feticcio
Il termine feticcio (dal
portoghese feitiço, "artificiale", a sua volta derivato del latino
facticius, "fabbricato, costruito", e dunque anche "falso, finto")
indica l'oggetto inanimato al quale viene attribuito un potere magico o
spirituale, in virtù di uno spostamento semantico che trasfigura la
cosa nel suo valore comune per investirla di un significato simbolico,
individuale o di gruppo. Il vocabolo, adottato nel 16° secolo dai
navigatori portoghesi per designare gli idoli e gli amuleti che
comparivano nelle pratiche cultuali di popoli indigeni africani, fu
esteso successivamente alle reliquie sacre della devozione popolare e,
più in generale, a qualsiasi oggetto ritenuto immagine, ricettacolo di
una forza invisibile sovrumana. Nella psicoanalisi è riferito a oggetti
che, attraverso meccanismi di simbolizzazione, assumono un significato
sessuale, divenendo in tal modo sostituti dell'oggetto d'amore.
sommario: La dimensione antropologica. 1. Oggetti magici e mentalità
primitiva. 2. L'aspetto 'selvaggio' della modernità. 3. Il paradosso
del feticcio. La spiegazione psicoanalitica. □ Bibliografia.
La dimensione antropologica di Enrico Comba
1. Oggetti magici e mentalità primitiva
La prima trattazione sistematica della nozione di feticcio si deve a
Ch. de Brosses (1760), il quale ravvisava nel feticismo il nucleo
originario, primordiale, di ogni forma religiosa. Il culto rivolto a
oggetti materiali, in legno o in pietra, rappresentava, nella sua
prospettiva, il necessario esito di un pensiero primitivo non ancora in
grado di procedere per astrazioni e portato quindi a fissarsi su
oggetti tangibili, visibili. In essi l'uomo primitivo concentrava i
timori verso fenomeni imprevedibili e incontrollabili della natura, e
ne faceva il proprio oggetto di culto superstizioso. è nata in tal modo
una tradizione di pensiero etnologico che per decenni ha interpretato
il feticismo come un'espressione particolare di religiosità primitiva,
fondata sulla paura e sull'ignoranza e caratterizzata dall'incapacità
di elevarsi a forme più raffinate, spiritualizzate, di riflessione
religiosa. Tuttavia, questa concezione si è rivelata ben presto
insoddisfacente e pericolosamente generica: a mano a mano che si
accumulavano le conoscenze sui sistemi culturali e simbolici da cui
erano tratte le esemplificazioni di culto feticistico, se ne
riconoscevano la complessità, la diversità, la peculiarità. La parola
feticismo (introdotta nel 1887 da A. Binet) finiva per assumere
significati disparati, contraddittori, tanto da causare confusione
nell'uso del termine da parte di etnologi e studiosi di religioni
comparate. Fu M. Mauss a porre fine alla disputa con un articolo del
1908, in cui affermava che l'oggetto impiegato come feticcio non è mai
un oggetto qualsiasi: esso non viene scelto arbitrariamente, ma la sua
specifica funzione simbolica è definita dal codice magico o religioso
di cui fa parte. L'oggetto-feticcio non ha nulla di paradossale e di
straordinario in sé, purché lo si riconduca al contesto sociale e
simbolico all'interno del quale assume un proprio senso e una propria
funzione. Il feticismo, pertanto, non designa più una fase primordiale
della religione, né una sua particolare dimensione, piuttosto deve
essere considerato un 'immenso malinteso', un 'errore di traduzione' di
cui sbarazzarsi (Mauss 1969).
Caduto l'interesse per il feticismo in quanto sistema definito di
credenze e atti cultuali, è rimasta l'esigenza per gli etnologi di
affrontare analiticamente i vari casi di oggetti sacri, pratiche e
comportamenti - riscontrabili in quasi tutte le culture - che hanno a
che fare con immagini e simboli materiali, e di confrontarsi quindi con
'feticci senza feticismo' (Pouillon 1975). In numerose culture anche
gli spiriti, le forze invisibili, gli dei, sono concepiti come aventi
un corpo, un supporto materiale che acquista un valore simbolico
specifico e costituisce una presenza enigmatica, ineludibile.
