psicoanalisi oggi
La psicoanalisi ha più di un
secolo, è diffusa in tutto il mondo anche se tra tante vecchie e nuove
polemiche, e, nell’occuparcene, possiamo contare su una letteratura
sterminata e facilmente accessibile di testi, dizionari, lessici,
storiche voci enciclopediche redatte da autori prestigiosi. È
preferibile, dunque, non ricalcare i classici percorsi biografici e
concettuali ma, piuttosto, utilizzare lo spazio di queste pagine per
mettere in luce lo statuto della psicoanalisi nella cultura attuale
come disciplina, come metodo e come prassi terapeutica, per
riconsiderarne gli assunti teorici e clinici basilari e valutare quali
evoluzioni, involuzioni, tendenze siano oggi operanti all’interno del
movimento psicoanalitico stesso.
La prima difficoltà espositiva sorge dal fatto che, nel linguaggio
corrente, ogni approccio clinico basato sull’ascolto, ogni offerta di
aiuto tramite la parola, viene definito sbrigativamente psicoanalisi.
Alla oggettiva complessità dei problemi storici, culturali e,
nell’accezione più ampia del termine, politici si aggiunge la
confusione non solo tra i cosiddetti profani, tra il grande pubblico
dei potenziali pazienti, ma anche tra le persone di cultura e tra gli
operatori stessi della salute mentale. Molti faticano a capire quali
siano le differenze tra psicoanalista, psicoterapeuta, psicologo,
psichiatra, a distinguere tra scuole, percorsi formativi, appartenenze
istituzionali, tra indirizzi e modelli di cura psichica, a orientarsi
su chi la possa somministrare, a cosa e a chi possa servire, su quali
ne siano le indicazioni e i limiti.
A rigore, psicoanalisti dovrebbero essere coloro che discendono dalla
linea freudiana e hanno compiuto un training formativo all’interno
dell’IPA (International Psychoanalytical Association), che raccoglie
ancora oggi tutte le singole società componenti, fondata da Sigmund
Freud stesso nel 1910 a Norimberga con lo scopo di «coltivare e
promuovere la scienza psicoanalitica nel mondo». I membri dell’IPA sono
poche migliaia, oggettivamente una minoranza in confronto alle sempre
più folte schiere di coloro che esercitano oggi le più svariate forme
di psicoterapia. Ciascuna scuola è connotata da un nome che ne indica
l’identità specifica (psicologia analitica, psicoterapia sistemica,
cognitiva, comportamentista o transazionale); ma nell’uso prevale ormai
l’indifferenziazione. Ovviamente, sul piano della cultura, Freud è di
tutti e molti ne utilizzano più o meno esplicitamente le teorie anche
se non si riconoscono nella linea dell’IPA; ma proprio per questo è
ancor più importante che le differenze siano chiare.
Il confronto tra le varie scuole e le inesauribili polemiche circa la
solidità teorica e l’affidabilità clinica dei vari indirizzi è un altro
problema che nella presente occasione non affronteremo neppure; ma è
comunque evidente che l’ambiguità e la confusione vanno a discapito
delle società più serie e rigorose.
In ordine a un’esigenza preliminare di chiarezza, è necessario dunque
precisare che in queste pagine si parlerà di psicoanalisi e di
psicoanalisti in un senso specifico e restrittivo.
I numeri
In tutto il mondo, alla fine del 2007, i membri componenti dell’IPA
erano 11.836 (distribuiti nel seguente modo: 3605 in America
Settentrionale, 3033 in America Meridionale, 5198 in Europa e nel resto
del mondo) più gli allievi. Per ragioni storiche e culturali non sempre
facili da spiegare, la distribuzione per aree geografiche è assai
disomogenea (v. tabella) e si notano vistose disparità locali nel
rapporto tra numero degli psicoanalisti e numero degli abitanti. Per
es., soltanto 133 psicoanalisti operano in Austria, patria della
psico-analisi; un numero davvero esiguo se confrontato con quello della
Germania, che può contare 1130 membri. Così, ci sono 155 psicoanalisti
in Israele, ma soltanto 23 in tutta la Russia. Sappiamo che l’ampia
diffusione in America Settentrionale e Gran Bretagna deriva dalle
forzate migrazioni dei pionieri della psicoanalisi, in gran parte
ebrei, all’epoca delle persecuzioni naziste. Lo stesso Freud
(1856-1939) fu costretto a riparare con la famiglia a Londra, dove
trovò calda accoglienza e fertile terreno culturale, nel 1938, pochi
mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania hitleriana. Il grande
sviluppo in America Latina, particolarmente in Argentina e in Brasile,
ha la stessa radice e venne ulteriormente propiziato dal successivo
flusso migratorio degli anni Quaranta e Cinquanta.
Nuclei di aggregazione più recenti si registrano in territori ‘vergini’
come la Nuova Zelanda o la Repubblica di Corea; nei Balcani o nell’area
che una volta si chiamava ‘oltre cortina’. Fa eccezione l’Ungheria,
unico Paese che sia riuscito a salvaguardare la sua storica e
prestigiosa identità psicoanalitica anche negli anni del regime
sovietico. In altri Paesi, nutriti da tradizioni culturali ed
esistenziali molto diverse, sono ancora attivi piccoli gruppi fondati
ormai molti anni addietro da personalità carismatiche come Emilio
Servadio (1904-1995, unico psicoanalista ebreo che cercò rifugio dalle
persecuzioni naziste verso Oriente) in India, o come Takeo-Doi
(1920-2009) in Giappone. Quanto all’Italia, si contano, sempre nel
2007, 841 soci, ai quali vanno aggiunti gli allievi.
