Abbazia di San Vittore alle Chiuse (Genga)



Cenni storici


L’abbazia sorge isolata, circondata dagli Appennini marchigiani, in un territorio particolarmente suggestivo all’interno di una gola e nei pressi delle Grotte di Frasassi. Questa zona, ora diventata Parco Naturale Regionale, si rivelò già strategicamente interessante in età romana, in quanto coincideva, oltre che con un importante crocevia, con la confluenza del fiume Sentino nell’Esino. Recenti studi hanno infatti confermato l’esistenza di edifici antichi, probabilmente identificabili in un complesso termale di epoca augustea.
Il primo documento nel quale si nomina il monastero di S. Vittore delle Chiuse risale al 1007. La scelta della dedicazione della chiesa al santo martire deriva presumibilmente dalla denominazione con la quale, già in epoca romana, veniva indicato quel luogo, per l’appunto victorianum;è possibile quindi che l’appellativo finì per essere associato al nome del santo Vittore.
Nel 1010 il complesso è per la prima volta menzionato come monastero benedettino, mentre nell’anno successivo tre altari vengono dedicati alla Vergine e ai santi Vittore e Benedetto. A partire dal 1011 il cenobio vive una particolare stagione di espansione, desumibile da alcuni atti che registrano importanti donazioni fino al 1104. Questi sono gli anni in cui il monastero passa sotto il controllo e la protezione di potenti famiglie locali, come in una sorta di Eigenkloster. L’XI secolo è il momento di ascesi e fioritura dell’abbazia, il quale però non avviene in maniera omogenea e continuativa, ma attraverso due fasi, intervallate da un momento di minore attività ed individuabili grazie ai documenti pervenutici: il primo si collocherebbe intorno al secondo decennio, mentre l’altro dagli anni ottanta fino al 1100. La fase iniziale segue la grande donazione avvenuta nel 1011 ad opera di Gozo di Raco: in questo periodo prevalsero lasciti da parte di feudatari locali imparentati o legati politicamente alla famiglia dominate dei Gonzoni, che si susseguirono per tutto il decennio in maniera costante. La fase di minore attività, registrabile tra gli anni 1049 e 1058, è da ricondurre invece alla mancanza di un abate all’interno del cenobio. Una drastica ripresa si ebbe sotto l’abate e vescovo Morico (1058-1098), in particolar modo fra il 1076 e il 1084, quando si registrano ingenti donazioni sia da parte della famiglia fondatrice, sia di quelle ad essa imparentate. Nei primi anni novanta queste elargizioni si consolidarono grazie alla stesura di importanti contratti, trasformando il cenobio in un importante centro di potere. Incrociando queste informazioni con i dati desumibili dalle comparazioni stilistiche (come accenneremo tra breve) è possibile formulare un’ipotesi di datazione dell’abbazia. La chiesa dovette assumere le forme attuali durante il priorato di Morico (1058-1098), quando il complesso vantava di una solida posizione politica e conservava una certa autonomia ecclesiastica. Il termine ante quem dei lavori è l’ottobre del 1085, quando vengono per la prima volta menzionate le cinque dedicazioni della chiesa, oltre ai santi Benedetto, Vittore e la Vergine Maria, a Biagio e Nicola, corrispondenti a cinque altari.
Nel 1110 viene menzionata per la prima volta in un documento l’aggiunta de clusa al nome dell’abbazia; mentre il plurale de clusis comparirà solo nel 1234, probabilmente in riferimento alla Gola di Frasassi composta appunto da più chiuse.
Nel 1406 l’abbazia sarà annessa al monastero olivetano di S. Caterina. Dopo un periodo di abbandono all’inizio del XIX secolo, in cui la chiesa fu adibita a fienile e stalla, vennero intrapresi intorno al 1830 i primi lavori di restauro.

 

