Letteratura e psicoanalisi
Gli scrittori sono i
precursori della psicoanalisi, e i suoi migliori alleati.
"Probabilmente - dice Freud - attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo
sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con un metodo diverso; e la
coincidenza dei risultati sembra costituire una garanzia che abbiamo
entrambi lavorato in modo corretto" (Freud 1906; trad. it. 1972, p.
333). Tra psicoanalisi e letteratura esisterebbe dunque una
solidarietà, rafforzata e non smentita dalla differenza dei metodi: i
poeti sublimano, gli analisti desublimano. Secondo J. Starobinski, "la
Traumdeutung, sul piano del sapere, vuole essere l'equivalente di ciò
che fu Amleto nello sviluppo dell'opera teatrale di Shakespeare. Il
poeta è un sognatore che non si è analizzato, ma che, nondimeno, ha
reagito drammaticamente; Freud è uno Shakespeare che si è analizzato"
(Starobinski 1967; trad. it. 1975, p. 326). Questa distinzione, pur
legittima, finisce con l'essere troppo schematica; essa mantiene fra i
due termini del rapporto una distanza rassicurante, ma la distanza si
riduce non appena ci si rende conto che la letteratura, al pari della
mitologia, non è solo un oggetto d'indagine ma una fonte - e di
straordinaria importanza - per il sapere psicoanalitico.
La solidarietà nei risultati della ricerca si trasforma così in una
sorprendente e pericolosa somiglianza. La psicoanalisi non si limita a
impadronirsi di alcuni miti, come quelli di Edipo e di Narciso,
peraltro mediati dal filtro letterario; si noti l'importanza del testo
di Sofocle nella ricezione freudiana del mito: "l'azione della tragedia
non consiste in altro che nella rivelazione gradualmente approfondita e
ritardata ad arte - paragonabile al lavoro di una psicoanalisi - che
Edipo stesso è l'assassino di Laio, ma anche il figlio dell'assassinato
e di Giocasta" (Freud 1900; trad. it. 1967, p. 243). Troppo sovente è
stato posto l'accento sulla rivelazione, sul contenuto del mito
(parricidio e incesto); non bisognerebbe invece trascurare
l'espressione "gradualmente approfondita e ritardata ad arte", perché -
ha osservato J. Hillman - essa privilegia la forma, il modo di
esposizione. Il ritardo con cui il protagonista della storia accede
alla verità, e il conflitto tra cecità e visione, sono altrettanto
importanti del tema: almeno per i lettori attuali di Freud, e per la
teoria letteraria che a lui ha fatto riferimento negli ultimi decenni.
Una volta estesa al piano della forma, l'intersezione tra psicoanalisi
e letteratura tende però ad ampliarsi ulteriormente: a venire messo in
discussione è lo statuto epistemologico della psicoanalisi, e degli
strumenti di cui essa si serve. La distanza metalinguistica nei
confronti della letteratura sembra quasi svanire, nel momento in cui si
ammette - con le parole dello stesso Freud - che "le descrizioni in
psicologia possono farsi solo con l'aiuto di similitudini" (Freud 1926;
trad. it. 1978, p. 363). La psicoanalisi sarebbe dunque un'altra forma
di letteratura?
Quest'ipotesi trova oggi parecchi sostenitori, anche se non tutti sono
disposti a spingerla all'estremo. In ogni caso, per valutarne la
plausibilità e le possibili forzature è indispensabile una ricognizione
dell'opera di Freud, da cui essa trae origine. Il fondatore della
psicoanalisi era ben consapevole di aver inaugurato una scienza di
confine, oscillante non solo tra medicina e psicologia, cioè tra
l'ambito delle scienze naturali e quello delle scienze umane, ma anche
tra teoria e speculazione poetica. L'edificio freudiano cerca i propri
punti di sostegno nell'empiria dei dati, e nello stesso tempo appare
audacemente proteso nel vuoto: "Non si può avanzare di un passo se non
speculando, teorizzando, stavo per dire fantasticando, in termini
metapsicologici" (Freud 1937; trad. it. 1979, p. 69). E se è vero che
ogni nuova scienza non può fare a meno di ricorrere alle analogie e
alle metafore ai fini di una modellizzazione provvisoria del proprio
oggetto, va osservato che "nel caso della psicoanalisi l'indice di
metaforizzazione è particolarmente alto" (Lavagetto 1985, p. 123). Né
si può pensare che queste metafore siano destinate prima o poi a
trasformarsi in un'algebra (come avverrebbe, secondo M. Black, per
alcune metafore inaugurali della ricerca scientifica). Ma anche a
questo proposito Freud ha manifestato un'irresolutezza, che facilmente
può essergli rimproverata, oppure giudicata positivamente nella sua
fecondità. Da un lato egli auspica un avvicinamento sempre maggiore
della psicoanalisi alle scienze della natura, dall'altro afferma che le
similitudini e le metafore sono insopprimibili, e che lo studioso si
limiterà a sostituirle e ad avvicendarle.
