carl gustav jung
JUNG CARL GUSTAV, n. a
Kesswil (Svizzera) il 26 luglio 1875 e m. a Küsnacht il 6 giugno 1961.
Figlio di un pastore protestante, si laurea in Medicina a Basilea il 27
novembre del 1900. Solo due settimane dopo il conseguimento della
laurea ottiene l’incarico di assistente medico presso l’Ospedale
Psichiatrico Burghölzli di Zurigo — all’epoca clinica psichiatrica
dell’Università — noto per i progrediti sistemi di cura e ricerca
introdotti dal suo direttore Eugene Bleuler. Nel semestre invernale
1902-03 J. frequenta le lezioni di psicopatologia teorica di Janet alla
Salpêtrière di Parigi; poco dopo il suo rientro a Zurigo sposa Emma
Rauschenbach e va ad abitare all’interno del Burghölzli. Ciò gli
consente di rivolgere a tempo pieno il suo interesse verso gli stati
patologici della mente, orientando l’attenzione sul metodo delle
associazioni verbali. Le ricerche condotte in tal senso vengono da lui
pubblicate in un volume dal titolo Diagnostische Assoziationsstudien
—gli scritti a cui ci riferiamo sono oggi raccolti nel vol. II delle
Opere —, un testo che nell’aprile del 1906 J. invia a Freud e che segna
l’inizio della loro corrispondenza. I reciproci apprezzamenti pubblici
non tardano ad arrivare; in quello stesso anno Freud durante una
conferenza su Diagnostica del fatto e psicoanalisi (1906) fa
riferimento al lavoro di J. e questi, dopo aver preso le difese di
Freud al congresso di Baden-Baden, apre il suo importante saggio sulla
Dementia Praecox (1907), scrivendo: "anche uno sguardo superficiale
alle mie pagine mostra di quanto io sia debitore alle geniali
concezioni di Freud". Nel 1907 J. e Freud per la prima volta si
incontrano a Vienna. Lo studio dei dinamismi inconsci, lo scambio
d’informazioni e opinioni professionali, il lavoro dedicato al
movimento psicoanalitico, le intime notizie familiari divengono il
tessuto narrativo del fitto carteggio — dato alle stampe solo nel 1974
—, testimonianza diretta del profondo e complesso legame che li unisce.
Nel 1909 Jung ottiene la nomina di primo presidente dell’Associazione
Psicoanalitica Internazionale, ma i suoi studi sulla libido e il
conseguente distacco dalla visione di Freud lo portano a tradire nei
fatti le parole del maestro: "Mio caro Jung, promettetemi di non
abbandonare mai la teoria della sessualità. Questa è la cosa più
importante... dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo".
Inevitabilmente il loro rapporto cessa nel 1913, subito dopo la
pubblicazione di Simboli della trasformazione (1912), un testo che J.
