Memoria nella psicoanalisi
La psicoanalisi indaga le
modalità con cui la mente conserva, modifica, rievoca le tracce delle
esperienze percettive del passato; ma soprattutto analizza i meccanismi
psichici che si oppongono al ricordo: la rimozione, che respinge
nell’inconscio i contenuti ideativi colpevolizzati o angosciosi; il
rimosso primario (o inconscio non rimosso) costituito da un nucleo di
rappresentazioni che non hanno mai avuto accesso alla coscienza e non
sono mai state registrate come tracce mnestiche. Due concetti
freudiani, rivisitati e arricchiti dalla psicoanalisi moderna,
rivestono una precipua utilità teorica e clinica in materia di memoria.
Uno è quello dell’effetto retroattivo, cioè di risignificazione a
posteriori degli eventi del passato; l’altro è quello delle
trascrizioni, basato sull’idea che la memoria non sia presente in forma
univoca, ma molteplice e venga fissata in diversi tipi di segni. I
ricordi cioè non convergono in un unico scenario globale; mutano a
seconda del contesto, della catena associativa implicata, del tono
affettivo. Sono conservati in diverse ‘versioni’ non unificabili a vari
piani di coscienza. [➔ apprendimento; difesa, meccanismi di; memoria;
narcisismo; plasticità neurale; rimozione] Il concetto di memoria in
psicoanalisi non si discosta dall’accezione corrente, cioè quella
relativa alla capacità di conservare nella mente tracce di esperienze
passate. La psicoanalisi nasce proprio con il problema del ricordo (i
pazienti nevrotici «soffrono di reminiscenze», scriveva Sigmund Freud)
o, più precisamente, con l’analisi dei meccanismi psichici che regolano
l’arte di dimenticare: innanzitutto la rimozione (➔), che ricaccia
nell’inconscio (➔) i contenuti ideativi colpevolizzati o angosciosi
senza però privarli del loro oscuro potere.
L’arte di dimenticare
La rimozione è il caposaldo della psicoanalisi delle origini, quale
strategia patologica di soluzione del conflitto: il contenuto ideativo
inquietante viene scacciato, rimosso appunto, dalla coscienza. Tuttavia
ciò che scompare dai livelli consci non scompare dalla psiche, anzi
continua a esercitare la sua potenza al di fuori del nostro controllo.
Così, la rappresentazione mnestica non si può rievocare, anche se
l’affetto a essa connesso rimane attivo – per es. sotto forma di
angoscia (➔) – e produce quei diversi tipi di legame ‘improprio’ che
condizionano il destino delle manifestazioni nevrotiche. Così
l’angoscia si lega ad altri oggetti o situazioni (come nelle fobie) che
non hanno niente a che fare con la vera causa inconscia. Secondo un ben
noto paradosso, l’oblio è il modo più sicuro di conservare intatte
certe memorie, come corpi imprigionati nel ghiaccio. Ciò che è rimosso
nell’inconscio senza tempo non evolve, non entra nella rete associativa
e continua a determinarci. Nell’epoca eroica della psicoanalisi si
pensava che la guarigione coincidesse con la cosiddetta abreazione,
ossia con la scarica emotiva catartica connessa al recupero del ricordo
dell’evento traumatico, e che la cura consistesse nel favorire il
ritorno del rimosso, nel ridare diritto di cittadinanza nella coscienza
al contenuto ideativo fonte del conflitto. Tale semplificazione, più
‘idraulica’ che psicodinamica, ancora oggi sopravvive nella vulgata
psicoanalitica; ma già Freud sottolineava che la metafora topografica
non basta per rendere ragione della complessità dei processi mnestici.