La nuova scienza dei tropi fondata da Freud sarebbe dunque a sua volta
tropologica: essa si serve degli stessi meccanismi figurali (metafora,
metonimia, sineddoche ecc.) che insegna a riconoscere e a decifrare nel
proprio oggetto. Di nuovo, la distanza metalinguistica sembra
annullarsi in un gioco di trasformazioni e di riflessi. In realtà, la
questione è più complessa: la peculiarità della psicoanalisi consiste
nell'essere un 'sapere misto', per metà concettuale per metà figurale
(o tropologico). Tale carattere ibrido è destinato a suscitare le
resistenze di chi, anche dopo il tramonto degli ideali positivisti, è
affezionato a un'immagine della scienza come sapere omogeneo. Nondimeno
esso va compreso in tutta la ricchezza delle sue prospettive, senza
sopprimere la parte figurale ma senza rinunciare neppure alla parte
concettuale (come propone, in sostanza, Hillman). Per Hillman, la più
grave delle malattie di cui soffre la psicoanalisi è il letteralismo; e
la cura consisterebbe nel riorganizzare il materiale clinico mediante
l'arte narrativa e le metafore; l'obiettivo dell'analisi non è tanto
"conoscere se stessi" bensì cercare se stessi nel mito, là "dove gli
dei e gli uomini si incontrano" (Hillman 1983; trad. it. 1984, p. 63).
Il rapporto letteratura-psicoanalisi può essere approfondito esaminando
i modi in cui le tecniche interpretative sono state applicate al testo
letterario. Il carattere ibrido della teoria psicoanalitica offre un
filo conduttore per riconoscere lo stile delle diverse analisi.
Schematicamente, si possono distinguere due atteggiamenti: il primo,
letteralista e riduzionista, considera l'opera letteraria come un campo
di esemplificazione della teoria; il secondo, figuralista e strategico,
è indirizzato alla globalità del testo e alla sua eventuale densità.
Ai due tipi di atteggiamento ermeneutico non corrisponde esattamente
una scansione cronologica; tuttavia è indubbio che il primo
atteggiamento sia prevalso fino agli anni Sessanta, e risulti dominante
anche negli scritti dedicati da Freud e da Jung alla letteratura. I
limiti della critica psicoanalitica nella prima fase sono stati
sintetizzati da A. Serpieri; essa si rivolgeva a 'falsi bersagli', e
precisamente: a) leggeva il testo per psicanalizzare l'autore; b)
considerava il personaggio come un soggetto autonomo, illusoriamente
separato dall'unica vita che al personaggio fittizio compete, la vita
testuale; c) privilegiava alcuni schemi narrativi, intesi come replica
di complessi universali (soprattutto dell'Edipo) o di archetipi
relativamente disimpegnati dal quadro storico di riferimento (Serpieri
1982, p. 50). Si pensi al libro di M. Bonaparte su E.A. Poe (1933), a
quello di Ch. Baudouin su V. Hugo (1943) o al saggio su Il doppio di O.
Rank (1914); ma anche alle rapide incursioni di Freud nelle opere di
Shakespeare o di Dostoevskij. Il saggio sulla Gradiva offre invece
qualcosa di più: l'intenzione di un esame testuale relativamente
completo. È vero che Freud mira pur sempre a una conferma della propria
teoria; ma non mancano di farsi strada preoccupazioni di carattere
estetico. La psicoanalisi si mostra così in grado di fornire
chiarimenti preziosi sulla 'verosimiglianza' di un racconto per taluni
aspetti poco plausibile, e persino sulla necessità di alcune scelte
stilistiche (per es., la preferenza di J.V. Jensen per i doppi sensi).
Non saranno tuttavia gli scritti esplicitamente dedicati all'arte a
suscitare l'interesse degli studiosi di Freud nella seconda fase, bensì
L'interpretazione dei sogni (1900) e il Motto di spirito (1905).
