psicoanalisi
PSICOANALISI
(psychoanalysis; Psychoanalyse; psychanalyse; psicoanálisis). – La
psicoanalisi, nel suo complesso di dottrine psicologiche generali e nel
suo significato di tecnica esplorativa e psicoterapeutica, è opera di
Sigmund Freud. Attorno ad essa si sono impegnati una schiera di
ricercatori, alcuni se ne sono staccati polemicamente già al tempo di
Freud, per formare scuole altrimenti denominate (segnatamente la
psicologia individuale con Adler, e la psicologia analitica con Jung);
altri, intendendo porsi in qualche modo nel solco del pensiero
freudiano, hanno contribuito a darle l’aspetto successivo. Passato
oltre un secolo dai suoi inizi, la psicoanalisi esprime una complessa
tradizione di studi, con istituti suoi propri, che vanno continuamente
sviluppando tanto la pratica e la teoria del procedimento tecnico,
quanto il volume dei contributi scientifici nel campo della
psicopatologia e in quello più vasto della scienza dell’uomo.
SOMMARIO: I. Le origini della psicoanalisi. - II. La concezione
dinamica della vita psichica. - III. La teoria freudiana delle
pulsioni. - IV. L’io e il problema dell’angoscia. - V. La terapia
psicoanalitica. - VI. Scuole e orientamenti dopo Freud.
I. LE ORIGINI DELLA PSICOANALISI. – Nonostante la psicoanalisi abbia
assunto nello sviluppo della psicologia moderna un carattere
rivoluzionario, che Freud stesso paragona al passaggio dal sistema
tolemaico al sistema copernicano per lo spostamento nell’inconscio del
centro di gravità della vita psichica, essa non è senza legami con le
correnti di idee che l’hanno preceduta. Si deve soprattutto a Breuer, a
Hippolyte Bernheim, a Charcot e a Janet l’aver preparato il terreno da
cui l’opera di Freud è germinata. La psichiatria della seconda metà del
XIX secolo, da cui Freud ha preso le mosse, aveva per lo più un
carattere nosografico classificatorio, in senso puramente descrittivo.
Il problema eziologico era dominato dal concetto della costituzione
degenerativa, appoggiandosi all’autorità di Kraepelin, per cui il
disturbo psichico era esclusivamente considerato come il risultato di
un ipotetico disturbo cerebrale. La mentalità medica, imbevuta del
concetto cartesiano di separazione tra materia e spirito, era incapace
di porsi di fronte all’uomo come unità psicosomatica, così che il
disturbo psichico veniva considerato un epifenomeno secondario di
disturbi organici. Furono soprattutto i fenomeni legati all’ipnosi, che
avevano attirato l’attenzione dei medici a partire dall’epoca di
Mesmer, a incanalare la ricerca in una direzione nuova. Charcot, che
faceva uso dell’ipnosi per togliere o indurre sintomi negli isterici,
non approfondì il problema che lo stesso fenomeno ipnotico presentava.
Egli riteneva l’ipnosi prerogativa dei malati di nervi, a causa di un
deficitario «terreno morboso» nel cui concetto affiora la teoria
degenerativa, fiorita in Francia con Bénédict-Auguste Morel. Gli
esperimenti di Bernheim, che Freud andò personalmente a osservare a
Nancy, dimostrarono che l’ipnosi non è che una forma particolare di
suggestione e come tale, quindi, un fenomeno psicologico cui sono
suscettibili anche persone sane. Se si poteva indurre con l’ipnosi un
sintomo morboso implicante, p. es., un’alterazione nel campo della
motilità, nel campo percettivo o nella sfera del giudizio in persone
normali, veniva dimostrato che non era necessaria una lesione organica
per il verificarsi dei disturbi psichici. A fronte di tale movimento di
idee nel campo medico, la psicologia non era ancora riuscita ad
acquisire una sua autonomia e originalità di impostazione, oscillando
da un lato verso la fisiologia e dall’altro verso la filosofia. Fechner
fu l’unico psicologo che influenzò nettamente il pensiero di Freud con
il principio di costanza (poi «omeostasi» in Cannon), che è alla base
della concezione energetica ricorrente in tante teorie psicoanalitiche.
Con queste premesse alle spalle Freud si incamminò, medico di
formazione organicista e sperimentalista, nel campo vasto e polimorfo
dei disturbi psichici. L’origine della psicoanalisi è connessa in modo
stretto alla sua collaborazione con Breuer. Questi aveva adoperato
l’ipnosi per riattivare in una malata (il famoso caso di Anna O.)
esperienze penose dimenticate, in quanto aveva notato che il ricordo
sotto ipnosi e il racconto di tali esperienze conduceva alla scomparsa,
almeno temporanea, dei sintomi. Tale metodo di cura, detto «catartico»,
sanciva il principio generale che l’insorgenza del disturbo psichico
non era condizionata dall’esistenza della lesione organica, ma era
dovuta al blocco dell’energia affettiva collegata a ricordi penosi
dimenticati. Questa intuizione condivisa con Breuer costituì il punto
di partenza della ricerca di Freud, per alcuni anni solitaria e
contrastata, mentre Breuer la abbandonò per i riflessi sociali
sgradevoli che il suo lavoro gli aveva procurato.
II. LA CONCEZIONE DINAMICA DELLA VITA PSICHICA. – I fatti messi in
rilievo dal metodo catartico sollecitavano nuove concezioni della vita
psichica. Di fronte al blocco delle energie affettive e al fatto che
rimanevano inconsce le immagini ad esse connesse, Breuer formulò una
spiegazione statica: il blocco dipendeva dal fatto che gli avvenimenti
penosi erano stati vissuti in stato ipnoide; egli tuttavia non
approfondiva la natura di tale stato, limitandosi a enunciare l’ipotesi
di una doppia coscienza, quella normale e quella in stato ipnoide. La
sua teoria ha un’indubbia analogia con quella del restringimento o
indebolimento del campo della coscienza proposta negli stessi anni da
Janet. Freud respinse queste teorie deficitarie, per avanzare invece
una concezione dinamica del sintomo psichico, imperniata sul concetto
di conflitto: il disturbo psichico non nasce perché manca alle funzioni
psichiche una qualche energia, ma per l’urto tra energie opposte. La
dinamica della formazione del sintomo nevrotico prende le mosse dal
mondo dei desideri e delle pulsioni inconsce, a seguito del loro
incontro con le istanze di controllo, le quali nell’essere umano
diventano preponderanti nel corso dello sviluppo psichico. Le pulsioni
vengono concepite come un ponte tra il corpo e la mente, tra il
biologico e lo psicologico, in quanto spinte che nascono dal corpo e
trovano espressione in contenuti mentali o rappresentazioni
(Vorstellungen); pertanto, la psicoanalisi tradizionalmente ha fatto
oggetto elettivo d’indagine la ricerca delle rappresentazioni inconsce
(fantasmi), in quanto prodotti primari e rudimentali della vita
pulsionale sul piano psichico. Dopo le prime elaborazioni nell’ambito
della clinica delle nevrosi, il sogno divenne il terreno elettivo per
l’esplorazione dei contenuti inconsci. Con l’Interpretazione dei sogni
(Die Traumdeutung [1899], in FGW, voll. II-III, tr. it. in OSF, vol.