Sempre più la psicoanalisi deve interrogarsi oggi non solo circa gli
andirivieni dei contenuti della memoria tra i vari livelli di
coscienza, ma anche circa le ragioni per cui determinati eventi della
vita non si iscrivono fin dall’origine nella mente come ricordi. Per
es., l’esperienza clinica ci mostra che il narcisismo (➔) si oppone al
ricordo, poiché chi è troppo concentrato su sé stesso non riesce a
‘investire’ sufficientemente di attenzione e di libido il mondo
esterno. La questione della memorizzazione, dunque, se si tiene conto
della dimensione psicoanalitica, non è né semplice né lineare.
L’attacco alla memoria non proviene solo dalla rimozione, che ne mutila
l’integrità relegando nell’inconscio intere aree conflittuali, ma anche
la scissione, il diniego e – in buona seppure diversa misura – tutti
gli altri meccanismi di difesa (➔) deputati a proteggere l’Io dalla
penosa esperienza dell’angoscia e dalla paura del crollo psichico
sacrificano sempre quote di realtà e quindi di memoria. Forze potenti
si oppongono come resistenze alla comunicazione interpersonale e
intrapsichica dei ricordi. Non solo nella patologia, ma nella normale
quotidianità, i processi psichici si adoperano a tener lontano dalla
mente fantasie e relativi vissuti, perché dolorosi o banalmente
ingombranti per il buon funzionamento globale. Nell’economia della
memoria è infatti necessario un dinamico equilibrio di entrate e di
uscite, di redistribuzione e riorganizzazione continua: non solo
accumulo, ma anche selezione e smaltimento. Sul terreno della
costruzione, ricostruzione, conservazione e trasmissione delle memorie
si intrecciano dunque tutti i più importanti processi dello psichismo:
contenuti ideativi e cognitivi, stati affettivi, stili relazionali, al
confine tra la norma e la patologia.
Risignificazione a posteriori e trascrizioni
Altri due concetti freudiani, rivisitati e arricchiti dalla
psicoanalisi moderna, rivestono una precipua utilità teorica e clinica
in materia di memoria. Uno è quello di risignificazione a posteriori o
effetto retroattivo (Nachträglicheit), che indica la tendenza
dell’apparato psichico a ridefinire a posteriori il significato di
eventi passati, avvenuti in epoche nelle quali la mente non era ancora
in grado di conferire loro un senso adeguato. L’esempio classico è
quello di una molestia sessuale subita da un bambino, che prende il suo
significato di seduzione e violenza solo anni dopo l’evento reale. Un
altro caso, che continuamente si verifica nel trattamento analitico, è
quello di un trauma (➔ trauma psichico) precoce – per es., la morte di
una persona cara – verificatosi in epoca preverbale, che assume un
senso memorizzabile solo in seguito a un nuovo evento attuale minore,
per es. una separazione, il quale – grazie alla raggiunta maturità
psichica e all’elaborazione del momento attuale – si carica di tutto il
dolore di un lutto a suo tempo non vissuto. Così il passato determina
il presente, ma a sua volta il presente può determinare il passato,
corredandolo di rappresentazioni e costituendolo di significato. Nella
situazione della terapia psicoanalitica il transfert (➔) stesso,
d’altronde, è intriso di memorie inconsapevoli: si agiscono nel
rapporto con lo psicoanalista schemi relazionali di antiche passioni,
invece di ricordarle ed è il gioco di transfert e controtransfert che
può non solo modificare il presente e il futuro, ma gettare nuova luce
sul passato. Il secondo concetto chiave è quello di trascrizione: «Sto
lavorando all’ipotesi che il nostro meccanismo psichico si sia formato
mediante un processo di stratificazione: il materiale di tracce
mnestiche esistente è di tanto in tanto sottoposto a una risistemazione
in base a nuove relazioni, a una sorta di riscrittura. La novità
essenziale della mia teoria sta dunque nella tesi che la memoria non
sia presente in forma univoca, ma molteplice e venga fissata in diversi
tipi di segni». Questo brano, di una lettera di Freud a Wilhelm Fliess
del 1896, è una brillante sintesi delle concezioni psicoanaltiche su
memoria e oblio. I ricordi, dunque, non convergono in un unico scenario
globale; mutano a seconda del contesto, della catena associativa
implicata, del tono affettivo. Sono conservati in diverse versioni non
unificabili a vari piani di coscienza. I nostri souvenirs non
somigliano a una sorta di archivio che custodisce documenti ingialliti,
ma sono materia viva, in continua riorganizzazione e trasformazione,
inevitabilmente infedele, in quanto matrice di sempre nuovi significati.