Un sogno, un lapsus, un motto di spirito sono delle costruzioni
linguistiche, dunque dei testi. La linguistica moderna considera i
testi come messaggi resi possibili da un insieme di regole, cioè da una
langue (F. de Saussure), da un codice (R. Jakobson), da una competence
(N. Chomsky). Queste tre nozioni possono venir considerate equivalenti
solo con larga approssimazione, ma, senza dubbio, convergono su un
punto: indicano uno spazio omogeneo, dove unità che appartengono a
ordini diversi (la fonologia, la sintassi o la semantica) sono comunque
unità dai confini precisi, e le cui modalità di combinazione sono
descrivibili e suscettibili di controllo. Naturalmente un testo può
essere il risultato della combinazione tra più codici (per es. il
genere melodrammatico e la scrittura realistica in Gobseck di Balzac),
ma, se è governato da regole dello stesso tipo, da regole omogenee,
apparirà del tutto accessibile per le scienze del linguaggio. Invece il
sogno, il lapsus, il motto di spirito sono 'formazioni di compromesso'
non tra codici diversi e omogenei, bensì tra modalità linguistiche
eterogenee. Il linguaggio dell'inconscio e quello della coscienza
presentano infatti modi incompatibili di articolare le proprie unità, e
di collegarle tra di loro. Si potrà parlare anche di due logiche, o di
due retoriche: l'inconscio ha un funzionamento confusivo,
caratterizzato cioè dall'instabilità assoluta delle proprie unità e
dall'estrema facilità con cui ciascuna di esse viene trasformata in
un'altra. Questo principio di metamorfosi è governato principalmente da
due grandi leggi, che Freud chiama 'condensazione' e 'spostamento'. Dal
punto di vista linguistico, la sfera cosciente è invece dominata da un
modo di funzionamento separativo: le sue unità appaiono ben delimitate,
il fenomeno della polisemia è sempre sotto controllo, le inferenze
vengono riconosciute nella loro correttezza o scorrettezza sulla base
di una serie di principi definiti, per la prima volta, nell'Organon di
Aristotele.
Il rapporto tra le due modalità di pensiero (Jung le chiamerà "il
pensare indirizzato e il sognare, o fantasticare") è conflittuale: la
necessità di un adattamento al mondo esterno finisce col favorire il
primato della modalità 'razionale'. La modalità confusiva e onirica
viene allontanata, sospinta verso profondità difficilmente accessibili;
perciò ogni formazione di compromesso appare come una formazione
testuale a due livelli, uno manifesto e uno latente. Tende così a
imporsi l'immagine di una costruzione a due piani, in cui quello
superiore rappresenta una facciata ingannevole, mentre la verità
sarebbe contenuta in quello inferiore. Quest'immagine non corrisponde
al nucleo più vitale della teoria psicoanalitica, e tuttavia è riuscita
per molto tempo a prevalere. Bisogna ammettere che Freud e Jung
utilizzano sovente, e non soltanto con finalità didascaliche,
un'ermeneutica semplice, cioè una tecnica di decifrazione elementare
('x vuol dire y'). Ma Freud non ha mai detto che i pensieri latenti,
ricavati mediante le associazioni libere, siano la 'verità' del sogno,
il vero messaggio in esso celato; al contrario, ha sempre affermato che
il significato di un sogno va cercato nel lavoro onirico, cioè in
operazioni di trasformazione. Il latente, in effetti, non è il
nascosto; "il latente è l'implicito, vale a dire il manifesto -
presente nella cosa detta e non dietro di essa - che non abbiamo saputo
vedere a prima vista. Il latente è un'evidenza che attende di essere
posta in evidenza" (Starobinski 1966; trad. it. 1975, p. 316).
Il valore modellizzante dell'interpretazione del sogno o del motto di
spirito in relazione all'opera d'arte viene dunque riproposto, a
partire dagli anni Sessanta, alla luce di nuovi principi. Interpretare
significa adesso: a) rispettare la globalità di un testo; b) analizzare
l'implicito, e non decifrare o scoprire un segreto; c) scomporre
l'eterogeneità, l'intreccio tra modalità di pensiero incompatibili e
che tuttavia hanno trovato un 'compromesso'. Un testo non è altro che
la sua superficie, ma questa superficie può essere caratterizzata in
molti casi (quelli che interessano la psicoanalisi) come densa. Altra
cosa è vedere con quali strumenti si può analizzare la densità.
Una risposta aveva già iniziato a delinearsi nel decennio precedente,
grazie a J. Lacan e a due grandi linguisti, R. Jakobson ed E.
