inconscio
La sfera dell’attività
psichica che non raggiunge il livello della coscienza. Già teorizzato
da G.C. Carus, L. Klages, A. Schopenhauer, F. Nietzsche, l’i. è
divenuto specifico oggetto di studio psicologico, ma con un’estensione
e importanza intese diversamente dalla psicologia classica e dalla
psicanalisi.
Per la psicologia classica l’i. ha un’importanza relativamente limitata
e le sue funzioni si confondono con l’attività biologica del cervello.
Tra i fenomeni che appartengono all’i. e che più frequentemente
occorrono sono: la mancata percezione di uno stimolo, che pur è colto
da un determinato organo di senso (i. della percezione); l’improvviso
sorgere di un ricordo, che invano si era cercato di rievocare (i. della
rievocazione); le azioni che, essendo divenute abitudinarie, sono
compiute automaticamente al di fuori di un controllo consapevole (i.
dell’automatismo abitudinario).
In psicanalisi, S. Freud diede particolare importanza alla sfera
inconscia della vita psichica, concependo un i. in senso sistematico
(sistema inconscio, sottoposto al processo psichico primario), che non
può essere reso cosciente a volontà e che è costituito da un’attività
originaria e arcaica (l’Es) e da ciò che è stato oggetto di rimozione.
Proprio il concetto di rimozione consente di intendere l’i. come il
luogo delle tendenze pulsionali che non vengono vissute in modo
cosciente, pur influenzando il comportamento e sovente estrinsecandosi
in sintomi neurotici. Alla concezione freudiana delle pulsioni inconsce
si contrappone quella di C.G. Jung, che distingue un i. personale
(oblio, repressione, vissuto subliminale, capacità e disposizioni non
sviluppate sufficientemente) e un i. collettivo: in questo,
indipendentemente dall’esperienza individuale, si sono depositate le
esperienze originarie dell’umanità, come disposizioni di base per le
pulsioni e per l’afferramento della realtà.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it