Memoria come rappresentazione
La complessità del processo di edificazione del mondo interno, dei
meccanismi e dei contenuti che si fanno e si disfano nei vari sistemi
psichici, a partire dalle fisiologiche esperienze di sensazioni,
appercezioni, percezioni non consente una sistemazione teorica netta e
definitiva in psicoanalisi. Nel testo freudiano la distinzione fra
immagine, idea, traccia mnestica, tra immagine mnestica come
registrazione dell’esperienza percettiva e rappresentazione come
investimento della traccia mnestica non è mai posta in modo perentorio.
Anche dopo Freud la maggioranza degli psicoanalisti usa questi termini
e talora anche altri concetti, quali icona o contenuto ideativo, in
modo intercambiabile, senza differenziarne le connotazioni
metapsicologiche. La rappresentazione, in sintesi, è «la riproduzione
di una percezione precedente» come scrivono Jean Laplanche e
Jean-Bertrand Pontalis nella Enciclopedia della psicoanalisi (1967); è
«ciò che mette la mente in grado di presentare a sé stessa l’immagine
di qualcosa (di qualunque cosa) non attualmente presente» secondo il
Dizionario critico di psicoanalisi di Charles Rycroft (1968). La
rappresentazione della quale tratta Freud non si discosta dunque
inizialmente dall’accezione classica – in filosofia e in psicologia –
di rievocazione nella mente di una percezione precedente: riproduttiva,
ma anche creativa. Il termine rappresentazione si presta felicemente a
descrivere l’attività della mente, perché evoca la ‘messa in scena’,
secondo una più che metaforica allusione alla qualità teatrale del
pensiero: costruzione e ricostruzione mnemonica dello spazio scenico,
della luce e del punto di vista. I nostri ricordi sono costituiti
necessariamente da immagini organizzate secondo principi ‘scenici’. Per
es., il primo ricordo della nostra vita, come pure i cosiddetti ricordi
schermo (deformazioni al tempo stesso difensive e creative di
esperienze del passato, che hanno una fortissima connotazione di
verità, seppure siano oggettivamente irrealistiche) hanno spesso una
qualità immaginifica luminosa, pittorica; si configurano spesso,
inoltre, secondo un punto di vista impossibile. Per es., ricordiamo
l’immagine di noi stessi visualizzata da fuori e dall’alto, come in un
campo lungo di ripresa cinematografica. La parola immagine evoca una
qualità visiva, che è effettivamente prevalente, ma – come sappiamo
anche intuitivamente – ogni ricordo ha anche componenti uditive,
olfattive, gustative, tattili, propriocettive. Ogni rappresentazione,
infatti, è sempre eterogenea, al centro di una costellazione
associativa mista polisensoriale. La psicoanalisi, peraltro, fin dalle
origini, non si interessa tanto a come si formano i ricordi, quanto a
come si deformano o vengono esclusi dal circuito della coscienza e
della comunicazione.