fino al 1952 sottoporrà più volte a revisione, ma che già nella sua
prima versione prospetta compiutamente i fondamenti della psicologia
analitica. Il 20 aprile del 1914 Jung si dimette da presidente
dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale e in quegli anni inizia
per lui una fase di travaglio interiore che lo porterà a occuparsi di
diverse discipline solo in apparenza lontane dall’ambito prettamente
psicologico e psichiatrico. Lasciato il Burghölzli e l’insegnamento
universitario, si trasferisce a Bollingen, dove, nella solitudine della
torre che domina la casa, si dedica agli studi mitologici, religiosi e
all’alchimia. È l’interesse verso queste aree di ricerca che consente
ai più di considerare J. ora un teologo, ora uno sciamano, ora un
valente psichiatra. Leggendo i suoi scritti, infatti, diventa possibile
entrare in contatto con le diverse anime che lo caratterizzano, ma al
contempo, proprio in virtù di un approccio tanto multiforme, J. ci
permette di accostare la poliedrica realtà della psiche. La sua opera
si configura infatti come una ricerca, di uomo e di scienziato, tesa a
comprendere la processualità psichica propria dell’essere umano. I
diversi linguaggi, talora metaforici, figurativi, diventano per lui una
riproposizione del funzionamento e dei meccanismi peculiari alla
dimensione interiore. A tal proposito J. stesso afferma che le sue sono
asserzioni che "possono e devono, persino per ragioni scientifiche,
venire ridotte all’uomo e alla sua psicologia. Sono in primo luogo
proiezioni di processi psichici... poiché non si tratta delle fantasie
di un singolo, ma di un fenomeno collettivo". Dal 1921 anno di
pubblicazione di Tipi psicologici agli ultimi scritti, tra cui
Mysterium coniunctionis del 1956, quanto J. elabora e scrive trova i
suoi presupposti sia nel serrato confronto con la dimensione onirica,
con le immagini e le fantasie inconsce proprie e dei pazienti, sia
nella osservazione continua e attenta delle dinamiche attive nella
relazione analista-paziente. Non a caso J. fu il primo a considerare la
necessità per ogni futuro analista di sottoporsi a un’analisi
didattica. Nonostante le iniziali opposizioni da lui stesso avanzate,
il 28 aprile del 1948 si inaugura a Zurigo il C.G. Jung Institut e nel
1956, pochi anni prima della sua morte, viene fondata l’International
Association for Analytical Psychology. Il processo di individuazione
rappresenta il concetto cardine intorno al quale si articola il
pensiero di J. e il suo approccio alla realtà psichica. Coniato nel
1912, e sempre più approfondito a partire dal 1916, il moto
individuativo presente nell’animo umano evidenzia la tensione verso la
realizzazione del Sé, inteso come totalità che accoglie coscienza e
inconscio e che determina una nuova e diversa centratura dell’Io.
L’individuazione è da J. considerata una possibilità di sviluppo
psicologico che attende solo di essere colta dalla coscienza per
costituirsi quale elemento reale di trasformazione. Il divenire un
individuo psicologico si rende allora possibile in virtù dell’esistenza
inconscia del Sé che spinge verso la propria autorealizzazione. In
questo senso l’individuazione è principio in divenire e divenire del
principio, paradigma della visione prospettica sempre presente nella
concezione junghiana. Affinché la coscienza possa evolversi dallo stato
originario di identità con l’oggetto si rende necessario un processo
cosciente di differenziazione e integrazione. È qui che J. affronta il
complesso problema della separazione e differenziazione dalla madre,
accostata sia a livello personale che archetipico, e dal collettivo. La
vasta esperienza psichiatrica e la constatazione che simili processi
sono peculiari a ogni essere umano, dunque astorici e atemporali, come
testimoniano i miti e le pratiche arcaiche, guidano J. a coniare il
termine di inconscio collettivo. Come l’inconscio personale nella
visione di J. non rappresenta unicamente il ricettacolo del materiale
rimosso, perché in sé contiene e serba le potenzialità del divenire,
così l’inconscio collettivo è ricco di contenuti che J. definisce
archetipi, ovvero forme tipiche di comportamento,’modi’
caratteristicamente umani, indici di un "a priori" della conoscenza, di
una facultas praeformandi, che rimanda a Kant, alle idee platoniche e
ai prototipi di Schopenhauer. Per il loro carattere di "struttura
strutturante", gli archetipi di per sé non sono né visibili, né
rappresentabili, ma si manifestano nei sogni, nelle fantasie o nei
deliri dello psicotico, in qualità di immagini archetipiche. Il
processo di individuazione implica il confronto con particolari
immagini archetipiche, nonché con le diverse parti scisse della
personalità, anche perché — trovandosi l’inconscio sempre in rapporto
compensatorio con l’unilateralità della coscienza - l’integrazione di
certi contenuti è necessaria affinché si realizzi un ampliamento del
campo di coscienza. Secondo J., infatti, l’inconscio personale è anche
sede dei complessi, ossia di frammenti psichici scissi, parti autonome
della psiche; egli definisce il complesso, costellato in seguito a
eventi traumatici precoci, l’insieme delle rappresentazioni che si
riferiscono a un determinato avvenimento a tonalità affettiva. Le
situazioni esterne possono allora attivare un complesso dell’Io, tanto
che il soggetto si comporta come se fosse posseduto da una personalità
autonoma. Il processo terapeutico dunque presuppone il contatto con
determinate immagini, colte sia nel loro aspetto archetipico che in
quello personale e individuale; un contatto che implica di per sé un
rapporto attivo con l’inconscio al fine di evitare una inflazione o una
fascinazione dell’Io da parte delle potenze numinose dell’inconscio.