La Società italiana di psicoanalisi, fondata nel 1932 da Edoardo Weiss
(1889-1948) – analizzato da Paul Federn, a sua volta discepolo diretto
di Freud –, fin dal 1935 entrò a far parte dell’IPA. Disciolta in epoca
fascista, si ricompose nel dopoguerra e ha sempre conservato un
carattere privato; i suoi padri fondatori sono Servadio, Cesare Musatti
(1897-1989) e Nicola Perrotti (1897-1970). Attualmente convivono due
società: la Società psicoanalitica italiana (SPI) e l’Associazione
italiana di psicoanalisi (AIPsi), nata nel 1992 per scissione dalla
SPI, con Servadio tra i soci fondatori.
Il training
L’iter formativo di uno psicoanalista, il cosiddetto training, è
divenuto nel corso degli anni più lungo e severo, se confrontato con i
tempi e i modi delle origini, quando le analisi si facevano in
famiglia, tra persone unite da legami di amicizia e addirittura di
parentela (Freud analizzò la figlia Anna, Carl Gustav Jung la moglie),
per pochi mesi e in condizioni di precarietà.
Oggi, secondo le norme delle società componenti l’IPA, salvo qualche
variante locale, dopo la laurea in medicina oppure in psicologia,
l’aspirante psicoanalista deve sostenere tre colloqui a carattere
informativo-selettivo con altrettanti analisti didatti. Se l’esito dei
colloqui si rivela positivo, il candidato potrà iniziare la sua
psicoanalisi personale; in altre parole, potrà intraprendere egli
stesso un percorso analitico come un qualsiasi altro paziente,
imparando così dalla sua viva esperienza cosa significhi entrare in
contatto con il proprio mondo inconscio e con le proprie parti
sofferenti. Soltanto dopo un determinato periodo di analisi (non meno
di due anni), sosterrà un nuovo colloquio, in seguito al quale verrà o
meno ammesso a frequentare l’Istituto e a seguire i corsi di
insegnamento teorici e clinici. Parallelamente, l’aspirante
psicoanalista dovrà svolgere attività clinica sotto la supervisione e
la consulenza di analisti didatti diversi dal suo analista personale.
Questa seconda fase dura circa 4 o 5 anni, durante i quali egli
continuerà l’analisi personale. Alla fine il candidato dovrà sostenere
una discussione con il comitato del training, corredata da un resoconto
scritto dell’attività svolta durante il periodo di formazione. Una
volta superata quest’ultima fase, verrà accettato come membro della
società componente e, in ordine al regolamento internazionale, anche
dell’IPA.
Analisi selvaggia e analisi laica
Fin dalle origini, l’atteggiamento della psicoanalisi rispetto alla
selezione dei candidati è stato al tempo stesso severo e liberale.
Freud definì ‘selvaggi’ coloro che pretendevano di curare
analiticamente e fornivano interpretazioni ai pazienti senza essersi
sottoposti preliminarmente all’analisi e al training. Per contro, nel
famoso saggio uscito nel 1926 (Die Frage der Laienanalyse; trad. it. Il
problema dell’analisi condotta da non medici, in Opere, 10° vol., 1978)
prese decisamente posizione a favore degli psicoanalisti ‘laici’ (cioè
non medici) nel violento dibattito giuridico che si era acceso negli
Stati Uniti.
Le società psicoanalitiche danno infatti tuttora un peso relativo alla
preparazione universitaria precedente, poiché considerano che la vera
formazione sia quella dello specifico training istituzionale.
I primi discepoli freudiani erano medici psichiatri; ma anche
scienziati, musicisti, artisti, autodidatti. Negli storici Istituti di
Vienna e di Berlino si privilegiavano candidati di ampia e vasta
cultura letteraria e umanistica. Anche in Italia, alcuni nostri
pionieri erano laureati in matematica (Musatti) o in giurisprudenza
(Servadio, Pietro Veltri, 1904-1989).
Nella modernità è la legge a imporre le norme, al di sopra dei
regolamenti delle singole associazioni. In tutto il mondo ormai è
consentito l’accesso alle scuole di psicoterapia solo ai laureati in
medicina o in psicologia; e la tendenza spontanea dei candidati sembra
andare decisamente in favore della psicologia.
In conclusione, si può dire che quello contro i ‘selvaggi’ è un
contenzioso ormai perenne, mentre quello a favore dell’analisi ‘laica’
è stato vinto, seppure con qualche tardivo rammarico, poiché si va così
sempre più impoverendo la collaborazione tra psicoanalisi e
psichiatria, al servizio dei pazienti sofferenti delle patologie più
gravi.
Il percorso legislativo in Italia
In Italia, fino agli anni Settanta, qualunque medico era autorizzato a
praticare la psicoterapia senza alcuna preparazione specifica. Dopo la
laurea in medicina, poteva però conseguire la specializzazione in
malattie nervose e mentali, che comprendeva malattie organiche
neurologiche e affezioni psichiatriche, trattate con farmaci, ricoveri,
trattamenti fisici (dall’elettroshock alla psicochirurgia). Per avere
un’idea dell’atteggiamento culturale dell’epoca, si può segnalare che
l’esame di neuropsichiatria del corso di laurea in medicina di quegli
anni era basato su un volume di quasi 1000 pagine per la neurologia e
di uno scarno libricino per la psichiatria.
Non senza conflitti e polemiche, nel 1976 fu sancita la separazione tra
neurologi e psichiatri (l. 29 apr. 1976 n. 238). I primi psicoanalisti
operavano dunque in un contesto riduttivo e organicista e – qualora
fossero psichiatri che lavoravano nelle strutture pubbliche – dovevano
cercare di introdurre quasi clandestinamente i principi psicodinamici
della psicoanalisi. Non è questa l’occasione per rivisitare la dolente
e tuttora irrisolta questione della riforma psichiatrica. Va però
segnalato che ci sono grandi differenze da Paese a Paese e che in altre
culture, per es. nei Paesi anglosassoni, il rapporto tra psichiatria e
psicoanalisi è stato ed è assai più fertile e integrato.