L’inconscio non rimosso
Non tutto ciò che non ha diritto di cittadinanza nel nostro patrimonio
mnemonico è frutto della rimozione. Ci sono eventi della vita che non
vengono inscritti fin dall’origine nel tessuto psichico; fatti che non
diventano esperienze. Per es., il rimosso primario – o inconscio non
rimosso – sarebbe costituito da un nucleo di rappresentazioni che non
hanno mai avuto accesso alla coscienza e alle quali la pulsione
rimarrebbe legata. Oggi – in armonia con quanto sappiamo delle epoche
precoci, cosiddette preverbali – dobbiamo pensare che nell’ambito del
rimosso primario possano convergere non solo e non tanto
rappresentazioni, ma anche contenuti mentali primitivi
prerappresentativi e presimbolici: affetti, memorie sensoriali
psicofisiche, protofantasie. Ciò è tra l’altro facilmente conciliabile
con le recenti acquisizioni delle neuroscienze, che segnalano
l’impossibilità fisiologica, per immaturità del substrato neurale, di
trattenere nella memoria tutti i ricordi in forma episodica relativi a
esperienze delle prime epoche della vita. Queste memorie ‘impossibili’
dell’infanzia – sia per immaturità dell’organizzazione psicofisica,
della rete neuronale ai livelli precoci della vita, sia per intrinseca
qualità traumatica di un evento troppo violento o comunque troppo forte
per la capacità del soggetto di comprenderlo e contenerlo –, lasciano
tuttavia una traccia, un segno che si può manifestare come una sorta di
vuoto, un buco del tessuto psichico. Sono ipotesi conciliabili da un
lato con l’antica tradizione filosofica, da Platone a Giovambattista
Vico, dall’altro con i risultati delle ricerche empiriche più recenti
delle neuroscienze. Possiamo,per es., far ‘dialogare’ il concetto
neurologico di «marcatori somatici» di Antonio R. Damasio (1994) –
quali stati corporei che contrassegnano una immagine mentale – con
quello psicoanalitico di «fantasie difensive precoci» di Eugenio
Gaddini (1981) – forme rudimentali del pensiero come registrazioni
mnestiche di cambiamenti di stati corporei.
Memoria e neuroscienze
Il panorama cangiante e poliedrico dei processi di memoria dal punto di
vista della psicoanalisi si incontra oggi felicemente con le più
recenti acquisizioni delle neuroscienze e con le loro minuziose
tassonomie (➔ memoria). È oggi accertato che ci sono tanti tipi di
memoria (iconica, a breve e a lungo termine, implicita ed esplicita,
semantica ed episodica, ecc.) processati in diversi sistemi cerebrali,
che talora operano in interazione, talora indipendentemente gli uni
dagli altri. Sembra così che la regione dell’ippocampo (➔) sia deputata
alla codificazione, conservazione e recupero della memoria a lungo
termine; mentre le memorie attuali sarebbero conservate nel sito
corticale coinvolto originariamente nell’esperienza. E ancora, le
impressioni visive si situerebbero nel lobo occipitale e nel lobo
temporale inferiore deputati alla visione. Non si deve però dimenticare
che questi dati neurologici non sono di immediata fruibilità nel campo
psicoanalitico e, soprattutto, non se ne possono trarre vantaggi
clinici immediati. Occorre molta cautela, per es., circa il tentativo
di distinguere i ricordi ‘veri’ da quelli ‘falsi’ – indotti da fantasie
di supposti abusi sessuali subiti nell’infanzia – tramite la
registrazione delle relative neuroimmagini che farebbero capo ad aree
cerebrali diverse. Una ancor più scrupolosa attenzione critica
metodologica occorre circa la valutazione di sostanze farmacologiche,
della famiglia dei neurotrasmettitori, che potrebbero essere in grado
di impedire l’iscrizione di memorie traumatiche in determinate aree
cerebrali. L’ipotesi è nata in ordine ai cosiddetti stress post
traumatici, prevalentemente durante esperienze di guerra, e mirerebbe a
eliminare alla radice il ricordo e i sentimenti penosi di ansia e senso
di colpa connessi. Meno immediatamente fruibili e metodologicamente più
problematiche anche alcune ulteriori speculazioni relative al
cosiddetto transgenerazionale.