Un'analisi in termini meramente simbolici, la ricostruzione della trama
di significati all'interno della quale l'oggetto sacro deve essere
inserito, rischiano di mettere indebitamente in ombra la dimensione
oggettuale, materiale, dell'universo culturale in cui l'immagine, il
feticcio, il 'dio-oggetto', possono avere rilevanza (Augé 1988). La
materialità del feticcio condiziona inoltre la sua manipolabilità,
l'utilizzo secondo finalità particolari, come manifestato dal termine
stesso, che reca in sé l'accezione di 'cosa fabbricata'. Il senso di
artificialità dell'oggetto sacro non sfuggiva agli autoctoni africani
se affermavano di poter creare e distruggere i propri dei ogni giorno,
di essere padroni e inventori di ciò cui sacrificavano (Lubbock 1870).
2. L'aspetto 'selvaggio' della modernità
Nell'Ottocento, mentre si stava sviluppando nell'etnologia la
tradizione di studi sul feticismo come forma di religione primitiva -
aspetto, questo, del pensiero europeo che tendeva ad allontanare il
fenomeno feticistico riconoscendolo soltanto presso i popoli più
'ingenui' e lontani -, altri autori cominciavano a elaborare un diverso
modo di intendere il concetto, secondo prospettive che lo avvicinavano
al cuore stesso del mondo moderno. In base ai nuovi orientamenti
teorici, il feticismo si rivolgeva all'uomo europeo-occidentale
mettendone pericolosamente in luce alcune contraddizioni e ambiguità.
K. Marx (1867) introduce la nozione di 'feticismo delle merci', come
caso particolare di un più generale feticismo della proprietà, che si
manifesta quando i rapporti sociali di produzione assumono la forma
fantastica e illusoria di rapporti tra cose. Così il valore delle
merci, che ha la sua origine in un rapporto sociale ed è il risultato
di un'attività economica (il lavoro), viene attribuito agli oggetti
materiali, i quali possono essere scambiati fra di loro come se il
valore fosse una proprietà intrinseca agli oggetti stessi. Se si
prescinde dal valore d'uso delle merci - afferma Marx -, si prescinde
anche dalle loro forme corporee; la merce perde le qualità sensibili a
favore del valore di scambio, l'equivalente del mana che i primitivi
attribuivano agli oggetti e agli animali cancellando la loro natura.
Questa sorta di 'maschera', attraverso la quale il prodotto del lavoro
assume in sé il valore che gli viene attribuito dal rapporto sociale di
cui esso è oggetto, è per Marx la forma specifica di feticismo del
capitalismo moderno, un sistema che tende a occultare la realtà dei
processi sociali che stanno alla sua base. In tal senso egli mostra
l'aspetto 'selvaggio' della modernità (Assoun 1994), utilizzando la
nozione di feticismo come strumento di critica della società
capitalistica e di svelamento della vera natura dei meccanismi che la
sostengono.
Un attacco altrettanto profondo alla società moderna veniva portato
alcuni anni dopo da F. Nietzsche (1889), il quale indirizzava la sua
critica alle illusioni della ragione e dei suoi principali presupposti,
quali il concetto di Io. Quella che i filosofi chiamano ragione per
Nietzsche è un insieme di pregiudizi ed errori: se si prende coscienza
dei presupposti fondamentali del linguaggio della filosofia, e quindi
della ragione, si penetra in un 'rozzo feticismo'. Implacabilmente,
Nietzsche mostra all'uomo moderno come la sua stessa ragione non sia
altro che un feticcio, qualcosa di artificiale, di costruito, e quindi
di transitorio, di 'impermanente'. Infine la psicoanalisi: se il
feticismo comincia a comparire come particolare perversione nella
sessuologia dell'Ottocento, dove indica l'uso di un oggetto sostitutivo
dell'organo genitale come mezzo di raggiungimento della gratificazione
sessuale, è nell'opera di S. Freud che esso assume la sua definitiva
collocazione, in connessione con la paura di castrazione e il
simbolismo fallico. Freud (1927) descrive il fenomeno come il risultato
di impressioni sessuali vissute durante la prima infanzia, in cui
l'oggetto-feticcio assume il significato simbolico di sostituzione del
fallo mancante nella donna. In tal modo, il feticismo fornisce un mezzo
di spostamento e, indirettamente, di convalida della fantasia
infantile, che viene fissata su un oggetto strettamente legato al corpo
femminile: indumenti intimi ecc. (v. oltre). In tutte queste
interpretazioni, per quanto differenti, traspare il comune intento di
collocare il feticcio al centro dell'esistenza dell'uomo moderno. Non
si tratta più tanto di guardare con sufficienza a credenze esotiche e
lontane, che possono solamente confermare la superiorità e la sicurezza
dell'uomo occidentale. Marx, Nietzsche e Freud mostrano invece come il
feticcio si annidi nel cuore stesso della modernità, mettendone in
pericolo le fondamenta e rivelandone le debolezze e difficoltà. Questo
è anche il senso dell'inquadramento antropologico-psicopatologico di
V.E. von Gebsattel (1954), che verte sul processo di
antropologizzazione posto alla base di ogni formazione feticistica.