III) Freud ne portò la comprensione sul piano scientifico e allo stesso
tempo forgiò un importante strumento per intendere il significato dei
disturbi nevrotici. Il fatto che i contenuti inconsci acquistino
maggior possibilità di trovare espressione durante il sonno,
caratterizzato da una profonda riduzione del campo della coscienza,
sembrerebbe a prima vista appoggiare la teoria della deficienza
energetica e degli stati ipnoidi di Janet e Breuer. Ma ancora una volta
lo studio della vita onirica servì a confermare la concezione dinamica
della psiche; esso mise infatti in evidenza il meccanismo fondamentale
della censura come forza antagonista al desiderio inconscio, nel quale
Freud riconobbe il promotore del sogno. Il sogno manifesto apparve così
come il risultato, in forma di compromesso, del conflitto tra desideri
e repressione degli stessi, analogamente al modo con cui il conflitto
dà luogo al sintomo nevrotico. Attraverso lo studio del sogno si
rivelarono pure i meccanismi fondamentali con cui l’inconscio elabora i
contenuti psichici, principalmente lo spostamento, la condensazione, il
simbolismo; gli stessi meccanismi, oltre che nel sogno e nel sintomo
nevrotico, sono operanti nei lapsus della vita quotidiana e nel motto
di spirito (S. Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens [1901], in
FGW, vol. IV, tr. it. Psicopatologia della vita quotidiana, in OSF,
vol. IV; Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten [1905], in FGW,
vol. VI, tr. it. Il motto di spirito e la sua relazione con
l’inconscio, in OSF, vol. V). Tutto ciò condusse al capovolgimento
della concezione prevalente secondo cui la coscienza copre tutto lo
psichico, sostituendola con l’altra, per cui lo psichico è per lo più
estraneo alla coscienza; pertanto la psiche, in quanto inconscio, può
esser presa in esame dalla scienza come fatto obiettivo, al pari di
tutti gli altri fenomeni naturali. La coscienza risulta una qualità
incidentale dello psichico, anche se conserva inalterata la sua
importanza euristica, come l’unico «faro nella tenebra della psicologia
del profondo» (Das Ich und das Es [1922], in FGW, vol. XIII, tr. it.
L’Io e l’Es, in OSF, vol. IX, p. 481). Si determina così il chiasma
epistemologico per cui ciò che è geneticamente secondario (la
coscienza) diventa primo gnoseologicamente e viceversa per l’inconscio.
Dopo i primi studi in gran parte legati all’osservazione fenomenica,
Freud si apprestò a un’elaborazione speculativa volta a delineare i
fondamenti teorici della psicoanalisi. Con il nome di metapsicologia,
egli indicò quel complesso di dottrine con cui pose in rilievo
strutture e processi basilari dell’apparato psichico, situati al di là
del campo della coscienza. La metapsicologia si articola nello studio
dei processi psichici dai punti di vista topico, dinamico ed economico.
Il punto di vista topico rappresenta l’apparato psichico come un’entità
spaziale, in cui localizzare i fenomeni psichici: i vari contenuti
consci, preconsci e inconsci vengono immaginati come distribuiti in
territori diversi della mente. Tale separazione tiene conto non
soltanto della semplice qualità conscio-inconscio, ma anche, e
soprattutto, del fatto che il processo psichico ha prerogative diverse
e viene governato da leggi specifiche, secondo che si trovi nei diversi
sistemi: conscio, preconscio, inconscio. Poiché la descrizione topica
non consente un’esatta formulazione delle leggi che presiedono alla
relazione tra i vari sistemi e poiché un contenuto psichico rimane
inconscio o diviene conscio in funzione di forze che si oppongono o
meno al passaggio da un sistema all’altro, Freud fu indotto a formulare
una nuova ripartizione delle aree psichiche: a partire dal 1922 egli
ipotizzò la distribuzione della psiche in tre istanze in lotta
reciproca: l’es, l’io e super-io (ibi). Il punto di vista dinamico
studia appunto le forze in gioco (pulsionali e difensive) provenienti
da queste istanze e ne focalizza i decorsi e le vicende. L’es
(sostantivazione nella lingua tedesca del pronome di terza persona di
genere neutro), ribollente sede delle pulsioni, è l’istanza a cui si
connettono i primi contenuti psichici: carichi energeticamente, sono
governati dal principio del piacere-dispiacere e tendono a una scarica
immediata dell’eccitazione, attraverso l’azione o nella semplice
allucinazione (come accade nel sogno). Mentre l’es non ha contatti
diretti con il mondo esterno, ma percepisce solo lo stato di tensione
dato dai bisogni pulsionali, l’io, che in origine è una parte dell’es,
si viene formando sotto le influenze del mondo esterno, attraverso gli
apporti percettivi. L’io, cui appartiene il sistema della percezione e
della coscienza, mira ad assoggettare al suo influsso strati sempre più
ampi dell’es. Postosi come mediatore tra l’es e la realtà esterna, esso
sviluppa tra la pulsione e la sua soddisfazione delle forme di difesa e
di controllo, stabilendo la possibilità o meno di conseguire la
soddisfazione. Mentre l’es è dominato dal principio del piacere, l’io
segue il principio di realtà, onde conseguire sicurezza: se l’es ignora
il pericolo, l’io fa dell’elaborazione del segnale di pericolo
(angoscia) di fronte alla pulsione il perno di tutta la sua
organizzazione difensiva. Il super-io è l’istanza psichica che coincide
con la morale inconscia: provoca proibizioni indipendenti dalla morale
cosciente dell’individuo e, nella concezione freudiana, si forma sia
attraverso l’identificazione del bambino con l’immagine punitiva degli
educatori, al tempo del tramonto del complesso edipico, sia
trasformando in tendenze autopunitive le pulsioni aggressive dell’es.