L’Ombra, intesa come il non conosciuto o l’inaccettabile, la Persona,
quale immagine di sé da offrire al mondo — una maschera con la quale il
più delle volte ci si identifica —, l’Anima e l’Animus, assunti come
controparte sessuale inconscia, il Puer, ovvero l’eterna possibilità
del divenire, la Grande Madre, nei due aspetti buono e terrifico
(peraltro testimonianza della sempre presente bipolarità
dell’archetipo) non sono che alcune delle immagini con le quali l’Io
deve scontrarsi e confrontarsi perché la coscienza possa evolversi.
L’attenzione che J. presta ai sogni si differenzia sostanzialmente
dalla visione freudiana. Il sogno per J. è anche la manifestazione di
un processo di sviluppo e di coordinamento che si svolge per gradi
programmati, tanto che nel suo lavoro prende il più delle volte in
considerazione una lunga sequenza di sogni. I simboli che si presentano
nelle immagini oniriche o nelle fantasie non sono da J. letti secondo
la concezione semiotica, e dunque come segni che indicano processi
istintivi elementari, bensì sono assunti nel loro più ampio valore
simbolico dove una quota di non conosciuto permette di mantenere il
simbolo vivo, operando una trasformazione dell’energia libidica.
Nell’orientamento finalistico di J. le cause si trasformano in mezzi
per raggiungere un fine, in espressioni simboliche di un cammino da
percorrere. Il simbolo rappresenta così il ponte tra la dimensione
inconscia e quella conscia e l’accostamento dei contrari genera un
terzo elemento, la funzione trascendente, che rende possibile il
passaggio dall’uno all’altro atteggiamento. La riunificazione dei
contrari intesa come mysterium coniunctionis conduce J. a volgere lo
sguardo all’alchimia, laddove egli assume l’opus alchemico come
reintegrazione di uno stato iniziale in uno stato finale. I principi
alchemici infatti sono espressi mediante un simbolismo particolarmente
ricco, quello stesso che J. individua nei pazienti. Dalla nigredo,
dall’oscura notte dell’anima, il percorso alchemico conduce al philius
quale manifestazione del Sé; si tratta di una proiezione sulla materia
della processualità psichica dove la trasformazione che
progressivamente prende forma si realizza in virtù della coniunctio tra
elementi. E il testo del 1946, Psicologia del transfert, interamente
dedicato alla relazione terapeutica, si avvale proprio di una serie di
immagini del Rosarium philosophorum. La coniunctio, l’unione alchemica,
è il fondamento per J. del rapporto analista-paziente; il terapeuta non
è più il soggetto che agisce, ma è egli stesso compartecipe di un
processo di sviluppo individuale, è dunque interrogante e interrogato,
coinvolto nella relazione tanto quanto il paziente. Il continuo dialogo
con le immagini interne al fine di ricongiungere le opposte polarità,
l’attenzione rivolta al transfert e al controtransfert, divengono così
per J. i presupposti di qualsiasi percorso che voglia chiamarsi
analitico.
Bibliografia
Carotenuto, A. (a cura di), Dizionario bompiani degli psicologi
contemporanei, Bompiani, Milano, 1992