmettere cultura. Come l’antropologia evoluzionistica
aveva esteso il concetto di c. ai popoli cosiddetti primitivi, così
l’etologia ha imposto un ulteriore allargamento del suo ambito; di modo
che oggi appare del tutto lecito parlare di ‘culture animali’.
5. Universali culturali
Anche la tesi dell’assoluta individualità delle c., su cui poggiava la
versione più rigida del relativismo culturale, risulta oggi in crisi.
Infatti, se è vero che ogni c. possiede una propria fisionomia che può
essere caratterizzata storicamente, ciò non toglie che sia possibile
condurre un’analisi comparativa delle varie c., rintracciare in esse
degli ‘universali culturali’ o delle regolarità statistiche, derivanti
dall’azione di condizioni biologiche e psicologiche, e perfino
determinare le principali fasi di sviluppo, in qualche
misura/">misura comuni a tutte.
Soprattutto il neoevoluzionismo ha cercato di individuare i grandi
mutamenti tecnologici attraverso i quali si è compiuto il passaggio da
una condizione precedente a una successiva di complessità culturale,
ponendo in rilievo l’importanza decisiva di due ‘rivoluzioni’: la
rivoluzione agricola, in virtù della quale la coltivazione e
l’allevamento del bestiame hanno preso il posto delle tecniche di
caccia, pesca e raccolta, e la rivoluzione urbana, che ha segnato il
trapasso dalla vita di villaggio alla vita di città. D’altra parte lo
sviluppo della ricerca antropologica ha messo in luce l’impossibilità
di studiare una qualsiasi c. isolatamente, prescindendo dai suoi
rapporti con altre culture. A partire dal secondo dopoguerra, il
contatto tra le c. e i processi di acculturazione sono diventati un
tema centrale d’indagine; ciò ha condotto a considerare le varie c.
come strutture complesse che agiscono l’una sull’altra in situazioni
disparate di eguaglianza o di diseguaglianza, di convivenza pacifica o
di ostilità, d’indipendenza reciproca o di dominio-subordinazione, di
scambio o d’influenza unilaterale.
Negli ultimi decenni del 20° sec., l’antropologia culturale ha
ulteriormente ridefinito il concetto di c.; al riguardo, è stato
importante il contributo di C.J. Geertz (The interpretation of
cultures, 1973) che ha spostato l’attenzione dalle fisionomie e
strutture delle c. alle modalità interpretative locali recuperando la
definizione di c. come ‘ragnatela di significati’ in cui ogni individuo
è sospeso e dalla quale dipende la sua visione del mondo. Scopo
dell’antropologo è quello di fare emergere i significati e le
interpretazioni locali impegnandosi in una interpretazione di
interpretazioni dove la cultura è vista come un ‘testo agito’. Un
ulteriore sviluppo del concetto di c. ha permesso di riflettere non
tanto sul ruolo della c. nella crescita individuale, quanto sul ruolo
dell’individuo (la sua capacità di agency) nei processi di
trasformazione e mutamento delle c. umane. In tal senso, l’indagine si
concentra sul singolo individuo che diventa agente attivo nel definire
e ridefinire la c. di appartenenza. Al di là di una visione dicotomica
fra prodotti intellettuali e prodotti materiali della c., molti
antropologi contemporanei (sulla scia di ciò che lo studioso francese
P. Bourdieu ha inteso per habitus) collocano il corpo al centro dei
loro interessi, indagando le pratiche, le azioni, le modalità
attraverso le quali la c. si incorpora.
In ultimo, recenti ripensamenti del concetto di c. nell’antropologia
culturale sono dovuti alla consapevolezza di quanto i processi di
globalizzazione abbiano coinvolto gran parte delle c. umane, sempre
meno pensabili come mondi chiusi e autonomi. L’individuo parrebbe
immerso non tanto in un bozzolo protettivo definibile come c., ma –
recuperando i concetti introdotti da U. Hannerz in Cultural complexity
(1992) – in ‘flussi culturali’ locali e globali che strutturano
‘habitat di significati’. L’antropologia contemporanea rifiuta quindi
una definizione di c. caratterizzata da rigidità e chiusura. Le c. si
formano non solo e non tanto da attributi interni esclusivi, ma
dall’incontro e dallo scambio in scenari regionali e globali sempre più
interconnessi. Le c., costruzioni meticce e frutto di continue
connessioni e disconnessioni (secondo la terminologia di J.L. Amselle,
Logiques métisses, 1990; Branchements, 2001), sono non di rado
recuperate nella loro immagine reificata e statica nell’ambito di
politiche e retoriche locali, di rivendicazioni etniche e indigeniste
definendo in tal modo un altro importante ambito di indagine delle
scienze sociali.
