discriminazione
Distinzione, diversificazione o differenziazione, operata fra persone, cose, casi o situazioni.
DIRITTO
1. Principio di non discriminazione
Principio che vieta, in via generale, l’applicazione di un trattamento
diverso in situazioni che si presentano sostanzialmente uguali. Nato in
ambito internazionale, per contrastare la proliferazione di misure
protezionistiche degli Stati, ha trovato massima espressione in ambito
comunitario, dove è stato posto in relazione diretta con il principio
di libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali, che è
l’obiettivo della politica comunitaria. Esso rappresenta una garanzia
per il soggetto di diritto nei confronti di norme che determinino, come
effetto immediato o mediato, differenze nella disciplina normativa
prive di obiettiva giustificazione.
2. D. fiscale
Gli art. 90 e seg. del Trattato CE prevedono esplicitamente il
principio di non d. fiscale. Con riferimento alle imposte indirette, il
legislatore comunitario ha vietato agli Stati membri di mantenere o
introdurre imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche nei
confronti dei prodotti provenienti dagli altri Stati dell’Unione
Europea. Il divieto in questione riguarda sia i casi di d. diretta sia
quelli di d. indiretta; quest’ultima può essere valutata procedendo a
un giudizio di comparazione sull’incidenza effettiva del tributo,
rispettivamente sul prodotto comunitario che si ritiene discriminato e
su un prodotto nazionale, analogo e comparabile al primo. Per quanto
riguarda le imposte dirette, invece, il principio è ricavato per via
interpretativa, al fine di garantire ai contribuenti che si trovino
nella medesima situazione un eguale trattamento fiscale. Secondo il
Trattato, infatti, l’esercizio delle quattro libertà fondamentali non
può essere assoggettato a trattamenti restrittivi e discriminatori che
non siano giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica
sicurezza e di protezione della salute.
La giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunità Europea ha,
tuttavia, elaborato la cosiddetta rule of reason, per tener conto anche
di altri interessi nazionali imperativi; in particolare, la Corte ha
ritenuto che l’effettività dei controlli tributari, il rispetto del
principio di territorialità dei sistemi impositivi e la coerenza del
sistema fiscale di uno Stato siano idonei, in determinate condizioni, a
giustificare la restrizione di una libertà, purché la
misura/">misura sia proporzionale all’obiettivo conseguito e non
esista una diversa possibilità di raggiungere il medesimo risultato.
3. D. razziale
Ai sensi dell’art. 43 del d. legisl. 286/1998 (art. 41 l. 40/1998), è
considerato discriminatorio ogni comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti distinzione, esclusione, restrizione o
preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza, l’origine o la
convinzione religiosa. In particolare, il comportamento, oltre a essere
oggettivamente discriminatorio, deve avere lo scopo o l’effetto di
distruggere, o quantomeno di compromettere il riconoscimento, il
godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali
in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro
settore della vita pubblica. La definizione è comprensiva sia dei casi
di d. diretta, sia di quelli di d. indiretta. Inoltre, non è richiesto
lo scopo di perseguire il risultato discriminatorio, essendo
sufficiente, per considerare illegittimo il comportamento, il fatto che
questo abbia l’effetto di produrre la discriminazione.
Oltre alla tutela civile prevista e disciplinata dalla legge sopra
indicata, la legislazione italiana contiene altre norme, di stampo
penale, destinate a sanzionare il rischio di d. razziali, etniche o
religiose. La l. 654/1975, per es., all’art. 3 punisce con la
reclusione da 15 giorni a 3 anni chiunque diffonda idee fondate sulla
superiorità o sull’odio, e con la reclusione da 6 mesi a 4 anni
chiunque inciti a commettere, o commetta lui stesso, violenza o metta
in atto provocazioni, motivate da idee di superiorità razziale, etnica,
o religiosa. A scopo preventivo viene altresì punita la semplice
partecipazione o assistenza prestata a una qualunque associazione che
abbia tra i suoi scopi l’incitamento alla d. ovvero alla violenza. I
partecipi sono puniti con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e i
dirigenti con quella da 1 a 6 anni. Sono previste anche possibili
sanzioni accessorie, tra le quali l’obbligo di prestare un’attività non
retribuita a favore della collettività.
Il successivo d.l. 122/1993, convertito nella l. 205/1993, ha ampliato
la sfera di punibilità dei comportamenti potenzialmente razzisti, in
quanto ha disposto il divieto di manifestare in pubbliche riunioni
ostentando simboli di associazioni di stampo razzista, pena la
reclusione fino a 3 anni. Nei confronti delle persone denunciate o
condannate per i reati di propaganda razziale, incitamento alla
violenza per motivi razziali, ovvero per partecipazione ad associazioni
di stampo razzista, opera il divieto, ispirato da evidenti finalità
preventive, di accedere ai luoghi ove si svolgono competizioni
agonistiche, pena l’arresto da 3 mesi a 1 anno. Tra le varie norme
introdotte da questa legge, è importante ricordare l’art. 3 che ha
previsto una particolare aggravante, applicabile quando un qualunque
reato è stato commesso per finalità di d., odio etnico ecc., ovvero per
favorire un’associazione che di tale d. faccia il proprio scopo.
Sotto il profilo giurisprudenziale, la Corte di cassazione (sent.
44295/2005) ha affermato che, ai fini della configurabilità
dell’aggravante in questione, non può considerarsi sufficiente che
l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno
riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione
delittuosa, occorrendo invece che questa, per le sue intrinseche
caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti
come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere
percepibile all’esterno e a suscitare in altri il suddetto,
riprovevole, sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o
nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori
per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione. Pur essendo
contenuta nelle disposizioni del testo unico del 1998, la nozione di
comportamento discriminatorio non riguarda soltanto i cittadini
stranieri, ben potendo applicarsi anche agli italiani che subiscano d.
basate sulla loro razza, colore, ascendenza, origine o convinzioni
religiose.
ECONOMIA
D. dei prezzi Pratica monopolistica (detta anche dei prezzi multipli)
che consiste nel porre in vendita a prezzi diversi unità del bene o del
servizio prodotte allo stesso costo, in modo da sfruttare meglio la
capacità di acquisto dei vari gruppi di consumatori. Un caso speciale
della d. dei prezzi è il dumping. D. commerciale (o doganale). Insieme
delle politiche (dette anche discriminatorie) consistenti
nell’introduzione di tariffe doganali differenziate (d. tariffaria), di
contingenti d’importazione (anch’essi differenziati, a seconda del
paese da cui provengono le merci), di tassi di cambio multipli e di
altri strumenti, che producono l’effetto di deviare o ridurre gli
scambi internazionali, provocando una diminuzione del benessere
mondiale.
D. dei redditiDiverso trattamento fiscale attuato ai fini di una più
equa ripartizione del carico tributario. Si parla di d. quantitativa
dei redditi quando l’obiettivo è quello di contenere l’erosione della
base imponibile (➔ base), di d. qualitativa dei redditi quando si
persegue il rispetto del principio dell’equità verticale.
PSICOLOGIA
Tempo di reazione complessa di d. Il tempo che il soggetto impiega per
dare, discriminandoli, una risposta differente a stimoli differenti.
Approfondimento:
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità di Rachele Cera
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it