3. Il paradosso del feticcio
È possibile ritrovare in una molteplicità di culture di interesse
etnografico alcuni meccanismi contraddittori, analoghi a quelli messi
in luce dagli autori sopra considerati. Anche i feticci primitivi sono
spesso oggetti esplicitamente 'fatti' dall'uomo, quali una rozza
immagine, una figura, un utensile d'uso comune; in altri casi può
trattarsi di un elemento naturale, una pietra, un pezzo di legno, parti
di animali, ma sempre qualcosa di 'isolato', posto fuori dal suo
contesto. Un esempio significativo proviene dalla tradizione cristiana
medievale delle reliquie: divenivano oggetti di devozione sezioni del
corpo di santi, cose inerenti al loro abbigliamento o in qualche modo
connesse con la loro vita; persino le tombe, il terreno che le
circondava, nonché le offerte che erano lasciate presso il sepolcro,
assumevano un valore sacrale (Ellen 1988). L'oggetto cultuale
rappresenta in forma concreta, visibile, palpabile, qualcosa di
immateriale e inattingibile: in ciò sta probabilmente l'enigma, il
paradosso del feticcio. Oggetto fabbricato, costruito o per lo meno
scelto, separato a opera dell'uomo, esso diviene qualcosa di
indipendente dalla volontà del suo produttore: dispone di un potere, di
una forza, di una vitalità specifici. È al tempo stesso un oggetto
dalle proprietà particolari e qualcosa di indecifrabile e di potente
che va oltre l'oggetto; dimostra la capacità umana di produrre il
proprio mondo culturale, le proprie immagini di culto, i propri dei, ma
insieme ne rivela anche i limiti, perché ciò che è fatto dall'uomo può
assumere un'autonomia propria; gli oggetti possono acquisire qualità
analoghe a quelle degli esseri viventi e rimandare, per ciò stesso, a
una dimensione che si pone al di là delle possibilità umane di
controllo e di manipolabilità.
La spiegazione psicoanalitica di Salomon Resnik
Il feticcio, oggetto inanimato, naturale o artificiale, è nelle culture
primitive il 'luogo' di una proiezione religiosa: luogo che viene
'ri-fatto, ri-creato', talvolta esteticamente, in modo da riprodurre
l'immagine o il ricordo di una 'assenza primordiale', fondamento del
processo di simbolizzazione. Il feticcio diventa allora simbolo di
un'assenza, di un'evocazione, memoria di un fatto o di un'esperienza da
ricordare e venerare; in tal senso appare legato al lutto e alla
commemorazione.
Freud (1927) collegò il fenomeno a un'esperienza arcaica o infantile.
Il bambino, per la sua vulnerabilità psichica, ha bisogno di trasferire
a un oggetto inanimato un significato animato e angoscioso che egli non
può contenere psichicamente e che il suo Io non può elaborare. In
generale, il feticcio si collega all'incapacità naturale
dell'essere-bambino di accettare la separazione, l'assenza della madre.
Un fazzoletto, la coperta della culla, la bambola, acquistano il
significato simbolico di una rappresentazione concreta che occupa
significativamente il posto di un oggetto assente. Ciò si collega al
concetto di 'oggetto transizionale' di D.W. Winnicott (1945). L'oggetto
transizionale personifica l'elemento mancante, essenziale per la vita
del bambino, che in tal modo ha la possibilità di renderlo
concretamente vivo e presente. Il feticcio acquista un significato
connesso al lutto; esso può essere sensualizzato, erotizzato e divenire
fonte di piacere.