L’esistenza inconscia di un super-io particolarmente aggressivo rende
problematica all’io la funzione di mediazione tra l’es e la realtà
esterna (sadismo del superio e masochismo morale). Poiché la guarigione
dalla nevrosi comporta la dissoluzione del super-io quale istanza
morale arcaica e inadeguata, la pratica psicoanalitica ha fatto sorgere
perplessità in sede morale. Gli psicoanalisti, a loro volta, osservano
che i conflitti generati dal super-io sadico (specialmente evidenti
nella nevrosi ossessiva e nella psicosi depressiva) possono rendere
impossibile all’io l’integrazione razionale dei valori morali, per la
quale è necessaria la dissoluzione delle istanze autopunitive arcaiche
inconsce. Del resto, dal super-io si distingue l’ideale dell’io, che
rappresenta l’insieme dei valori e degli ideali cui l’io si ispira,
parte consci e parte inconsci, e pure essi assimilati tramite processi
di identificazione. Il punto di vista economico intende studiare, nella
concezione generale energetica dell’apparato psichico, le quantità di
energia impiegate nei vari processi psichici. Esso considera, p. es.,
in termini quantitativi sia i processi di rimozione, concepiti come un
impiego di controcariche che tendono a impedire il deflusso delle
energie pulsionali, sia le energie trattenute dalla pulsione rimossa.
La cura analitica, vista in termini economici, mira a mettere a
disposizione dell’io una quantità confacente di energia psichica, sia
agevolando il drenaggio, attraverso derivati leciti, all’energia
connessa alle pulsioni inconsce, sia liberando l’energia che viene
investita nelle controcariche difensive, così da togliere le difese non
necessarie. Freud fornisce pure una lettura in termini energetici della
genesi del pensiero conscio: a determinate rappresentazioni mentali si
aggiunge una quantità di carica psichica a disposizione dell’io. In
questo modo la «rappresentazione di cosa» inconscia può connettersi a
una «rappresentazione di parola» preconscia, così che la prima può
diventare pensiero cosciente.
III. LA TEORIA FREUDIANA DELLE PULSIONI. – Mentre la concezione topica
e soprattutto quella economica dell’apparato psichico sono rimaste
neglette nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico, la concezione
dinamica si è rivelata la più feconda sia nell’attività clinica, sia
nello studio delle leggi generali della psiche. All’insegna della
stessa concezione sono sorte le indagini sullo sviluppo affettivo del
bambino, che hanno portato a una rivoluzione delle vedute in merito,
anche solo per aver affermato l’esistenza di un’articolata sessualità
infantile (Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie [1905], in FGW, vol. V,
tr. it. Tre saggi sulla teoria sessuale, in OSF, vol. IV). L’epoca
maggiormente produttiva di fantasmi inconsci abbraccia i primi cinque
anni di età. Si dà il nome di zone erogene a quelle parti del corpo
che, durante lo sviluppo biopsichico, rappresentano punti di
focalizzazione delle pulsioni e della correlata attività fantasmatica.
Le zone erogene segnano le varie tappe dell’evoluzione delle pulsioni:
la fase orale, la fase anale, la fase genitale. Durante la prevalenza
della fase orale i contenuti dei fantasmi tendono a costruirsi su dati
percettivi rudimentali (gustativi, olfattivi, visivi, tattili e
specialmente cenestesici) che accompagnano l’instaurarsi di una
tensione intensamente penosa (fame) in assenza di oggetto e il suo
placarsi nello stabilirsi di un rapporto con un oggetto parziale
(seno), che viene introdotto al di dentro (suzione), a cui segue la
scomparsa dell’oggetto (sonno dopo la poppata). L’analisi dei derivati
preconsci di tali fantasmi primari e naturalmente preverbali rileva che
il mondo fantasmatico orale inconscio è popolato da rappresentazioni
che elaborano le esperienze sensoriali e cenestesiche in simboli
arcaici relativi all’introdurre o essere introdotti, divorare o essere
divorati, comparire o scomparire di oggetti ecc., cui si accompagnano
emozioni euforiche o disforiche intensissime, drammatizzate in simboli
di oggetti buoni o cattivi. Nella fase anale l’incontro della pulsione
anale con l’educazione al controllo degli sfinteri assume particolare
importanza nel configurare i contenuti dell’esperienza del bambino in
rapporto con l’ambiente. Stimolato da valutazioni di approvazione o di
condanna circa le modalità di espletamento della funzione evacuatoria,
il bambino vede esprimersi in modo clamoroso una fondamentale esigenza
eticoestetica dell’uomo civile. I fantasmi inconsci vengono ora
elaborati in rapporto ai simboli suscitati dal trattenere o espellere,
tenere per sé o concedere, sentirsi sottratto o sottrarre qualcosa che
è dentro di sé, cioè che fa parte dell’io corporeo. Tali fantasmi
acquistano caratteri buoni o cattivi, a seguito delle sensazioni ed
emozioni gradevoli o sgradevoli suscitate nel bambino dall’interno del
corpo o dall’esterno, in funzione delle modalità di espletamento della
defecazione e dell’atteggiamento dei genitori. Nella fase genitale,
quando il patrimonio di esperienze percettive e affettive del bambino
si è arricchito (3-6 anni) fino alla possibilità di cominciare a
intuire più chiaramente i rapporti tra gli oggetti che lo circondano
(specie i genitori), sotto l’incalzare di esigenze pulsionali più
complete i fantasmi inconsci elaborano in termini simbolici il rapporto
tra gli oggetti che dominano l’atmosfera familiare. In questo periodo,
dietro la spinta di un relativo maturare della tensione fallica,
vengono alla ribalta i desideri genitali e di procreazione nelle loro
componenti erotiche e aggressive, in rapporto alla conquista di un
oggetto (madre per il maschietto e padre per la bambina) e alle vicende
particolarmente penose per il bambino di dover lottare contro un rivale
onnipotente e per giunta intensamente amato (padre per il maschietto e
madre per la bambina). La costellazione fantasmatica genitale, che
comprende il vario atteggiarsi delle componenti erotiche e aggressive
nei rapporti fantasticati o esperiti fra i genitori e nelle tendenze di
partecipazione del bambino, è nota sotto il nome di complesso edipico.