A partire dal 1971 venne istituito il corso di laurea in psicologia
(dapprima a Padova e Roma), nel 1991 si decretò la nascita della
facoltà di Psicologia e parallelamente prese avvio il tormentato iter
legislativo teso a stabilire chi possa – e soprattutto chi non possa –
esercitare la complessa e indefinita arte della psicoterapia, con la
difficilissima necessità di conciliare il criterio delle garanzie verso
gli utenti con le esigenze identitarie e le specificità culturali delle
singole scuole.
La l. 18 febbr. 1989 n. 56 disciplina l’ordinamento della professione
di psicologo e fissa i requisiti per l’esercizio dell’attività
psicoterapeutica. L’art. 3 della legge subordina l’esercizio
dell’attività psicoterapeutica all’acquisizione, successivamente alla
laurea in psicologia o medicina e chirurgia, di una specifica
formazione professionale mediante un tirocinio clinico, l’esame di
Stato e l’abilitazione, seguiti da un corso di specializzazione, almeno
quadriennale, attivato presso scuole di specializzazione universitarie
o presso istituti riconosciuti. Evidentemente la questione più
difficile e controversa è stata (ed è ancora) quella di selezionare le
scuole: nel 2007 ne risultavano accettate ben 311. Di fronte alla
legge, tutte queste scuole diventano equivalenti e il criterio della
qualità è difficile da stabilire con parametri oggettivi.
Le società psicoanalitiche di tutto il mondo non hanno avuto difficoltà
a essere riconosciute dalle pubbliche istituzioni, in ragione del
prestigio storico e del loro già rigorosissimo training, ma il doversi
adeguare a controlli e a normative burocratiche esterne ha avuto
conseguenze tutt’altro che trascurabili. In Germania, per es., dove
esistono sovvenzioni sociali per la psicoterapia, sono gli enti
pubblici, guidati da criteri amministrativi, a stabilire il ritmo e la
durata dei trattamenti.
Teoria e clinica
Nel corso della storia della psicoanalisi si registrano significative
evoluzioni; ma in questa particolare disciplina i progressi avvengono,
più che per contrapposizione o superamento, per apposizione. Nella
maggior parte dei casi i nuovi contributi non fanno decadere i
paradigmi originari, con i quali coesistono, si articolano e dialogano.
Così, per es., le moderne concettualizzazioni del narcisismo di autori
come Herbert Rosenfeld o André Green – radicate in modelli teorici
molto personali e diversificati – possono convivere nella scena
psicoanalitica internazionale e non entrano in contraddizione con le
antiche ipotesi freudiane.
Ogni lettore odierno può agevolmente interrogare le fonti del pensiero
di Freud nei suoi tanti e corposi saggi-casi clinici, principi di
psicopatologia e di meta-psicologia, speculazioni sul mito, sulla
società, sulla storia, sull’arte e sugli artisti scritti nel suo stile
limpido e avvincente, raccolti nella monumentale opera omnia in
tedesco, tradotta poi in tante altre lingue. In Italia il compito è
stato assolto dalla casa editrice Bollati Boringhieri, che l’ha
pubblicata in dodici volumi (OSF), accompagnati da un denso apparato
critico, più altri recenti volumi di epistolari e appendici. A margine,
particolarmente da quando sono scaduti i diritti editoriali (1989), si
consuma la spinosa questione della traduzione e ritraduzione, della
fedeltà e infedeltà al testo freudiano, dell’interpretazione filologica
e letterale da parte di coloro che, tra velenose polemiche, si
cimentano in tale impresa infinita. Non sono fruibili altrettanto
agevolmente, purtroppo, gli scritti della maggior parte degli autori
contemporanei, troppo spesso chiusi in un gergo autoreferente e in un
linguaggio tecnico che rende poco accessibili i contenuti a un lettore
non specialista.
Per comprendere la portata delle trasformazioni teoriche e cliniche
della psicoanalisi moderna sarà dunque opportuno ricordare, sia pure
sommariamen-te, i concetti basilari che, anche se non mantengono
immutata la loro validità e pregnanza operativa, tuttavia fungono da
pietra di paragone.
Il costrutto concettuale ideato da Freud è al tempo stesso una teoria
metapsicologica, un metodo di indagine sul funzionamento della mente
normale e patologica e, soprattutto, una prassi terapeutica. La
particolarità della psicoanalisi è che questi tre livelli sono legati
da una circolarità intrinseca: ogni concetto astratto nasce
dall’esperienza clinica, a partire dalla quale si costruisce la teoria
da cui deriva lo specifico metodo.
L’intuizione fondamentale della psicoanalisi è l’esistenza
dell’inconscio, parte prevalente dello psichismo umano, composto
secondo la cosiddetta prima topica di tre livelli: conscio, inconscio e
preconscio. La nota metafora freudiana rappresenta la psiche come un
iceberg, nel quale solo la piccola parte che emerge dall’acqua
corrisponde alla coscienza, mentre l’inconscio corrisponde all’enorme e
inquietante massa sommersa. Alla base dello psichismo domina il
cosiddetto principio del piacere-dispiacere, che solo tardivamente e
con fatica cede il controllo del funzionamento al più maturo principio
di realtà. L’inconscio può essere conosciuto e analizzato soltanto
attraverso i suoi derivati: innanzi tutto i sogni (via regia per la
dimensione inconscia, secondo Freud), ma anche i sintomi e i lapsus dei
singoli individui, e ancora tramite i miti e le leggende dei popoli.
L’assunto basilare è che tutti questi materiali, apparentemente assurdi
e sconnessi, hanno invece un senso che può essere decifrato nella
normalità e nella patologia.
La seconda topica, formulata da Freud in un momento successivo,
distingue nel processo di sviluppo l’organizzarsi della struttura
psichica, che si differenzia in Io (che non coincide semplicemente con
la coscienza), Es (il serbatoio delle pulsioni sessuali e aggressive) e
Super-Io (l’istanza normativa, protettiva e punitiva che ciascuno
interiorizza a partire dalle relazioni e dalle successive
identificazioni con le figure autorevoli dell’infanzia). Nel corso del
processo di sviluppo, si organizza – o si disorganizza – la struttura,
secondo meccanismi di regolazione e specifici meccanismi di difesa che
cercano di proteggere l’io dall’angoscia (rimozione, proiezione,
scissione, diniego, isolamento).