Benveniste. La tesi lacaniana per cui l'inconscio sarebbe strutturato
come un linguaggio contiene sin dall'inizio un rinvio alla retorica:
"si possono riconoscere, nel modo più inatteso, nell'elaborazione dei
più originali fenomeni dell'inconscio, sogni e sintomi, le figure
stesse della desueta retorica, che qualora usate mostrano di saperne
dare le più fini specificazioni" (Lacan 1966; trad. it. 1974, p. 355).
In una conferenza del 1954 Jakobson aveva indicato la possibilità di
collegare i due grandi procedimenti freudiani, condensazione e
spostamento, con le tecniche della metafora e della metonimia, oltre
che con i due grandi assi del linguaggio, nella concezione di Saussure.
Per quanto schematica ed equivoca, la proposta di Jakobson ha avuto
un'enorme fortuna nel campo degli studi linguistici e letterari, e ha
contribuito a rafforzare l'impostazione lacaniana. Anche per Benveniste
l'inconscio parla un linguaggio dominato dai meccanismi tropologici già
descritti, sia pure approssimativamente, dalla retorica antica.
L'affermarsi dello strutturalismo, che nella linguistica scorge la
scienza-modello, il fiorire di una nuova retorica (Ch. Perelman, il
Gruppo di Liegi, R. Barthes, G. Genette ecc.) fanno apparire
estremamente proficuo il dialogo tra psicoanalisi, scienze del
linguaggio e teoria letteraria.
Nel corso degli anni Cinquanta, per la retorica si delinea la fine di
un duplice esilio, aletico e testuale. Da molti secoli l'arte della
parola era stata allontanata dai luoghi della verità, e considerata un
non-sapere (è il giudizio di Socrate e Platone) oppure un insieme di
tecniche soltanto persuasive (è il giudizio di Aristotele). A partire
da un celebre articolo di Black (1954), la metafora viene invece
riscoperta nelle sue potenzialità cognitive: il suo funzionamento è
paragonabile a quello dei modelli scientifici, rispetto ai quali svolge
sovente un ruolo inaugurale (per es. la metafora del mondo come
macchina, in Galileo e Descartes, apre la via alla matematizzazione
della natura). Il progetto di una retorica cognitiva, da Black a P.
Ricoeur, ridimensiona ma ovviamente non annulla l'importanza del
Trattato dell'argomentazione, in cui Perelman restituisce piena dignità
alle tecniche di persuasione. Più complicate le vicende della retorica
in relazione ai testi. Da questo punto di vista la storia della
retorica è, come ha detto Genette, quella di una restrizione
progressiva. Nata come una teoria testuale completa (inventio,
dispositio, elocutio, sono i tre momenti di generazione di un discorso,
la cui esecuzione dipende ancora dalla memoria e dall'actio), la
retorica viene confinata nella selva dell'elocutio, cioè delle tecniche
ornamentali, a partire dal 17° sec.: il dibattito sul metodo
scientifico, strettamente collegato all'espansione delle moderne
scienze della natura, proietta una luce negativa sugli artifici della
retorica e sulla sua sovrabbondanza ornamentale. Berkeley dirà che un
filosofo dovrebbe astenersi dalle metafore. La cultura romantica darà
il colpo di grazia, seppure con motivazioni opposte, alla retorica come
elocutio: 'troppo creativa' per lo spirito scientifico, la retorica lo
è troppo poco per una cultura che esalta il genio e la fantasia
dell'individuo. Per tutti questi motivi la linguistica e la retorica
utilizzate nella Traumdeutung o nel libro sul Witz sfuggivano alla
percezione del loro stesso autore, e hanno dovuto attendere alcuni
decenni prima di essere riconosciute nel loro valore epistemologico.
È l'interesse per il linguaggio a suscitare una straordinaria crescita
di attenzione per l'opera di Freud, anche in modo indipendente dalla
mediazione lacaniana. Se Jung non riceve in questo periodo gli stessi
consensi da parte degli studiosi di l., è perché si ritiene che egli
abbia privilegiato la trama labirintica degli archetipi rispetto alla
molteplicità dei meccanismi figurali. Basti pensare alle differenze tra
le rispettive teorie del sogno: la convinzione che il sogno non sia una
facciata o un inganno, e che contenga la propria interpretazione,
conduce di fatto Jung, come ha osservato il suo allievo Baudouin, a
privilegiare nettamente la condensazione rispetto allo spostamento
(Baudouin 1963; trad. it. 1978, p. 81). Questo implica un'attenzione
prevalente verso le tecniche analogiche, inevitabilmente enfatizzate
anche dalla ricerca di somiglianze tra i sogni che compongono una
serie. La teoria di Jung non risulta dunque estranea all'ipotesi di uno
statuto retorico dell'inconscio, ma sembra fare riferimento a una
'retorica ristretta', e comunque più monotona di quella freudiana.