Nelle vicende di Edipo, eroe del mito greco, la tragedia dà espressione
poetica e simbolica agli impulsi e alle angosce della scelta amorosa e
delle rivalità genitali infantili. Le angosce della fase genitale hanno
un’importanza predominante nello sviluppo delle nevrosi e sono note
sotto il nome di complesso di castrazione. Anche altre zone erogene
possono creare contenuti fantasmatici inconsci. Basterà accennare alle
zone cutanea e muscolare, importanti per l’elaborazione di fantasie
sadomasochistiche, e alla zona erogena visiva per le fantasie
voyeuristiche ed esibizionistiche. Le indagini relative alle varie
pulsioni che si manifestano nel corso dello sviluppo portarono alla
necessità di formulare una dottrina generale delle pulsioni, che si
inserisse nella visione complessiva della vita psichica. In un primo
tempo il conflitto psichico, pilastro di tutta la concezione
psicoanalitica, venne concepito da Freud, dal punto di vista economico,
come una lotta tra la libido (l’energia propria delle pulsioni
sessuali) e l’energia propria delle pulsioni di autoconservazione,
appannaggio dell’io. Con la pubblicazione del saggio sul narcisismo
(Zur Einführung des Narzissmus [1914], in FGW, vol. X, tr. it.
Introduzione al narcisismo, in OSF, vol. VII) Freud introdusse il
concetto di libido dell’io. L’io in tal modo non poteva più essere
un’istanza opposta alla libido, in quanto era esso stesso oggetto di
investimento libidico. Con l’opera Jenseits des Lustprinzips (1920; in
FGW, vol. XIII, tr. it. Al di là del principio di piacere, in OSF, vol.
IX) il conflitto psichico, che era sempre stato formulato in termini di
opposizione tra pulsioni e proibizioni dell’ambiente interiorizzate, è
spostato in seno alla stessa vita biologica, con l’enunciazione del
dualismo di pulsioni di vita, che vengono ora a comprendere sia gli
impulsi sessuali sia le pulsioni di autoconservazione, e pulsioni di
morte, che implicano l’esistenza nell’organismo vivente di una tendenza
primaria all’autodistruttività. Freud formulò l’ipotesi di una spinta
endogena alla morte – invero presto contestatagli da non pochi seguaci
– partendo da dati biologici, che implicano nell’essere vivente una
continua creazione e distruzione di cellule nell’organismo attraverso
le fasi anabolica e catabolica del metabolismo, e ritenendo inoltre che
la «coazione a ripetere», scoperta in precedenza, fosse un carattere
generale della vita psichica e biologica, quale espressione del
principio di costanza. Secondo questo principio, infatti, l’organismo
mira a conseguire il livello energetico più stabile; ma il livello più
stabile è quello minimo, in cui cessa la vita. Dunque due fondamentali
tendenze in opposizione sottendono i processi biologici, quella alla
vita e quella alla morte, ed esse si esprimono sul piano psicologico
appunto come pulsione di vita (o eros) e pulsione di morte. Il dualismo
di Eros e Thanatos, caro ai poeti, fu così posto a spiegazione dei
fenomeni psichici. Coperto dalle manifestazioni degli impulsi libidici,
che tendono a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse e
armonizzate, le spinte alla morte si anniderebbero silenziose nella
sostanza vivente, come tendenza a ritornare a una forma di esistenza
inorganica. Sul piano propriamente psichico, la pulsione di morte si
connette alla fenomenologia della pulsione aggressiva. Una frazione
della pulsione di morte verrebbe deflessa all’esterno come
aggressività, preservando il soggetto dalla distruzione. Il masochismo
primario esprimerebbe la posizione iniziale autodistruttiva, mentre il
masochismo secondario deriverebbe dall’introflessione sul soggetto
della pulsione aggressiva, dapprima rivolta verso l’oggetto.
IV. L’IO E IL PROBLEMA DELL’ANGOSCIA. – Se l’es rappresenta le
assillanti esigenze che il biologico presenta allo psichico, l’io è
l’istanza psichica che assume su di sé la responsabilità dei conflitti
che incombono all’uomo per il fatto di essersi allontanato dalla vita
biologica per costruire la civiltà. Debole e mal configurato agli inizi
dell’evoluzione psichica, esso assume importanza crescente quale
organizzazione di controllo nei riguardi della realtà interna ed
esterna. Nell’Abriss der Psychoanalyse (1938; in FGW, vol. XVII, tr.
it. Compendio di psicoanalisi in OSF, vol. XI), la sintesi più matura
del suo pensiero, Freud così delinea le funzioni fondamentali dell’io:
«La sua prestazione costruttiva consiste nell’interpolare, fra la
pretesa pulsionale e l’azione di soddisfacimento, l’attività di
pensiero; quest’ultima [...] si sforza, procedendo per prove ed errori,
di indovinare le conseguenze delle iniziative progettate. L’io decide
in questo modo se il tentativo di raggiungere il soddisfacimento debba
essere compiuto o rinviato, oppure se la pretesa avanzata dalla
pulsione debba essere repressa del tutto in quanto pericolosa [...].