Lo scenario, tuttora vigente, della cura psicoanalitica prevede il
paziente steso sul lettino e l’analista seduto alle sue spalle. Tale
scenario è correlato al cosiddetto setting delle norme formali: 4 o 5
sedute settimanali (sebbene vi sia una tendenza a ridurre la frequenza)
di 45 minuti, con il terapeuta in silenzioso ascolto, in atteggiamento
di astinenza (di non gratificazione di impulsi e desideri) e neutralità
(di rinuncia a dare suggerimenti, suggestioni, giudizi). Tutto ciò
favorisce l’emergenza del livello inconscio e della realtà interna
dell’analizzato. La frequenza delle sedute è preliminarmente fissata,
con il corrispettivo onorario.
Il lettino – che sia ricoperto da cuscini orientali come quello di
Freud, o lineare nella sua essenza di pelle e acciaio come quello
disegnato da Le Corbusier – è diventato lo stereotipo della terapia
psicoanalitica nell’immaginario collettivo; e non a caso tale strumento
concreto ed esteriore viene adottato imitativamente come elemento di
arredo anche da tanti psicoterapeuti di altri indirizzi. Per parte sua,
l’analizzato gode della licenza di dire tutto ciò che vuole, ma non di
agire; deve lasciar fluire dalla mente le cosiddette libere
associazioni, pensieri spontanei che possano consentire l’accesso alla
dimensione inconscia. In tale specialissimo clima emotivo, che
favorisce una temporanea regressione, si riattivano le antiche
dinamiche relazionali: il transfert del paziente sull’analista, che
rivive nell’attualità antichi conflitti e passioni con personaggi
basilari del suo passato; al quale – come si sarebbe compreso meglio in
epoca postfreudiana – si aggiunge la risposta affettiva inconscia del
terapeuta, il cosiddetto controtransfert. Lo psicoanalista, nella
cornice affettiva e cognitiva della relazione, offre contenimento
silente alle angosce e formula specifiche interpretazioni, seppure
consapevole che meccanismi difensivi e resistenze inconsce del paziente
si oppongono sempre al processo della cura e al cambiamento, per il
motivo – non banale – che cambiare è doloroso. Secondo l’esperienza
psicoanalitica, per questa via lunga e faticosa è però possibile
ottenere modificazioni profonde e stabili della personalità.
Evoluzioni, involuzioni, trasformazioni
Fino a ora il discorso è stato oggettivo, sostenuto dai dati storici e
dai numeri. Le considerazioni seguenti, più interessanti e complesse,
sono fortemente segnate invece dalla soggettività di chi scrive; poiché
riguardano la discussione su quali siano gli elementi basilari ancora
oggi validi della teoria psicoanalitica classica; quali siano le
evoluzioni che consentono di continuare a fare riferimento a Freud e
quali invece se ne discostano; e infine quali siano le involuzioni e i
limiti della psicoanalisi nella società moderna. Seguendo dunque un
criterio dichiaratamente opinabile, si possono tracciare alcune
valutazioni.
a) Il primo punto saldo è la necessità dell’analisi personale di ogni
psicoanalista, poiché noi siamo al tempo stesso medico e medicina. La
persona del terapeuta è strumento di indagine del mondo interno del
paziente, basata sulla capacità di fare riferimento costante al
funzionamento del proprio inconscio quale necessaria garanzia per
avventurarsi in quello dell’altro. Proprio a partire da una rigorosa
formazione uno psicoanalista si può poi cimentare in tanti tipi di
intervento. Questo è un assunto tuttora condiviso (tanto che molti
psicoterapeuti di altre scuole si sottopongono ad analisi personale con
psicoanalisti). Fanno eccezione alcuni lacaniani che non fanno parte
dell’IPA e che, pur condividendo il patrimonio teorico freudiano,
pensano che l’analisi personale, sia pure didattica, non si possa
imporre e che ciascuno sia legislatore di sé stesso. Auspicano che gli
allievi sentano l’esigenza dell’analisi personale, ma non la
pretendono, né tanto meno la controllano.
b) L’analisi del sogno continua a essere di importanza cruciale nella
teoria e nella clinica psicoanalitica. Oltre un secolo fa, nel 1900,
Freud aveva pubblicato Die Traumdeutung, sua opera capitale, frutto in
gran parte della lunga e sofferta autoanalisi (tuttora il più noto,
tradotto, citato e contestato dei suoi scritti). Ancora oggi riteniamo
con lui che i sogni siano spia preziosa dei processi inconsci,
appagamento illusorio di desideri, compenso ed elaborazione delle
frustrazioni del reale, teatro della mente, messa in scena dei
conflitti irrisolti. Gli riconosciamo, però, un’ulteriore funzione di
costruzione del pensiero, di traduzione in immagini del ‘non
rappresentato’ originario. Nella linea di Wilfred R. Bion (1897-1979),
non diciamo più che è l’inconscio a creare il sogno, ma piuttosto che è
l’attività onirica a creare l’inconscio.
c) La psicoanalisi ha scoperto che molte patologie, apparentemente
incomprensibili e prive di senso, hanno origine da vicissitudini
relazionali distorte. L’etiopatogenesi psicogena è sempre considerata
però, oggi come ieri, nel più ampio quadro della multifattorialità,
cioè della concorrenza di tanti variabili fattori interni ed esterni,
biologici e psicologici, culturali e naturali. Il rigido nesso di
causa-effetto – quale che sia l’ambito nel quale viene ipotizzato – è
considerato un grave errore riduzionista.
