pastore



Forse non è un caso che il primo poeta greco che
inserisce una favola nei suoi versi (L’usignolo e lo sparviero, nel poema Le opere e i giorni, vv. 202 ss.) sia Esiodo, pastore e agricoltore della Beozia, vissuto probabilmente tra l’VIII e il VII secolo a.C.: mentre porta a pascolare le sue pecore, riceve la visita delle Muse, che gli insegnano un bel canto. Lo stesso Esiodo sottolinea spesso il primato dell’etica del duro lavoro legato alla terra. Successivamente, il tema della pastorizia, e più in generale dell’allevamento, spesso connesso a quello più ampio dell’agricoltura, ritorna, con una connotazione puntualmente positiva, in diversi contesti letterari, come nella filosofia: Platone pone la pastorizia tra le attività che
costituiscono la base economica della città ideale, alle quali il legislatore deve porre mano (Leggi 842c); lo stesso Aristotele inserisce l’allevamento nella crematistica naturale, ossia quella serie di attività che soddisfano i bisogni primari, secondo natura (Politica 1258a). Ma la figura del pastore nel mondo antico incide anche sulla sensibilità dei poeti. In età ellenistica, Teocrito, che sarà ripreso da Virgilio nelle Bucoliche, tende a un processo di idealizzazione della figura del pastore, che nei suoi Idilli appare impegnato anche nel canto poetico. Nel mondo
romano, il passaggio dalla primitiva economia pastorale all’economia agricola è ritenuto «un progresso economico e civile» (Merlo 137 n. 23). Del resto, le due attività vanno a integrarsi reciprocamente. Così, se da un lato si tende a
privilegiare l’agricoltura rispetto alla pastorizia nell’ottica del massimo profitto, dall’altro lato non si negano la dignità e la nobiltà della pastorizia come fonte di reddito per i ceti possidenti (cfr. Varrone, De re rustica 3,1,8). Va sottolineato che, nella trattatistica antica, esiste una chiara distinzione
tra pastore di pecore e pastore di capre.
Nel mondo esopico, la pastorizia sembra essere attività prevalente, o comunque complementare all’agricoltura, mentre le altre occupazioni (compresa la caccia) appaiono residuali. La favolistica, infatti, introduce a un mondo antieroico, che rovescia il sistema di valori aristocratici, tipici dell’epica, e presenta personaggi di ceti sociali umili,
spesso inevitabilmente legati alla terra. Questo profilo emerge bene in una favola in cui il pastore vende il suo gregge e si mette per mare, ma il naufragio gli fa perdere il carico (Esopo 311 Ch.): così l’uomo imparerà dai suoi errori e non proverà più l’azzardo di un rischioso viaggio in mare,
secondo una morale che è già presente in Esiodo. Peraltro, il pastore, sempre anonimo, come accade per gli altri uomini presenti nella favola esopica, non
si distingue per una particolare caratterizzazione psicologica (talvolta, la terminologia è generica e la sua figura sfuma in altre affini, come quella dell’agricoltore: cfr. Fedro 3,2). La sua unica preoccupazione è il gregge, che deve allevare e
proteggere con cura: questo nesso, inscindibile e positivo, è presente in diverse culture antiche e diventa metafora di grande efficacia (si pensi solo all’immagine del Signore come buon pastore nella Bibbia, Salmi 23). In una favola di Massimo di Tiro (19,2) l’agnello posto di fronte alla scelta tra
il pastore e il macellaio non ha dubbi: il pastore lo tratterà bene. L’altro animale con cui il pastore è
in costante relazione è il cane, fedele, irrinunciabile alleato, di cui la trattatistica antica arriva a delineare persino un profilo ideale in relazione all’uso che se ne deve fare: l’animale deve essere bianco, per non essere confuso al buio con le altre bestie; deve essere robusto, forte e pronto a dare battaglia ai possibili nemici (Columella 7,12). Il nemico irriducibile è ovviamente il lupo, con cui esiste uno strano
rapporto ambivalente, per cui spesso succede che l’uomo è disponibile a fidarsi (Esopo 229 Ch.) e ad accogliere l’animale (Esopo 313, 314, 315 Ch.), salvo pentirsene amaramente. Questo motivo narrativo presenta una dinamica affine a quello del contadino che accoglie una serpe in seno per salvarle la vita e viene poi morso mortalmente (Esopo 82 Ch.). Nelle favole indicate sopra, d’altra parte, pare sviluppato un tema che deriva da una tragedia di Eschilo, dove però si trova il leone al posto del lupo (Agamennone 717 ss.): nella tradizione indiana, invece, il motivo è presente in una delle versioni del Pañcatantra, dove tuttavia compare uno sciacallo. L’insegnamento morale, che il pastore recepisce troppo tardi, è ricorrente nella tradizione favolistica e riguarda l’immutabilità della natura individuale, ossia l’impossibilità per un malvagio di cambiare indole. Le pecore suggeriscono, invece, il tema dell’ingratitudine, quando, nella loro ottusità, mangiano per sbaglio il mantello del loro padrone, che le nutre amorevolmente, mentre donano agli altri, senza ricevere niente in cambio, la loro lana (316 Ch.): questa narrazione gioca esplicitamente sul rapporto d’affetto che lega pastore e pecore. Come si può notare, nelle raccolte esopiche, a parte qualche rara eccezione, troviamo il pastore sempre insieme al lupo, al cane e alle pecore, nell’ambito di schemi narrativi piuttosto rigidi; in altri autori questo tema è meno ricorrente.






Bibliografia

Stocchi C. Dizionario della favola antica, BUR, 2012