Così come l’es è esclusivamente orientato al conseguimento del piacere,
l’io è dominato da problemi di sicurezza» (ibi, p. 626). Il cardine di
tutta l’attività organizzativa e difensiva dell’io è costituito dalla
sua capacità di impiegare l’angoscia come segnale di allarme di fronte
al pericolo, allo scopo di promuovere difese adeguate. L’angoscia
primaria, che Freud chiama «angoscia automatica» (patita dall’io come
il risultato di uno stato di eccitamento incontrollabile, proveniente
da stimolazioni traumatiche esterne o interne, il cui prototipo può
essere fatto risalire al trauma della nascita), viene in seguito
parzialmente riattivata dall’io come anticipazione di una minaccia
possibile; il che implica la mobilitazione di una sempre più
consistente organizzazione difensiva. In casi patologici l’evocazione
del pericolo possibile si trasforma in pericolo reale, sommergendo così
l’io, che regredisce alla situazione traumatica primaria (Hemmung,
Symptom und Angst [1925], in FGW, vol. XIV, tr. it. Inibizione, sintomo
e angoscia, in OSF, vol. X). L’angoscia costituisce pertanto il cuore
del problema psicologico, e gran parte dei comportamenti umani sono in
definitiva riconducibili a modalità più o meno riuscite di
rassicurazione contro l’angoscia. La frequenza della nevrosi nella
nostra epoca testimonia che l’io dell’uomo civile, che ha così
brillantemente lottato per il dominio della natura, si trova in una
condizione di maggior debolezza di fronte ai pericoli interni posti
dall’incontrollabilità delle pulsioni. Sul piano genetico, ciò trova la
sua condizione nel fatto che, quando nell’infanzia si vengono formando
le strutture fondamentali della psiche, l’io è debole e appena
abbozzato, mentre l’es urge con tutta la sua violenza primitiva, che
conduce con facilità a stati di «allagamento» di tutto l’apparato
psichico. Ciò spiega almeno in parte il fenomeno dell’angoscia (come
paura enorme e paradossale che l’uomo ha di rivivere la primitiva
condizione di impotenza di fronte ai pericoli nascosti in sé, a onta
del suo dominio sulla natura) e il fenomeno della nevrosi come mal
riuscito tentativo di farvi fronte. II contenuto dell’angoscia sul
terreno clinico è riconducibile a una drammatizzazione simbolica di
pericoli soverchianti in relazione all’eccitazione pulsionale
infantile. Le ricerche sulla sessualità infantile e il riscontro della
paura della castrazione in termini di angoscia nella generalità degli
individui sottoposti a trattamento analitico avevano indotto Freud a
ritenere il «complesso di castrazione» come cruciale nel fornire il
contenuto fantasmatico inconscio per l’elaborazione da parte dell’io
dell’angoscia come segnale di pericolo. Sulla traccia dello stesso
Freud, le ricerche successive hanno valorizzato nella genesi
dell’angoscia fantasmi relativi alla perdita dell’amore o dell’oggetto
buono protettivo, la cui funzione è essenziale e inderogabile per
compensare la fondamentale inadeguatezza dell’io del bambino di fronte
a qualsiasi pericolo interno o esterno. Di fronte a tali minacce
elaborate in termini di angosce primarie, l’io mette progressivamente
in moto i suoi meccanismi di difesa. Questi all’inizio consistono
specialmente in processi di identificazione – con cui, sulla base di un
meccanismo di incorporazione, l’io sente come proprie delle qualità
buone, protettive dell’oggetto – e di proiezione – con cui, sulla base
di un meccanismo di espulsione, l’io cerca di distanziare da sé delle
parti pericolose dell’es. Allo stesso scopo l’io mette in moto il
meccanismo di rimozione con il quale, per il tramite di controcariche,
mantiene inconsce e quindi «estranee» determinate rappresentazioni
pulsionali temute. Con modalità diverse convergono verso lo stesso
scopo gli altri meccanismi di difesa. Ogni comportamento umano può
assumere, dal punto di vista psicoanalitico, oltre al carattere di
soddisfazione pulsionale (spesso con spostamento di oggetto e di meta),
una funzione rassicurante contro angosce inconsce. Per esempio, la
ricerca scientifica può soddisfare con spostamento di oggetto la
curiosità sessuale infantile scoprendo cose nascoste, e nello stesso
tempo può servire da rassicurazione contro la paura dell’ignoto. Così
la tendenza al risparmio può soddisfare il desiderio di conservare in
sé (o per se stessi) determinati oggetti pregiati, come spostamento sul
danaro di impulsi connessi alla fase anale, e nello stesso tempo può
svolgere una funzione di rassicurazione contro un’intensa angoscia
relativa alla perdita di oggetti importanti della vita affettiva
infantile. Nelle situazioni normali i due processi di soddisfazione e
di difesa riescono ad armonizzarsi. Nella nevrosi l’equilibrio tra
pulsione e difesa viene rotto; tende allora a rinnovarsi la lotta tra
impulso e difesa senza possibilità di composizione, o componendo il
conflitto con un dispendio eccessivo di energie e conseguente danno
nell’economia psichica globale. La struttura caratteriale stessa può
assumere un prevalente aspetto difensivo e i tratti del carattere in
genere condensano modalità di soddisfazione assieme ad adattamenti
difensivi; tali tratti sono esplorabili geneticamente in funzione di
pericoli interni o esterni che l’io si è trovato a fronteggiare durante
l’età evolutiva. Nell’evoluzione dell’organizzazione difensiva contro i
pericoli dell’es si viene formando il super-io come istanza repressiva,
che assume una propria autonomia e talvolta si impone all’io stesso con
i caratteri di incoercibilità propri dell’es. Nella formulazione
freudiana del super-io, figure genitoriali minacciose sono diventate
parte integrante del mondo interno; esso infatti «osserva l’io, gli
impartisce degli ordini, lo orienta e lo minaccia con punizioni,
esattamente come i genitori di cui ha preso il posto» (Abriss..., tr.
it. cit., p. 632). Nella persona normale è data una relativa
armonizzazione tra la moralità automatica del super-io e la moralità
meditata e conscia dell’io. In casi patologici il super-io impone
all’io una pseudomoralità rigida e assurda, basata sull’evocazione di
atroci sensi di colpa anche solo per desideri inconsci (da questo punto
di vista l’inconscio è più immorale di quanto si creda, ma allo stesso
tempo più morale). L’io è così costretto a far uso di meccanismi di
difesa pure nei riguardi del super-io, mobilitando angosce come già nei
riguardi dell’es. Secondo Freud il super-io è «l’erede del complesso
edipico e si insedia solo in seguito alla liquidazione di quest’ultimo.
La sua eccessiva severità non segue perciò un modello reale, ma
corrisponde piuttosto all’intensità con cui il soggetto ha dovuto
difendersi dalla tentazione del complesso edipico» (ibi, p. 633).