d) Continuiamo a pensare che il passato infantile e gli eventuali
traumi precoci segnino l’evoluzione della personalità adulta, ma non in
un senso banalmente lineare. Viene invece rivalutato il concetto
freudiano di Nachträglickeit, mal traducibile in italiano come
‘risignificazione retroattiva’; non solo il passato determina il
presente, ma a sua volta – sovvertendo l’ordine temporale – il presente
risignifica a posteriori e conferisce nuovo senso alle vicissitudini e
ai traumi del passato.
e) Il dualismo delle pulsioni continua a essere il punto più debole
della teoria psicoanalitica, da Freud ai nostri giorni. Il perenne
conflitto, la contrapposizione e la fusione/defusione di Eros e
Thanatos, di libido e aggressività mantengono un ruolo basilare; ma
continuiamo a interrogarci sulla differenza tra istinto e pulsione, a
chiederci quale sia lo statuto delle pulsioni dell’Io, di
autoconservazione, se l’aggressività sia una conseguenza della
frustrazione o se esista una pulsione innata di morte, quale sia la
differenza tra aggressività e distruttività. Fin dall’epoca di Drei
Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905; trad. it. Tre saggi sulla teoria
sessuale, in Opere, 4° vol., 1967), Freud aveva formulato la
convinzione, scandalosa per l’epoca, circa la sessualità infantile: il
bambino non più visto come la creatura angelicata della cultura
vittoriana, ma come un piccolo perverso polimorfo agitato da angosce e
profonde passioni. Sul terreno clinico, l’analisi delle vicissitudini
della sessualità nel corso dello sviluppo, durante l’intero arco della
vita, mantiene la sua importanza: la sessualità non è solo sesso; ma
oggi si dà giustamente maggior rilievo all’aggressività.
f) Il processo di sviluppo femminile normale e patologico è stato
radicalmente criticato, a partire dalla visione fallocentrica di Freud,
ma soprattutto delle sue prime allieve che – come è noto – formularono
contro il loro sesso le teorizzazioni più svalutanti e feroci, sancendo
un’identità mutilata, dominata dalla triade ‘masochismo, passività,
narcisismo’, condannata a un’eterna infanzia senza istinti, consegnata
a un destino di invidia e mancanza. Oggi possiamo invece contare su un
ricco patrimonio di idee che hanno riconsiderato il percorso
identitario di genere e sessuale delle donne e che, necessariamente,
hanno scardinato e riedificato, nella dimensione relazionale, anche
tutti i classici parametri del maschile. Le donne (Lou Andreas-Salomé,
Helen Deutsch, la figlia di Freud Anna) – fatto non banale –
parteciparono senza discriminazioni all’avventura psicoanalitica fin
dai primi passi. Può essere interessante sapere che se tra gli
psicoanalisti italiani di prima generazione compariva una sola donna
(la principessa Alessandra Tomasi di Lampedusa, 1895-1982), il rapporto
uomo/donna si è andato poi progressivamente spostando nel corso del
tempo: un terzo di presenze femminili tra i didatti, circa la metà tra
i soci, più della metà tra i candidati. È probabile, quindi, che –
analogamente a quanto si riscontra anche a livello internazionale – la
psicoanalisi si rivelerà sempre più una professione congeniale al sesso
femminile.
g) L’evoluzione più importante e significativa del dopo Freud, dagli
anni Quaranta ai nostri giorni, è stata senza dubbio l’esplorazione dei
livelli precoci dello psichismo, cosiddetti pre-edipici, e di
conseguenza si è affinata l’analisi del narcisismo e delle patologie
narcisistiche che derivano da deficit e distorsioni relazionali
avvenuti in epoche precoci della vita. Sono aree dello psichismo nelle
quali non sono ancora definiti i confini tra dentro e fuori, mentale e
corporeo, e il limite tra ‘me’ e ‘non me’ è confuso, fluido e
continuamente rinegoziato. In quest’ambito un contributo prezioso,
accettato universalmente, è quello di Donald W. Winnicott (1896-1971) a
proposito dei cosiddetti fenomeni transizionali, nella norma e nella
patologia. L’esempio più tenero e banale è l’orsacchiotto che stringono
a sé i bambini per affrontare il delicato passaggio dalla veglia al
sonno: oggetto di transizione, appunto, tra sé e non sé, tra il proprio
corpo e quello della madre, rassicurante contatto sensoriale, al
confine del simbolico. Ai nostri giorni, l’essere umano a cui
guardiamo, nella norma e nella patologia, è complesso, ma non compatto,
e in esso dobbiamo riconoscere la coesistenza di livelli evolutivi e di
funzionamento diversi. Nella teoria e nella clinica le due dimensioni
intrapsichica (di rapporti tra parti di sé, tra i cosiddetti oggetti
interni, di identificazioni e introiezioni) e interpsichica (di
rapporti con gli altri) sono sempre necessariamente intrecciate.
L’intrapsichico è abitato dalle relazioni già vissute mentre
l’interpsichico è condizionato e colorato dalle ‘forme’ del mondo
interno. Fondamento ontologico dell’individuo, la duplice dimensione
dell’interiorità (unica ed essenziale) e dell’incontro con l’alterità
(punto di riferimento speculare per la costruzione dell’identità) è
d’altronde un criterio irrinunciabile non solo per ogni psicoanalista,
ma anche per chiunque – in epoca di ‘crisi del soggetto’ – sia
uomo/donna della modernità.
È specificamente nel transfert che si evidenzia come l’interpsichico si
coniughi con l’intrapsichico e come le interpretazioni di transfert si
completino, in una complessa circolarità, con le interpretazioni tra
gli oggetti interni del paziente, eredi a loro volta delle antiche
relazioni. L’approccio a patologie gravi ci confronta infatti con
organizzazioni vieppiù instabili, che veicolano nel transfert stati di
‘non integrazione’ o ‘scissi’ della persona. Lo strumento precipuo per
entrare in contatto con tali livelli cosiddetti preverbali del paziente
– nel regime delle sensazioni e degli affetti, più che dei pensieri –
diviene il controtrans-fert dell’analista; il quale attualmente appare
oggi più avvertito di tali implicazioni, più attrezzato all’ascolto, ma
non in minori difficoltà.