6. Filosofia della storia
All’elaborazione del concetto di c. in contesti disciplinari specifici
ha fatto riscontro il suo impiego in sede storiografica o per la
costruzione di filosofie della storia. Tra queste occorre ricordare,
per la vasta diffusione avuta nel primo dopoguerra, la concezione di O.
Spengler, che in Der Untergang des Abendlandes (1918-22) ha
interpretato la storia come storia di c. superiori appartenenti a una
medesima specie biologica, e quindi sottoposte alle leggi di sviluppo e
di decadenza proprie di tale specie. Al pari di un qualsiasi organismo
vegetale o animale, infatti, anche le c. percorrono un loro ciclo
vitale predeterminato, e vengono a morte allorché esso si sia concluso,
cioè quando il loro complesso di possibilità si sia esaurito. Ma la
differenza di patrimonio biologico che le caratterizza fa sì che ogni
c. dia vita a un proprio mondo simbolico, del tutto eterogeneo rispetto
a quello delle altre culture. La profezia dell’imminente tramonto
dell’Occidente si congiunge in tal modo con una concezione
relativistica della storia in seguito rielaborata da A.J. Toynbee in A
study of his;tory (1934-54).
Nella filosofia del Novecento il concetto di c. è però presente anche
in altri indirizzi, i quali se ne sono avvalsi per sottolineare il
carattere simbolico specifico dell’attività umana e per proporre una
definizione dell’uomo come «animale simbolico» (come ha fatto E.
Cassirer nella Philosophie der symbolischen Formen, 1923-29), oppure
per designare un mondo formale trascendente rispetto alla vita (come ha
fatto G. Simmel), o più sovente per analizzare la crisi della civiltà e
il processo di massificazione della società contemporanea (come hanno
fatto J. Ortega y Gasset, J. Huizinga, T.W. Adorno, H. Marcuse e
numerosi altri). Ma nessuno di questi indirizzi ha dato luogo a nuove
formulazioni significative del concetto di c., il cui uso appare
piuttosto subordinato a interessi speculativi di altro genere.
7. Storia della cultura
La storia della c. o (com’è anche chiamata, con dizione forse più
precisa) storia della civiltà è sorta verso la metà del 18° sec., in
base a un’esigenza di ampliamento dell’oggetto della storia
tradizionale, limitata sostanzialmente agli eventi politico-militari.
Nel Siècle de Louis XIV (1751), Voltaire si propose esplicitamente di
allargare l’orizzonte della ricerca storica al di là delle guerre,
delle conquiste, delle vittorie e delle sconfitte, delle vicende
dinastiche – che costituiscono un tessuto relativamente uniforme,
comune a tutte le epoche – per considerare anche i mutamenti del
costume, i fenomeni artistici e letterari, le dottrine filosofiche, le
credenze religiose, lo sviluppo delle scienze e le loro applicazioni
tecnologiche, i progressi delle industrie e del commercio, che
consentono invece di individuare un periodo storico nella sua specifica
fisionomia. A quest’impostazione si ispirano altre grandi opere della
storiografia settecentesca, cioè quelle di D. Hume, di W. Robertson, di
E. Gibbon.
Nell’Ottocento si viene invece costituendo una storia della c. distinta
e contrapposta alla storia dello Stato: la prima ha per oggetto le
manifestazioni intellettuali di un popolo, mentre la seconda narra le
vicende politiche (o politico-economiche) che hanno il loro centro
nell’azione dello Stato. La distinzione tra i due tipi di storia è però
entrata in crisi da tempo, in seguito al riconoscimento – comune non
solo alla storiografia marxista, ma a tutte le principali scuole
storiografiche contemporanee – dei nessi che intercorrono tra struttura
economica, sistema politico e c. (nel senso di complesso delle
manifestazioni intellettuali) di un’epoca.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it