Volendo cogliere nel loro complesso i reciproci rapporti tra le varie
istanze psichiche, si può dire che l’es e il super-io pongono all’io il
difficile compito di armonizzare tra di loro delle tendenze
contrastanti. L’attività dell’io è quindi essenzialmente una lotta più
o meno fortunata contro la pazzia latente in noi: «Malattia dell’uomo,
malato di se stesso: conseguenza di un divorzio violento dal passato
animale» (F. Nietzsche, Genealogie der Moral, Leipzig 1887, tr. it. di
F. Masini, Genealogia della morale, in F. Nietzsche, Opere, a cura di
G. Colli e M. Montinari, vol. XIV, Milano 1992).
V. LA TERAPIA PSICOANALITICA. – La psicoanalisi nella sua realtà
vissuta è essenzialmente un procedimento terapeutico, o meglio,
psicoterapeutico. I principi generali della tecnica psicoanalitica si
ispirano al concetto generale del conflitto psichico. Poiché la nevrosi
è il prodotto di una rottura di equilibrio tra pulsioni e difese
(dovuta a un aumento incontenibile di tensione per inadeguato deflusso,
con la creazione di formazioni di compromesso quali sono i sintomi
morbosi), il compito della cura psicoanalitica è di ristabilire
l’equilibrio perduto, in modo che sia possibile un deflusso adeguato,
in armonia con leggi razionali e sociali di condotta. Poiché le difese
eccessive sono messe in moto da intense angosce inconsce, il compito
terapeutico essenziale è la risoluzione di queste angosce generatesi
nella preistoria infantile della vita psichica, confrontandole con l’io
razionale adulto che ne riconosce il carattere irreale. Tale scopo
viene raggiunto demolendo le difese patologiche fino all’affiorare dei
contenuti delle angosce patogene, che possono essere liquidate solo in
quanto riattualizzate e confrontate con la parte normale dell’io
adulto. La modalità esteriore della tecnica psicoanalitica consiste nel
porre l’individuo in posizione sdraiata, stando il terapeuta dietro di
lui e invitandolo a esprimere ogni cosa gli passi per la mente, senza
preoccupazioni di giudizio da parte del terapeuta. Le libere
associazioni hanno lo scopo di sospendere le difese coscienti dell’io,
in modo da lasciar emergere i contenuti inconsci, spesso inattesi e
insospettati. Complementare alla regola dell’associazione libera da
parte del paziente è l’atteggiamento di attenzione fluttuante da parte
del terapeuta. È abituale che durante l’esplorazione insorgano
resistenze, la cui chiarificazione e soluzione è indispensabile per il
superamento delle difese inconsce e la produzione sempre più proficua
di derivati dei contenuti inconsci. Lo strumento essenziale della
terapia analitica è costituito dall’analisi del transfert, nella quale
si esprime una prerogativa della tecnica della psicoanalisi rispetto
alle altre forme di psicoterapia. Il transfert – genialmente utilizzato
da Freud dopo la conturbante scoperta che il paziente riproduceva su di
lui moti di amore e di odio già vissuti soprattutto con le figure
parentali – nel suo significato più vasto è un fenomeno generale e
consiste nel fatto che ogni rapporto oggettuale implica sempre uno
spostamento di parti di sé sugli oggetti sotto forma di investimenti
pulsionali erotici o aggressivi. Una forma più specifica di transfert
si ha quando l’oggetto investito di cariche pulsionali viene vissuto
come se fosse il sostituto di oggetti della vita affettiva infantile,
internalizzati e intrattenenti rapporti con l’io sotto forma di
rapporti oggettuali inconsci. In tale caso nell’oggetto esterno vengono
posti degli attributi già propri di oggetti infantili, ai quali
l’individuo reagisce con impulsi positivi o negativi, come se fossero
attributi dell’oggetto attuale. La vita affettiva adulta è sottesa in
modo più o meno marcato da transfert che implicano la ripetizione nei
rapporti affettivi adulti di modelli di comportamento infantile.
Esempio tipico di tale situazione è l’innamoramento, in cui il rapporto
oggettuale si attua nel trasferimento sull’oggetto di contenuti
esclusivamente positivi vissuti nell’infanzia, come appartenenti a un
oggetto intensamente idealizzato. Il transfert psicoanalitico, data la
neutralità del terapeuta come oggetto investito, porta a estreme
conseguenze il carattere di soggettività del transfert sia positivo sia
negativo: la figura reale dell’analista può essere completamente
cancellata, sovrapponendogli immagini e attributi di oggetti
internalizzati durante le vicende affettive infantili. La guarigione,
concepita in senso psicoanalitico come una maturazione della
personalità, raggiunta attraverso il rafforzamento dell’io e
l’integrazione di energie liberate dall’es, si attua principalmente nel
mettere a confronto la parte dell’io normale con i modi di reazione
arcaici rivissuti nel transfert, che vengono abbandonati dopo la
liquidazione delle angosce che li rendevano necessari in modo coatto.
Il trattamento analitico conduce così alla instaurazione di una nevrosi
di transfert, la soluzione della quale costituisce il lavoro
terapeutico fondamentale. Speciale attenzione è stata riservata ai
problemi suscitati dalla valorizzazione del transfert negativo, come
risultato di una maggiore comprensione degli impulsi aggressivi verso
il terapeuta. Molto dibattuto è stato pure il problema del transfert
nella psicoanalisi infantile. Secondo Anna Freud non si potrebbe
parlare di transfert nei bambini, in quanto il processo di
internalizzazione degli oggetti che vengono proiettati nel transfert è
ancora in atto. Secondo Melanie Klein invece il transfert è un fenomeno
generale che non fa eccezione nel trattamento psicoanalitico dei
bambini.
VI. SCUOLE E ORIENTAMENTI DOPO FREUD. – La psicoanalisi dopo Freud ha
dato luogo a un’amplissima e variegata fioritura di scuole, riviste,
centri di formazione e ancor più numerose sono le correnti nell’ambito
della filosofia, sociologia, antropologia, linguistica, critica
letteraria, che ad essa si richiamano. L’ampiezza della fioritura è
sostenuta principalmente dalla crescente domanda di cure psicoterapiche
e, nonostante i limiti da più parti denunciati sul piano della teoria e
su quello dei risultati della cura, sembra improbabile il tramonto di
questa tradizione di ricerca, finché non sia data una cura senz’altro
più efficace e un quadro teorico allo stesso tempo più convincente e
più comprensivo. La varietà di teorizzazioni è da attribuirsi da un
lato alle ambiguità e ai problemi lasciati aperti nell’impianto
freudiano, dall’altro lato all’incontro con diverse sensibilità
culturali, con gli sviluppi nelle discipline limitrofe, con la
necessità, infine, di aprire la cura a patologie trascurate da Freud,
come i disturbi infantili e le gravi psicosi dell’adulto.
L’eterogeneità di scuole e orientamenti rende impossibile oggi
delineare un «sistema» anche minimo di psicoanalisi. Se, come è stato
affermato da più parti (M. Fornaro, Scuole di psicoanalisi. Ricerca
storico-epistemologica sul pensiero di Hartmann, Klein e Lacan, Milano
1988; R.S. Wallerstein, One Psychoanalysis or Many?, in «International
Journal of PsychoAnalysis», 69, 1988, pp. 5-21), occorre ormai parlare
«delle» psicoanalisi al plurale, è perché le divergenze non vertono
soltanto su temi settoriali, bensì concernono il modello di mente
ovvero il paradigma soggiacente, oppure comportano la demolizione di
qualcuno dei pilastri fondamentali dell’impianto freudiano, quali le
nozioni di inconscio, di conflitto psichico (rimozione), di pulsione.