Memoria transgenerazionale
La classica strategia della psicoanalisi è quella di ricercare
nell’infanzia, nel tempo remoto individuale (talora addirittura, non
senza qualche azzardo metodologico, nel passato transindividuale: la
filogenesi secondo Freud, gli archetipi di Carl G. Jung, le
preconcezioni di Wilfred Bion) le ragioni del presente adulto. Ma da
qualche tempo si è affermata una ulteriore ipotesi: che talora le cause
di alcuni nodi problematici di un paziente vadano ricercate non nel suo
proprio passato, ma nell’inconscio non rimosso dei genitori o
addirittura dei nonni: inceppi nel processo di maturazione, tracce
senza memoria che rappresentano lo scomodo lascito di un evento subito
dai nostri avi. Al di qua delle nostre intenzioni consapevoli,
affidiamo ai nostri eredi anche ‘materiali’ per mezzo di
identificazioni, imitazioni, introiezioni, stili affettivi a livelli
inconsci e non verbali. Anzi, la comunicazione transgenerazionale è più
intensa e profonda proprio quando avviene per via inconscia, nella rete
emotiva delle relazioni primarie. Secondo tale concettualizzazione, si
può trasmettere involontariamente a un’altra persona, a un’altra
generazione, un ricordo che non è mai stato rappresentato nella propria
mente. Clinicamente, si riscontrano nei pazienti ricordi dei quali non
si è fatta esperienza, i quali, più che trasmettersi, si diffondono da
genitori a figli come elementi estranei perturbanti, ricordi non
integrati che si manifestano in forma di sintomi, acting-out, coazioni
a ripetere. Gli esempi clinici hanno per lo più a che fare con episodi
di violenza estrema, lutti patologici che – proprio perché non
elaborabili da chi li ha vissuti – vengono trasferiti inconsapevolmente
alle nuove generazioni, come un amaro inconsapevole fardello. Non c’è
nulla di magico in questa vicissitudine, poiché ciò che viene assorbito
dai figli e dai nipoti – prevalentemente nelle epoche della prima
infanzia, quando si è maggiormente esposti alle influenze emotive
perché non sono ancora ben saldi i confini tra sé e l’altro – non è
tanto un contenuto quanto uno stato affettivo psicofisico. La
peculiarità del transgenerazionale è connessa a riscontri clinici
penosi, legati a storie familiari cariche d’angoscia, come quelle
relative alla persecuzione razziale e alla morte.
Così, il ‘secondo tempo’ della risignificazione retroattiva del trauma,
che non si è potuto inscrivere a suo tempo come ricordo, avverrebbe
talvolta non nella mente del protagonista ma nella dimensione
intrapsichica di un suo postero, ignaro depositario del penoso lascito.
Affinché sia possibile finalmente dare una forma di raffigurabilità e
di comunicabilità al drammatico evento del passato, è essenziale,
evidentemente, se il soggetto è in trattamento terapeutico, la
disponibilità dello psicoanalista a lasciarsi a sua volta ‘colonizzare’
da questa sorta di corpo estraneo emotivo, per poi restituirlo al suo
paziente. La casistica clinica parla prevalentemente di eventi tragici,
di sofferenze traumatiche, ma è ragionevole pensare che tali processi
di trasmissione ereditaria del non pensato e del non memorizzato sotto
forma di ricordo raffigurabile, avvengano anche per contenuti meno
drammatici, positivi, al confine tra il corporeo e il mentale: la
postura, il tono della voce, l’accento della madre lingua, la struttura
del carattere, la fiducia di base; tutti elementi che nella maggior
parte dei casi restano silenti. La trasmissione transgenerazionale può
renderci vittime passive dei nostri avi, ma può anche essere posta al
servizio di legami fruttuosi e di una continuità affettiva con i nostri
oggetti primari, con la loro storia e la loro cultura. Così l’ombra del
passato si intreccia dall’intrapsichico all’interpersonale, in una
ricerca di senso che talora approda all’elaborazione strutturante,
talora mantiene la qualità malefica del corpo estraneo e della coazione
a ripetere da genitore a figlio.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it