L’attenzione ai livelli precoci ha dato un ruolo fondamentale al
registro preverbale degli affetti quali tessuto connettivo della mente,
cerniera tra psiche e soma. Emozioni e sentimenti, così intrisi di
fisicità, sono ingredienti necessari per la ragione, per lo svolgersi
delle funzioni intellettuali ‘alte’, dall’apprendimento alle scelte
etiche ed estetiche. Non esiste però ancora un preciso accordo sulla
distinzione metapsicologica tra emozioni, affetti, umori, sentimenti.
Il contributo personale dell’analista, dunque, quando si lavora a
livelli precoci dello psichismo, è più sostanzioso; il muoversi nel
triplo registro cognitivo, affettivo e sensoriale, invoca la sua
creatività e generosità; ma lascia anche più margine all’arbitrio.
h) I meccanismi di difesa sono cambiati: se all’epoca di Freud era in
primo piano la rimozione, oggi si parla più spesso di scissione o di
regressione all’ambiguità. Resta da stabilire quanto ciò corrisponda a
un effettivo mutamento, oppure derivi da un diverso approccio teorico
attuale. Rimane comunque un punto delicato trovare l’equilibrio tra le
due funzioni basilari del terapeuta: l’analisi dei livelli precoci e
l’analisi di quelli più evoluti; il contenimento emotivo, l’ascolto
silenzioso e l’interpretazione. L’obiettivo è infatti sempre
l’integrazione tra parti e livelli.
Le indicazioni
Storicamente, i primi pazienti di Freud erano affetti da nevrosi
ossessiva, isteria, ma è ormai un dato consolidato dall’esperienza che
non solo le nevrosi, ma anche le più gravi patologie narcisistiche, le
psicosi e le cosiddette sindromi borderline possono trarre giovamento
dalla psicoanalisi, purché si trovi il terapeuta disposto e preparato
ad assumersene il carico. Tuttavia, il trattamento psicoanalitico
classico, con il paziente sdraiato sul lettino, trova la sua
indicazione solo in una percentuale limitata di casi, seppure più per
motivi contingenti esteriori che per ragioni cliniche.
Poiché l’analisi non ha il compito limitato di eliminare i singoli
sintomi, ma si propone di ristrutturare l’intera personalità, favorendo
i processi maturativi e integrativi dello sviluppo mentale che le
vicende patologiche hanno interrotto e distorto, ciò inevitabilmente
richiede un impegno lungo e continuativo.
Il problema delle indicazioni al trattamento psicoanalitico si
intreccia con quello del cambiamento della patologia che si registra
ormai da alcuni decenni nelle nostre società occidentali: le nevrosi
classiche sono quasi scomparse, mentre aumentano le patologie
identitarie di base, le personalità imitative, i ‘come se’, i ‘falsi
Sé’. Le specifiche sindromi – perversioni, fobie, disturbi alimentari,
connotate da particolari strutture e vicissitudini psicopatologiche –
si configurano sempre più spesso come sintomatologie aspecifiche e
fluttuanti. I criteri di scelta sono comunque molto diversi da quello
che comunemente si crede. Non è vero, per es., che solo persone di un
certo livello culturale possono intraprendere l’analisi, mentre è vero
che una certa qualità di intuizione e di intelligenza rappresenta un
valido aiuto. Neppure l’età è un elemento determinante: sempre più,
anzi, l’indicazione di analisi si estende dall’età infantile
all’adolescenza, fino alla maturità e anche alla vecchiaia.
Non si può invece negare che i fattori esterni di realtà, tempo e
denaro, abbiano un grande peso. L’esigenza è quella di trovare, accanto
alla psicoanalisi, altre modalità di intervento senza svilire o
degradare lo strumento terapeutico. A ogni modo, la più autentica
indicazione all’analisi restano l’esigenza e la disponibilità a volere
vedere chiaro in sé stessi, il grado di sofferenza e il coraggio di
cercare dentro di sé le cause e le soluzioni delle proprie angosce.
Altre possibilità di intervento
Evidentemente gli psicoanalisti non fanno solo psicoanalisi. Più spesso
anzi svolgono psicoterapie di indirizzo psicoanalitico, condotte a
ritmo e durata ridotti, in cui si cerca di affrontare in modo
circoscritto un singolo problema. Talvolta, anche solo una breve serie
di due o tre colloqui può aiutare il paziente a focalizzare una
difficoltà in un momento di crisi e a superarla poi con le proprie
forze. Inoltre, molti si impegnano parallelamente, in ambito sia
pubblico sia privato, in altre aree: interventi di psicoterapia
combinati con ricovero in comunità, con trattamenti psicofarmacologici,
consultazioni individuali, consulenze in scuole e ospedali, formazione
di personale specializzato, attività di insegnamento nel contesto più
vasto della cultura e così via. È chiaro che se variano il tipo di
intervento, il destinatario, il contesto, deve necessariamente cambiare
anche il relativo setting. L’intervento più utile, quello preventivo,
per es. nei reparti di ostetricia o di pediatria ospedalieri, è invece
purtroppo il meno praticato.
Fanno parte delle attività cliniche anche le varie psicoterapie
derivate dalla matrice psicoanalitica: psicoterapia della coppia, della
famiglia, dell’infanzia, dell’adolescenza. Un grande sviluppo hanno
avuto le diverse forme di terapia di gruppo, che fanno prevalentemente
riferimento al pensiero di Siegmund H. Foulkes (1898-1976) e W.R. Bion.
Ciascuna di queste modalità di cura è praticata anche da psicoterapeuti
di altre scuole.