Pertanto, al fine di stabilire quali orientamenti includere nella
psicoanalisi, non si può a questo punto se non accreditare l’intenzione
dei rispettivi esponenti di porsi nell’alveo della tradizione
freudiana. Di essa è comunque rintracciabile un «filo rosso» nei
riferimenti a una comune letteratura, nella koinè linguistica – sia
pure intendendo poi diversamente gli stessi termini tecnici – e nel
metodo clinico, in quanto vi si continua a far uso privilegiato della
parola, a ritenere il terapeuta in qualche modo parte in causa del
processo e non un osservatore esterno. Al fine di delineare un quadro
delle maggiori svolte paradigmatiche dopo Freud, è opportuno
ripercorrere alcune linee di storia della psicoanalisi, sulla falsariga
delle grandi alternative concettuali ricorrenti (quali: intrapsichico
vs. interpersonale; innato vs. ambientale; io vs. es; pulsionale vs.
oggettuale o relazionale; psicologico vs. biologico, vs. sociologico;
clinica vs. metapsicologia; conflitto vs. deficit; metodo clinico vs.
metodo empirico; e nella clinica: insight vs. empatia; costruzione vs.
ricostruzione; monopersonale vs. bipersonale). Negli anni quaranta e
cinquanta del Novecento si assiste in Gran Bretagna allo scontro tra
l’«ortodossia», rappresentata dalla figlia di Freud, Anna, e
l’incipiente scuola di Melanie Klein. I temi della prima sono poi
ripresi dalla psicologia psicoanalitica dell’io che, fondata da Heinz
Hartmann, Ernest Kris e Rudolph Loewenstein, trova sviluppi negli USA.
Le divergenze, al di là di temi settoriali come la teoria e la tecnica
dell’analisi dei bambini o le prime fasi dello sviluppo (vedi l’Edipo
precoce della Klein), discendono da una diversa calibratura del
rapporto tra inconscio (es) e conscio (io): la concezione di una sfera
dell’io autonoma dai conflitti pulsionali, radicata nella struttura
biologica e filogenetica (Hartmann), si scontra con l’articolata enfasi
sulle dinamiche inconsce del mondo intrapsichico (es), sulla vita
fantasmatica come costitutiva della personalità (Klein). Anzi, proprio
queste altre dinamiche segnerebbero l’avvio di un regolare processo di
investimento simbolico della realtà esterna, la quale prende
significato proprio a partire dal mondo interno (così in Fornari, Bion,
Matte Blanco, tutti già allievi in qualche modo della Klein). Al
contrario, la scuola hartmanniana, sottolineando i pericoli
rappresentati da quello stesso mondo interno, da cui l’io ha da
difendersi, focalizza il problematico adattamento all’ambiente. Del
resto gli orientamenti nordamericani appaiono in generale
caratterizzati da una maggiore sensibilità all’istanza ambientalista e
realista, piuttosto che al mondo intrapsichico e fantasmatico. In ciò
la psicologia dell’io si trova compagna di strada della corrente
culturalista o neofreudiana. Per quest’ultima, pure fiorita negli USA,
le relazioni interpersonali quali si esplicano nell’ambiente familiare
(Harry Sullivan) – e dietro esso la società qualificata e criticata in
senso economico-politico (Fromm) – intervengono direttamente nella
costituzione della struttura psichica, mentre gli elementi innati sono
ridotti al minimo. Ma, a differenza degli psicologi dell’io, i
culturalisti avanzano la prima serrata critica al modello
pulsionalistico freudiano, accusato di determinismo biologico, di
meccanicismo, laddove i primi non disdegnano la ricerca di fondazioni
neurofisiologiche della psicoanalisi. Gli anni sessanta e settanta
vedono in Francia l’apoteosi della scuola di Lacan, dove i temi
dell’effettività dell’inconscio e del primato del linguaggio vengono in
primo piano. Facendo leva su un modello di mente chiaramente ispirato
alla linguistica strutturalista, essa enfatizza della psicoanalisi il
carattere di cura attraverso le parole e inoltre legge le formazioni
dell’inconscio, seguendo suggerimenti dello stesso Freud, come figure
retoriche, caratterizzate da meccanismi di condensazione (equiparata
alla metafora) e di spostamento (metonimia). Essa pertanto, oltre a
porre in secondo piano gli aspetti biologici dello sviluppo, porta una
serrata critica alla nozione di io autonomo, enfatizzando i luoghi in
cui Freud descrive l’io, sortito da investimenti narcisistici, come il
giullare che si illude di governare l’individuo. Qui è davvero
«l’inconscio che parla»; di conseguenza, alla tesi dell’adattamento
come misura della salute, i lacaniani oppongono la realtà del desiderio
inconscio, come potenzialmente eversivo. Intanto, a partire dagli anni
cinquanta, nella controversia tra kleiniani e ortodossi si profila,
ancora in ambiente inglese, una corrente in certo modo intermedia, gli
«indipendenti», che annovera nomi di primo piano, fecondi di risultati,
come Winnicott, Balint. Al di là della nebulosa di posizioni, entro
questa corrente va rilevata una comune sensibilità: l’avversione al
pulsionalismo, l’attenzione alle fasi preedipiche e infine la
centralità della nozione di relazioni oggettuali (preceduti dal
kleiniano Ronald Fairbairn e altri), intese ora in maniera più
realistica (l’effettivo comportamento della madre), ora più
fantasmatica (i vissuti relazionali del bambino). Di particolare
rilievo è qui la figura materna: con le sue attitudini più o meno
adeguate, essa è ritenuta decisiva per ogni successivo sviluppo
dell’essere umano, sottovalutando però spesso la funzione del padre e
della triangolazione edipica. Nella stessa epoca e temperie è da porsi
pure la ricerca di Bowlby, che studia in particolare le modalità di
«attaccamento» da parte del bambino a seguito per altro delle modalità
di accudimento materno: ispirata a metodi e modelli etologici, la sua
opera gode negli anni Novanta di nuovi riconoscimenti, specie tra
quegli psicoanalisti che – al di là del classico metodo clinico –
ambiscono a riscontri di tipo empirico e sperimentale. Gli anni
settanta e ottanta vedono la crescita, a partire ancora dagli USA,
della corrente della psicologia del sé, di cui Kohut, già formatosi
nell’area della psicologia dell’io, è il maggiore esponente. Il nuovo
paradigma concepisce la mente come essenzialmente unitaria, destinata a
svilupparsi armoniosamente attorno a un nucleo centrale (o «sé
nucleare», presente fin dagli albori della vita), grazie al duraturo e
scambievole rapporto «empatico» o di «sano narcisismo» con figure di
appoggio, a partire da quelle genitoriali. La «classica» visione
conflittuale della psiche, la cui unità è sempre precaria, viene
pertanto sostituita da una visione deficitaria, laddove risulti
perturbata la funzione di appoggio esercitata dalle figure parentali.