Forse è questo il limite maggiormente avvertito dai lettori
contemporanei, un limite più importante che non l'astoricità degli
archetipi (oggetto di critiche troppo disinvolte e facili). In ogni
caso, il confronto tra i due grandi maestri della psicoanalisi merita
di venir condotto - e così avviene oggi - con una disponibilità che per
troppo tempo è mancata, e con la volontà di comprendere le virtualità
delle differenti prospettive. Non si può, per es., dimenticare che la
scuola junghiana ha reso possibile una critica tematica in grado di
raggiungere con G. Bachelard, N. Frye e G. Durand risultati di grande
valore.
Termini come 'archetipo' e 'simbolo' presentano in questi autori
variazioni di significato non trascurabili rispetto alla concezione
junghiana; tuttavia le affinità sembrano più rilevanti. Decisivo è il
modo di intendere le immagini: la loro natura non è derivativa in
rapporto all'esperienza, ma è fondativa. Il potere delle immagini
(primordiali) è testimoniato dalla loro capacità di metamorfosi, che è
principio di vita e di senso. Là dove la metamorfosi si arresta,
l'immagine si irrigidisce, il simbolo si svuota e si letteralizza. Il
grande conflitto, per questi autori, si svolge tra energia figurale e
letteralismo, tra la capacità della mitologia e della metafora di
fecondare l'intero campo dell'immaginazione e l'estenuarsi del
dinamismo psichico in forme stereotipate e false (facilmente preda
dell'ideologia). Frye, per es., dirà che la funzione della letteratura
è alimentare "l'abitudine al pensiero metaforico" (Frye 1985; trad. it.
1989, p. 38). I grandi testi letterari offrono occasioni insostituibili
per l'esplorazione del Sé.
Molto schematicamente, si potrebbe dire che il pensiero freudiano è
attratto dal principio narrativo almeno quanto il pensiero junghiano è
attratto dal principio allegorico. Non è un caso che ad analizzare
L'asino d'oro di Apuleio siano stati soprattutto gli junghiani (E.
Neumann, L. von Franz, Hillman, A. Carotenuto): si tratta di un testo
che contiene una serie di peripezie, scandite linearmente, e dove
tuttavia il percorso s'infrange e s'inabissa in un racconto - la
meravigliosa favola di Eros e Psiche - che gli fa da specchio. Grazie
alla mise en abyme, quello che appariva come un romanzo picaresco si
trasforma in un'avventura iniziatica. Ciò che conta, in questo romanzo,
non sono tanto i nessi che formano la concatenazione narrativa, quanto
le immagini archetipiche che emergono nella vita dei personaggi. Ma
anche quando costruisce storie, cioè quando narra la storia dei suoi
pazienti, Jung tende più a moltiplicare le possibilità e le risonanze
semantiche che non a selezionarle in funzione della necessità di una
trama. "I casi di Jung intrecciano molti fili colorati ma estranei; non
rendono la lettura eccitante come quella di Freud, proprio perché la
sua trama ha una logica meno selettiva, e quindi è meno ineluttabile"
(Hillman 1983; trad. it. 1984, pp. 11-12). Lo stile narrativo di Freud
è stato invece accostato a quello dei grandi inventori della detective
story (Poe e Conan Doyle). L'attenzione ai piccoli indizi, ai dettagli
apparentemente trascurabili, prepara la ricostruzione minuziosa di un
puzzle in cui ogni elemento dovrà venir collocato al proprio posto.
All'analisi di un racconto poliziesco, La lettera rubata di Poe, Lacan
ha affidato un ruolo inaugurale nella silloge degli Écrits. Che si
tratti di una scelta estremamente significativa, è stato riconosciuto
anche da chi, come J. Derrida, ne ha preso spunto per riproporre, in
una veste filosoficamente raffinata, tutti i sospetti che sin
dall'inizio sono stati espressi verso l'analisi psicoanalitica delle
opere letterarie. Per quanto assai stimolante, la querelle avviata da
Derrida nasce da un misconoscimento nei riguardi della teoria lacaniana
dei registri, cioè della distinzione tra Immaginario, Simbolico, Reale:
l'obiettivo di Lacan era mostrare lo scivolamento incessante da un
registro all'altro da parte dei diversi personaggi, che in tal modo
manifestano la signoria della lettera, cioè la supremazia del
significante. Se si ammette la possibilità di intendere i registri
lacaniani come regimi di senso, cioè famiglie di stili, l'essenzialità
del nesso retorica-psicoanalisi riceve un'ulteriore e decisiva conferma
(cfr. Bottiroli 1997).