Un altro interessante ambito di attività è quello della cosiddetta
psicoanalisi applicata alla storia, alla filosofia, alla politica, alla
sociologia e, soprattutto, all’arte. È una definizione desueta,
considerata oggi troppo imperialista nella pretesa di esportare e,
appunto, applicare meccanicamente gli strumenti psicoanalitici in
contesti extraclinici. Attualmente siamo giustamente molto critici
rispetto all’ingenuo entusiasmo dei pionieri, che si concedevano la
licenza di interpretare artisti e opere d’arte. L’interesse tuttavia
continua a essere molto vivo, seppure con una salutare rivisitazione
della metodologia di volta in volta implicata, più attenta alla
dimensione relazionale e contestuale.
La psicoanalisi può offrire interessanti occasioni di impegno
interdisciplinare anche nel campo del lavoro, delle imprese, delle
organizzazioni pur se in questi ambiti operano più frequentemente
psicologi appartenenti ad altre scuole.
La cosiddetta medicina psicosomatica, nata dalla psicoanalisi, ha
attualmente una vasta, ma ambigua fortuna; le superficiali
semplificazioni correnti, che propongono rozzi nessi di causa-effetto
tra supposte fantasie inconsce rimosse e sintomi patologici del corpo,
sono fuorvianti e molto lontane da una corretta visione del rapporto
tra mente e corpo.
Tutto nell’umano esperire è psicosomatico, in salute e in malattia,
poiché la psiche, come insieme strutturale e funzionale, è in continua,
dinamica relazione sia con l’ambiente esterno, sia con quello interno
corporeo. Nella nostra disciplina è impossibile separare l’attività
psichica non solo da quella cerebrale, ma anche da quella corporea
nella sua interezza. Il corpo è nella mente, come schema, immagine,
rappresentazione di sé, e la mente, per contro, abita il corpo in ogni
sua parte: nelle circonvoluzioni cerebrali come nei visceri, nella
muscolatura scheletrica come nella pelle, a vari livelli di
consapevolezza e di integrazione. Non possiamo prescindere, difatti, né
in clinica, né in teoria, da quella globalità psicofisica secondo la
quale, come già scriveva Freud, l’Io stesso, all’origine, è un Io
corporeo; e successivamente, nel corso dello sviluppo, le articolazioni
più raffinate del pensiero e dell’astrazione sempre coesistono e si
declinano con i livelli più arcaici e concreti, consci, preconsci e
inconsci, al confine con il biologico.
La salute psicofisica dipende dai processi di integrazione, in un
costante mobile equilibrio. Coerentemente con tali assunti, l’approccio
psicosomatico dovrebbe, dunque, mirare soprattutto alla
sensibilizzazione dei medici verso una visione integrata della
malattia, più che al trattamento di singoli pazienti o di singole
patologie.
Le scuole affini
Come abbiamo detto nella premessa, non ci impegneremo nella descrizione
e nella valutazione comparata tra le altre diverse scuole di
psicoterapia basate sulla parola; così come lasceremo a margine i
contrasti con altre concettualizzazioni e altri sistemi di cura del
disagio mentale (per es., terapie organiche quali l’elettroshock, la
psicochirurgia e quelle che ricorrono a un uso massiccio ed esclusivo
di psicofarmaci), molto lontani dalla psicoanalisi per quel che
riguarda presupposti teorici, deontologia, prassi.
È invece opportuno segnalare le terapie affini alla psicoanalisi,
derivate per scissione, ma che tuttavia conservano elementi di base
comuni, come il riconoscimento dell’inconscio. Sono note le precoci
liti e scissioni che funestarono il rapporto tra Freud e i suoi primi
allievi (C.G. Jung, Alfred Adler, Otto Rank, Wilhelm Reich), dalle
quali derivarono i relativi indirizzi quali la psicologia analitica di
Jung (1875-1961), allievo prediletto di Freud, fondata dopo un doloroso
distacco in ragione di contrasti personali, ma anche di autentiche
divergenze teoriche; oppure la psicologia individuale di Adler
(1870-1937), altro allievo ribelle.
Un caso a sé è rappresentato da Jacques Lacan (1901-1981), fuoriuscito
clamorosamente dall’ambito istituzionale, ma che si è sempre dichiarato
un fedelissimo freudiano. Tutti gli psicoanalisti leggono e studiano
oggi le originali teorie di Lacan, pur criticandone alcuni eccessi
polemici, lo stile astruso e soprattutto le bizzarrie tecniche (per
es., lo sconvolgimento del setting, lasciato all’estro e all’arbitrio
del terapeuta). Ci sono però alcuni gruppi (prevalentemente in Francia
e in Italia) che si definiscono psicoanalisti lacaniani, operano
secondo modalità diversificate (per es., ritengono che chiunque sia
legislatore di sé stesso e possa autopromuoversi a terapeuta) e restano
al di fuori dell’IPA.
Un problema serio e molto concreto deriva dalla variegata composizione
degli operatori – di assai variabili indirizzi, talora francamente
dissimili – che possono essere chiamati a collaborare nelle strutture
pubbliche (ASL, consultori, comunità terapeutiche, perizie
giudiziarie). I criteri per cui i singoli pazienti vengono avviati
all’uno o all’altro indirizzo terapeutico dipendono da motivi
esteriori, contingenti. Tutto ciò alimenta la confusione e non va certo
a vantaggio della cura.
Modelli
All’interno della psicoanalisi stessa si possono distinguere diversi
orientamenti e modelli, intorno ai quali si raggruppano gli
psicoanalisti di tutto il mondo che, non senza diatribe e
conflittualità, tuttavia convivono nel grande contenitore dell’IPA.
Oggi si registra maggiore tolleranza istituzionale per le
diversificazioni e forse meno spinta eversiva nei gruppi di quanto
accadesse nel passato; ovviamente è opinabile se questo sia un bene o
un male.
Psicoanalisi classica: prevalentemente di area francese, fa continuo,
esplicito riferimento a Freud, anzi, soprattutto al primo Freud.
L’individuo è visto essenzialmente nell’ottica del cosiddetto complesso
di Edipo, in termini di pulsioni e loro vicissitudini, di lotta per
appagare bisogni, di rimozione, di fantasie inconsce e desideri che
producono conflitti, colpa e angoscia.