Ancora Freud (1927) osserva come certe parti del corpo (naso, piede)
assumano un significato feticistico. Egli lega il feticismo
all'angoscia di castrazione che si manifesta quando il bambino, alla
vista dell'organo sessuale femminile, scopre che la donna non possiede
il pene: parti del corpo oppure certi oggetti-feticci vengono allora ad
assolvere la funzione di sostituzione del fallo o di compensazione
dell'oggetto mancante. L'oggetto mancante, o anche la realtà della sua
scomparsa o morte, viene sostituito dall'oggetto-feticcio che può
essere ritualizzato ed erotizzato: è un modo di negare la perdita e
trasformare, così, il lutto in 'piacere erotomaniaco'.
Secondo M. Klein (1940), lo svelamento della funzione feticistica
potrebbe anche scatenare a un livello paranoide panico o paura, in
quanto apparizione perturbante del fantasma o 'anima smarrita' che
perde il suo 'corpo-sarcofago'; a un livello depressivo può risvegliare
il dolore del lutto che era condensato nell'oggetto-feticcio. Questo
potrebbe allora essere concepito come luogo concreto di 'proiezione' in
cui seppellire o rimuovere (Verdrängung) un sentimento di colpa,
un'esperienza persecutoria, un ricordo intollerabile. Freud (1896)
definisce il termine proiezione in relazione a un caso di paranoia
cronica: in tale disturbo l'autoaccusa (le voci persecutorie) viene
rimossa non dentro l'apparato psichico, ma fuori, nell'altro, e si
mostra come accusa esterna (alloaccusa). Si potrebbe quindi affermare
che nel feticcio si proietta, si condensa e si congela un vissuto
minaccioso o eccessivamente idealizzato e temuto. Un fatto, un oggetto
possono trasformarsi in feticcio, in quanto luogo di proiezione di una
rimozione, sia in un elemento esterno sia nel proprio corpo. Nel caso
di proiezione interna (feticismo corporeo), il soggetto dissocia la
mente dal corpo per evitare un sentimento doloroso, depressivo o
persecutorio. Il distacco della mente nel feticismo corporeo segnala un
processo dissociativo dell'Io e diventa un meccanismo di difesa di tipo
ipocondriaco. Si tratta di spostare a una parte del corpo, anche a un
organo sessuale, un ricordo dolente che verrà feticizzato, dunque
immobilizzato, concretizzato, condensato e idealizzato. Visto l'aspetto
dissociativo dell'Io, Freud collega il feticismo patologico alla
psicosi e alla perversione. È opportuno distinguere il feticismo
patologico da quello normale, che si ritrova in qualche modo nella
pratica del collezionismo: il meccanismo che muove il collezionista si
collega infatti alla nevrosi ossessiva, che tende a preservare e
categorizzare 'concretamente' e freddamente una realtà affettivamente
investita. Nell'ambito degli studi sulla perversione sessuale, il
feticismo è stato oggetto di analisi e descrizioni puntuali. H. Ellis
(1897), Freud, A. Hesnard (1951) e altri autori interpretano il lutto
patologico come esperienza sadomasochistica dominata da una fantasia
perversa. Hesnard, in particolare, definisce il feticismo patologico
espressione di un impulso o istinto sessuale che esce dal suo
itinerario abituale e devia dalla sua meta per avere un nuovo
significato e una nuova finalità. Dal punto di vista della fantasia
magico-perversa inconscia, si tratta di trasformare, attraverso un
erotismo del corpo, una realtà minacciosa e temuta in idealizzata fonte
di desiderio sessuale. La venerazione feticistica appare come speranza
delirante di risvegliare l'oggetto morto, come accade nella necrofilia,
dove il rapporto sessuale con un soggetto inanimato costituisce un modo
di resuscitarlo eccitandolo, ma è anche fonte di paura, di ritorsione
arcana, di vendetta. Si può dire che il feticcio e il feticismo
acquistano un significato complesso e determinante nello sviluppo della
cultura umana. I rispettivi significati dipendono dai sistemi di valori
e dal modo di risolvere il lutto, la persecuzione e la violenza, in
ogni cultura. Essi hanno una funzione difensiva e comunicativa; si
tratta, per J. Lacan (1966), di rappresentare o simbolizzare un
significante primordiale, il Nome-del-Padre, escluso dalla sfera
immaginaria simbolica e proiettato, eiettato (verwerft), nella realtà
del mondo culturale.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it