elefante



Le enormi dimensioni e il comportamento fanno
dell’elefante un simbolo di forza, giustizia, saggezza e
fedeltà. Aristotele (Historia animalium 630b) ne sottolinea
anche l’intelligenza superiore agli altri animali, introducendo
una convinzione che ha lunga fortuna nel mondo antico.
Come è noto, l’elefante è animale esotico agli occhi dei Greci
e dei Romani. La testa di elefante è, tra l’altro, usata come
simbolo dell’Africa e dell’India. Animale da soma,
addomesticato dapprima da Indiani e Cartaginesi, è
conosciuto in guerra, sul fronte nemico, dai Greci solo nel
326 a.C. (battaglia dell’Idaspe), nell’ambito della campagna
indiana di Alessandro Magno; dai Romani, che lo useranno
poi anche nei giochi del circo, nel 280 a.C. (guerra contro
Pirro). Vista l’origine, raramente è associato alla divinità:
tuttavia, ad esempio, a Pompei Venere è ritratta insieme agli
elefanti. La vicinanza con la sensibilità dell’uomo è affermata
anche da Plinio (Naturalis historia 8,1), che descrive
l’animale come un essere docile, dotato di memoria, giusto e
onesto, e appare confermata nell’immaginario moderno (si
pensi alla dolcezza che connota la figura di Dumbo, così
amato dai bambini). Simbolo di castità presso i cristiani,
l’elefante, peraltro affascinato dalle belle donne, sembra non
tollerare l’adulterio, come già curiosamente testimonia
Eliano, che spiega come un elefante uccise la moglie del suo
domatore e l’amante, colti in una situazione inequivocabile
(Natura animalium 11,15).
Fedro, spiegando quali virtù siano state benevolmente
attribuite dalla Fortuna agli animali, indica la forza come la
caratteristica principale dell’elefante (App. 2,5). A fronte
della sua mole, tuttavia, l’animale appare, paradossalmente,
assai pauroso nei confronti di creature più piccole: è il caso,
in particolare, del porcellino, del topo, del montone e della
zanzara. Secondo Eliano, la vittoria dei Romani contro Pirro
si deve proprio a queste paure (De natura animalium 1,38).
Ed è proprio tale curiosa fragilità a caratterizzare l’elefante
nella raccolta esopica. In una narrazione (Esopo 145 Ch.),
che riprende il fortunato motivo degli animali riuniti in
assemblea (riscontrabile, sia pure con diversi protagonisti,
anche nelle favole 38 e 306 Ch.), l’elefante è ritenuto
inadatto a regnare a causa proprio della paura nei confronti
del porcellino. Da notare però che il cammello appare
inadatto perché invece manca della capacità di adirarsi
contro gli iniqui: una dote che il rivale possiede (almeno, così
si può dedurre implicitamente) e richiama il valore morale e
simbolico dell’elefante attestato nell’antichità (v. sopra). La
favola comunque testimonia il fatto che l’elefante è preso in
considerazione per un’alta carica, degna generalmente del
leone. E proprio il leone è l’animale a cui, forse non
casualmente, è accostato nella favola 210 Ch. (per il motivo
mitologico che ne è alla base, v. PROMETEO). Tuttavia,
ancora una volta, il terrore per un essere molto più piccolo
non gli consente di raggiungere la dignità del leone. In
questo caso è la zanzara a minacciarlo. Per certi aspetti,
questa caratterizzazione, tutt’altro che eroica, sembra
essere più vicina a un’altra tradizione, meno positiva, nei
riguardi all’animale; nelle collezioni dei proverbi troviamo
l’espressione «Non differisci in nulla da un elefante»: indica
una persona grossa che si segnala soprattutto per la
goffaggine (cfr. Tosi 1991, 324). Se la presenza dell’elefante
appare come un’eccezione nella favolistica occidentale,
l’animale sembra più a suo agio nella tradizione indiana
(dove rappresenta anche il dio Ganesha) e africana. Nel
Pañcatantra (tantra terzo, racconto terzo) leggiamo che gli
elefanti un tempo furono costretti a emigrare a causa della
siccità; trovarono un lago, ma, con la loro mole, uccisero
numerose lepri che abitavano sul posto. Allora, con
un’astuzia, il messo delle lepri si finse una divinità, li
spaventò e li indusse ad andarsene. Nella tradizione dei
Bangwa (Camerun), troviamo invece l’elefante che si vanta
sempre della sua forza e delle sue abilità. La tartaruga gli
propone allora una sorta di tiro alla fune; presa la corda,
entra però nella foresta e consegna l’altra estremità al forte
ippopotamo, con cui ha stretto accordi simili. La gara finisce
in parità e la tartaruga, che inganna così entrambi gli
animali, da quel giorno viene temuta dai ben più imponenti
rivali. Pur con tutte le differenze di ambientazione e di stile,
anche in questo caso, così lontano dalla nostra tradizione
favolistica, la morale segnala il timore dell’elefante per un
animale tanto piccolo.






Bibliografia

Stocchi C. Dizionario della favola antica, BUR, 2012