Un rapido sguardo al panorama critico degli ultimi trent'anni potrebbe
iniziare dal tentativo più ambizioso di inserire il lacanismo nella
teoria letteraria: con La révolution du langage poétique (1974), J.
Kristeva offre un'immagine conflittuale e ibrida della letteratura in
quanto linguaggio abitato e conteso da due regimi, il semiotico e il
simbolico. Il semiotico è il regno delle pulsioni, ma sulla via di
diventare 'significanti'; esso tende a imporre la propria logica
(spostamento, condensazione, ma anche frammentazione) al simbolico,
cioè alla sfera delle istituzioni e della cultura. La letteratura ha
dunque di fronte a sé due vie. Chi rifiuta gli imperativi della
sublimazione, tenterà di lacerare i segni, e di far scorrere nelle
brecce del testo un'energia ingovernabile e dimenticata. All'arte viene
così riconosciuta una potenzialità trasgressiva, tanto più rilevante in
quanto indirizzata non al livello esplicito delle rappresentazioni
ideologiche bensì ai meccanismi da cui dipende il dressage pulsionale.
La ribellione all'Ordine del Linguaggio prefigura una condizione in cui
le pratiche di potere non riescono più a rendere plausibili i principi
di univocità e di gerarchia, e in cui la lingua, che è 'fascista' (così
si esprimerà iperbolicamente Barthes, 1977), viene sovvertita in modo
permanente. Un'idea analoga di letteratura come trasgressione ispira il
progetto, decisamente più sobrio, di F. Orlando: la grande letteratura
è quella che non tralascia di cedere la parola al nemico, cioè al
rimosso. Nel modello di Orlando, che possiamo definire neo-freudiano
(l'influenza di Lacan è indiscutibile quanto indiretta), l'attenzione è
rivolta prevalentemente ai meccanismi formali mediante cui il represso
partecipa alla costruzione dei testi. Il ritorno del represso formale
nell'opera d'arte è riconoscibile grazie al tasso di figuralità che in
essa si manifesta, e che, mantenuto entro limiti di prudenza nelle
opere più codificate, può crescere sino a minacciare la possibilità
stessa di una comunicazione col pubblico. La grande opera d'arte sarà
un 'compromesso' tra le istanze dell'inconscio e le istituzioni
sociali, tra il linguaggio del desiderio e la necessità di una censura.
Necessità che un altro raffinato esponente della linea neo-freudiana,
M. Lavagetto, invita a considerare non come una sorta di argine, di
barriera statica, e neppure solo come un'attività di cancellatura.
Diversamente dalla rimozione, la censura è anche espansiva: "non opera
solo con tagli e omissioni, ma è responsabile di interpolazioni e
arricchimenti" (Freud 1900; trad. it. 1967, p. 448; Lavagetto 1985, p.
336).
A Freud, dunque, si continua a 'ritornare': per il fascino della sua
scrittura ("leggiamo Freud non come leggiamo Jung o Rank, Abraham o
Ferenczi, ma come leggiamo Proust o Joyce, Valéry o Rilke o Stevens":
Bloom 1982; trad. it. 1985, p. 101), e comunque con una relativa
indifferenza per quanto riguarda la 'scientificità' della psicoanalisi
e le sue potenzialità terapeutiche. Ci sono sicuramente aspetti della
teoria freudiana suscettibili di venir smentiti, corretti, o
notevolmente trasformati; ciò che non è invecchiato - in quanto
appartiene a un ritmo temporale del tutto diverso - è la mitologia di
Freud, il tessuto camaleontico delle sue metafore, il suggerimento di
un masterplot (Brooks 1984), di una trama maestra dell'esistenza che
non è semplicemente un messaggio di saggezza ma una potente euristica.
In questa esplorazione delle possibilità necessarie della nostra
esistenza, dei nostri non ineluttabili destini, la psicoanalisi è meno
una scienza che non la ripetizione - non tautologica - di ciò che
sapevano i poeti.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it