Descrizione del monumento
L’edificio presenta una pianta a croce greca inscritta in un quadrato secondo un modello di derivazione bizantina già sperimentato nella vicina chiesa di S. Claudio al Chienti. Come in S. Maria di Portonovo presso Ancona, quattro pilastri cilindrici dividono l’interno in nove campate (di uguale altezza), tutte dotate di volte a crociera, tranne quella mediana che presenta una copertura cupoliforme. Questi quattro sostegni, alti e ravvicinati che infondono eleganza a tutto l’interno, sono realizzati in conci di travertino bianco ed impostati su plinti poggianti su basi parallelepipede. Il ritmo ascensionale viene accentuato dalla presenza della cupola, la cui calotta emisferica poggia su di un tamburo ottagonale che attraverso quattro trombe si raccorda con la base quadrata della campata. La chiesa, orientata, presenta su questo lato tre absidi semicircolari che seguono la distribuzione delle campate (quindi quelle laterali sono leggermente più piccole di quella centrale). L’edificio religioso è dotato di altre due absidi, sull’asse trasversale Nord-Sud, aventi le medesime dimensioni di quella centrale. L’ingresso principale alla chiesa (sul lato Ovest) consiste in un portale a doppia ghiera con arco a tutto sesto, lavorato con conci di pietra calcarea ben tagliati. L’entrata è preceduta da un corpo di fabbrica (realizzato in un momento posteriore rispetto al resto del complesso), che collega due torri poste agli angoli della facciata. Questa struttura, accessibile attraverso un’apertura ad arco a sesto leggermente acuto e composta da una campata voltata a botte, allaccia la più antica torre scalare cilindrica, che sovrasta di poco il muro della chiesa (adiacente alla campata Nord-Ovest), all’imponente torre quadrangolare, speculare alla prima ma notevolmente più alta. Le torri di forme e grandezze diverse generano disomogeneità e asimmetria nella facciata, discostandola dal suo modello originale di San Claudio. Tale mutamento è da ricondurre ad una successiva modifica del progetto originario che invece prevedeva l’erezione di due corpi gemelli. L’avancorpo compresso tra le due torri è stato, da molti studiosi, interpretato come una libera ripresa del westwerk nordico, dimostrando la particolare attenzione di questo cantiere non solo all’orbita orientale, ma anche a quella di ascendenza germanica. La chiesa è dotata di altri due ingressi: uno a nord che conduce al presbiterio, rialzato di tre gradini, ed uno sul lato sud.
L’interno privo di decorazioni appare, nella sua austerità, estremamente raffinato, per via delle precise lavorazioni degli elementi di articolazione in pietra calcarea o in laterizio rosso. Colpisce per questo la pregevole articolazione del tamburo impostata sui pennacchi ed affine a quella elaborata nelle pareti di Sant’Abbondio a Como, datata tra gli anni ’50 e ’70 del secolo XI. Ulteriori sono le analogie ravvisabili con la chiesa comasca e con S. Maria di Portonovo: il fregio ad archetti pensili e il sistema di sostegno delle volte.
Per quanto riguarda l’esterno, gli alti muri perimetrali infondono un aspetto fortificato alla struttura compatta, pur mossa dalle absidi, da cui emerge il tiburio.
Per molti studiosi la chiesa va datata intorno all’ottavo decennio del secolo XI, in quanto poté essere costruita solo dopo S. Claudio al Chienti e S. Maria di Portonovo (terminata nel 1048), ma senz’altro prima di San Savino a Piacenza o di Sant’Urbano all’Esinate (consacrata nel 1086). Quest’ultima data coinciderebbe, rispetto a S. Vittore, con il termine ante quem citato precedentemente. In questi anni i documenti testimoniano cospicue donazioni (1076-1084), oltre che un particolare vigore all’interno della comunità guidata dal potente abate Morico (1058-1084). Pertanto l’erezione dell’abbazia dovette esser avviata da Morico verso il 1070 e terminata entro il 1085. A questa fase seguì la costruzione degli edifici monastici, che conobbe un periodo di particolare vitalità tra il 1104 e il 1112: a Morico successero infatti Rainerio (1098-1104) e Pietro (1104-1112) che proseguirono e terminarono verosimilmente i lavori.
Conseguenza della costruzione del complesso monastico furono le modifiche apportate al progetto originario della chiesa: la demolizione della torre cilindrica meridionale (forse mai terminata), l’erezione del possente torrione quadrangolare e dell’adiacente corpo di fabbrica (il cui portale d’accesso mostra le prime avvisaglie del gotico). Il complesso cenobitico, attiguo alla torre quadrangolare (attraverso la quale si accedeva alla chiesa), presentava un edificio composto di due ali su due livelli. L’entrata principale era dal ponte sul Sentino, il quale ancora oggi presenta l’antica torre di guardia. Sulla riva del fiume si trovano due case, appartenenti al complesso abbaziale, anche se notevolmente trasformate in epoche successive.

 

Bibliografia
Le abbazie delle Marche. Storia e arte, a cura di E. Simi Varanelli, Atti del Convegno (Macerata 1990), Cesena 1992.
H. Sahler, San Claudio al Chienti e le chiese romaniche a croce greca inscritta nelle Marche, Ascoli Piceno 1998.
P. Piva, Il romanico nelle Marche, Milano 2012.



Bibliografia

da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it