Questo rinnovato interesse verso le obiettive carenze nel rapporto
interpersonale precoce va di pari passo con la riabilitazione del peso
dei traumi realmente subiti dal bambino, alla quale si è assistito
negli anni ottanta e novanta. Infine, nell’ambito della cura, la
psicologia del sé comporta un’accentuazione del ruolo dell’empatia – in
luogo della mera interpretazione –, intesa come atteggiamento di
benevolo sostegno da parte del terapeuta, che surroga le figure
parentali a suo tempo manchevoli. In tal modo rivivono, mutatis
mutandis, le proposte già di Ferenczi, negli anni trenta, per un
atteggiamento del terapeuta caratterizzato da affettuosità di tipo
materno, o di Franz Alexander, negli anni quaranta, per un’«esperienza
emozionale correttiva». Circa il modo di concepire la relazione
terapeutica non piccole sono le variazione intervenute negli ultimi
decenni, rilevanti anche perché implicano concezioni alternative della
mente. A partire da autori come Bion (che sostiene un modello
«gruppale» di mente, e già prima un modello del gruppo come sorta di
mente collettiva) si insiste variamente sul carattere strutturalmente
relazionale del rapporto terapeutico, o bipersonale, o di campo
(Madaleine Baranger, Willy Baranger). Inoltre si perora la sistematica
utilizzazione delle emozioni che il paziente suscita nel terapeuta (il
cosiddetto controtransfert), laddove l’impianto «classico» al più
concedeva, a un terapeuta monocraticamente inteso, l’utilizzazione del
transfert su di lui da parte del paziente. Si arriva così, infine, alla
recentissima corrente intersoggettivista (USA) – ultima propaggine
della linea interpersonale – che da una parte insiste sul cosiddetto
hic et nunc della seduta analitica, dall’altra preconizza un rapporto
di scambio pressoché paritetico tra paziente e terapeuta, all’interno
di una comune ricerca (Robert Storolow e George Atwood). Lo
straordinario sviluppo delle neuroscienze nella seconda metà del
Novecento e il riconoscimento crescente dell’obsolescenza della nozione
freudiana di apparato psichico, in quanto poggiante su un modello
neurofisiologico fisicalista ottocentesco, ha portato a due opposte
linee di soluzione – che ripropongono per altro il dilemma già avanzato
da Ricoeur tra interpretazione (clinica) e forza (metapsicologia). La
prima linea si è espressa a partire dagli anni settanta nelle correnti
ermeneutiche in seno alla stessa psicoanalisi, rappresentate da autori
nordamericani come Roy Schafer e Donald Spence, e comunque da quanti,
delusi dalle velleità fondazionali della metapsicologia (Merton Gill,
George Klein), hanno finito col ricusarla, per insistere sul
significato pragmatico dei concetti teorici. È una linea naturalmente
aperta alle impostazioni narrativiste fiorite negli anni Novanta (dove
la cura è intesa come «costruzione» di una buona narrativa, piuttosto
che «ricostruzione» degli eventi psichici del soggetto); queste
impostazioni per altro, mentre si accostano decisamente alle modalità
delle scienze storico-ermeneutiche, trovano sponda nei recenti
orientamenti culturali «post-moderni» (in quanto mirano a inficiare il
carattere universale e oggettivo della scienza in generale). La linea
opposta, a fronte della crisi della metapsicologia, suggerisce che essa
non va abbandonata, bensì occorre sostituire il modello metapsicologico
e neurofisiologico freudiano con modelli tratti dai recenti sviluppi
delle scienze cognitive (Wilma Bucci); oppure la metapsicologia va
suffragata, per certi aspetti, con le acquisizioni in sede di
neuroscienze. In particolare nell’opera dei britannici Karen
Kaplan-Solms e Mark Solms – che inaugurano l’orientamento della
«neuropsicoanalisi» – la neuropsicologia dinamica, nata dagli studi del
grande russo Lurija, costituirebbe un terreno ideale sia per validare
sul piano neuroscientifico parecchie tesi psicologiche della
psicoanalisi (segnatamente la teoria del sogno e quella delle relazioni
oggettuali), sia per quella fondazione neurobiologica che il Freud
dell’Entwurf einer Psychologie (1895; in FGW, Nachtragsband, tr. it.
Progetto di una psicologia, in OSF, vol. II) avrebbe abbandonato per
mancanza, al tempo, degli strumenti teorici e dei dati sperimentali
adeguati. Questi ricorrenti sforzi di legittimare le teorie della
psicoanalisi attraverso metodi «obiettivi», cioè osservativi e
sperimentali, hanno dato luogo a consistenti correnti di ricerca
empirica anche nell’area della clinica (sono ricerche sviluppatesi
anche a risposta delle aspre critiche rivolte alla psicoanalisi da
epistemologi come Grünbaum). Da una parte è sorto un orientamento che
intende sottoporre a verifica empirica le sedute psicoanalitiche con le
più disparate metodiche, come la videoregistrazione di sedute
(introdotta dal gruppo di ricerca all’università di Ulm guidato da
Helmut Thomä), o come l’individuazione a opera di giudici esterni del
cosiddetto «tema della relazione conflittuale centrale», al fine di
vagliare il modello relazionale interiorizzato (Lester Luborsky).
Dall’altra parte, sono fioriti studi di infant research, a partire
dagli anni ottanta, dopo quelli pionieristici di Spitz. Si segnala a
proposito il lavoro di Daniel Stern, che osserva con grande accuratezza
le interazioni madrebambino nel primo anno di vita, rilevando
l’istituirsi di sincronismi relazionali nei rapporti tra i due, tali
che le risposte e le modalità materne concorrono direttamente alla
formazione delle strutture mentali (il sé) del piccolo.
L’interpersonale sottrae nuovamente spazio all’intrapsichico: dato
l’approccio osservativo e sperimentale, è inevitabile che il mondo
fantasmatico, supposto da tante analiste infantili, faccia un passo
indietro. È un indirizzo che con l’opera successiva di Joseph
Lichtenberg ha pure portato a rivedere profondamente la teoria
pulsionale, nel senso di sostituirvi complessi e articolati «sistemi
motivazionali», fatti a un tempo di spinte fisiologiche e
dell’interiorizzazione di assetti relazionali.
Bibliografia
Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006