Psicoanalisi delle relazioni oggettuali: fa capo agli studi di Melanie
Klein (1882-1960), la personalità più significativa dopo Freud, la
quale diede vita alla psicoanalisi infantile e alla terapia del gioco.
Secondo la Klein e i suoi seguaci, ben prima dell’epoca del complesso
edipico, fin dalle epoche arcaiche della vita il bambino entra in
rapporto con la madre e con il padre, sia pure vissuto ancora in modo
parziale e indistinto. Ogni trauma della prima infanzia è interiormente
conservato come traccia che viene continuamente rimessa in scena. Gli
eventi nuovi vengono assimilati agli antichi drammi secondo il registro
delle fantasie e delle angosce primarie. La scuola kleiniana,
originatasi in Inghilterra, ha oggi seguaci in tutto il mondo.
Psicoanalisi dell’Io (Ego psychology): deriva da Anna Freud
(1895-1982), figlia di Sigmund, e si è sviluppata principalmente in
Gran Bretagna e in America Settentrionale, in aperto contrasto con le
teorie kleiniane (d’altronde le due signore della psicoanalisi furono
apertamente rivali per tutto l’arco della loro esistenza). Secondo tale
corrente, lo sviluppo psicofisico viene inteso in modo abbastanza
lineare; come capacità di progressivo adattamento tra mondo interno e
mondo esterno, in una dialettica tra esame di realtà e difese, secondo
la quale i fallimenti evolutivi si traducono in difetti dell’Io.
Psicoanalisi del Sé: è più difficile dare una definizione globale dei
vari modelli che si riuniscono sotto questo nome (seguaci di D.W.
Winnicott, Heinz Kohut, Eugenio Gaddini) e che esplorano gli stati
soggettivi emergenti, la progressiva delimitazione tra Sé e non Sé, i
diversi gradi di differenziazione tra Sé e l’altro, e che avviano la
costruzione di confini psicofisici e di nuclei identitari. Il termine
Sé (Self) è stato adottato per prendere le distanze dal classico Io
protagonista della struttura di cui parlava Freud. Costoro danno grande
rilievo a problemi e patologie connesse al duale, al materno, al
pregenitale, al preverbale – in contrapposizione alle dinamiche
connesse al triangolo edipico – relativi a livelli, non epoche, nelle
quali non c’è ancora discriminazione tra sé e l’altro.
Altri gruppi di aggregazione si possono individuare in varie aree
geografiche, più o meno esplicitamente connotati dal nome del pensatore
al quale fanno precipuamente riferimento: Winnicott, Lacan, Bion, José
Bleger (1923-1972). Sono nuclei uniti (e divisi) da modelli teorici
talora conciliabili, talora davvero divergenti, ma più spesso da
simpatie, antipatie, questioni di leadership e di politica
istituzionale.
La questione epistemologica
Annosa e ricorrente è la questione della scientificità della
psicoanalisi, del suo statuto epistemologico, della possibilità o meno
di individuare criteri di validazione delle ipotesi metapsicologiche
fondanti e ancor più dell’operare clinico. La psicoanalisi, fondata in
parte essenziale sull’autoanalisi di Freud, divisa – ma mai interamente
compresa – tra scienze naturali e scienze umane, tra
medicina-psichiatria e filosofia, è certo priva di quel marchio di
impersonalità che è considerato un requisito precipuo della scienza.
Tuttavia, occorre considerare che le critiche dipendono strettamente
dal concetto di scientificità al quale si vuole fare riferimento e dal
modello di scienza con il quale si opera.
D’altronde, la filosofia della scienza stessa è agitata perpetuamente
da diatribe, polemiche, vivaci contrasti. Se si adotta il modello
logico empirico-razionalista, le modalità di osservazione e di raccolta
dei dati clinici, di quantificazione, replicabilità, predizione e
falsificabilità della psicoanalisi, sono evidentemente inadeguate. Se
invece ci si colloca sul terreno del cosiddetto postmoderno, dove vige
una concezione relativista della razionalità – secondo la quale è
illusorio pretendere di far derivare la conoscenza dai soli dati
dell’esperienza, in quanto la teoria sempre precede l’osservazione – la
psicoanalisi può essere riconsiderata nell’ambito delle scienze della
soggettività, delle congetture esperienziali e non sperimentali, poiché
è comunque necessario prendere atto della specificità delle singole
esperienze, e ogni riflessione epistemologica deve tener conto
dell’oggetto che indaga.
Certo la psicoanalisi non può aspirare a entrare nel novero delle
scienze ‘dure’, ma non è soddisfacente neppure la scelta di campo di
stampo ermeneutico, che intende la psicoanalisi come una sorta di
‘pratica narrante’, in una deriva dell’interpretazione libera e
duttile, ma abbandonata all’arbitrio. Più adeguata, in una dimensione
euristica, è l’idea direttrice di una tensione verso un metodo; come
strategia di ricerca infinita, più che come affermazione preliminare di
principi.
Da alcuni anni, sull’onda della diatriba epistemologica, alcuni
psicoanalisti nordamericani ed europei si sono dedicati alla cosiddetta
ricerca empirica, con l’intento di esplorare nuove strategie di
indagine più vicine ai criteri oggettivi della comparabilità e della
quantificazione dei dati: un territorio di frontiera senza dubbio
interessante, non tanto per i risultati (al momento modesti; troppo
spesso si assiste a un enorme dispendio di energie per arrivare a
riaffermare l’ovvio), quanto per lo stimolo alla riflessione sulle
metodologie implicate. La ricerca empirica in psicoanalisi, con il
ricorso a questionari, scale numeriche, griglie computerizzate, lungi
dal sanare i punti deboli sul piano epistemologico, rischia così
continuamente di snaturare la specificità e la qualità dell’esperienza
psicoanalitica. Il merito di tutte queste serrate e inesauste critiche
è comunque quello di obbligare gli psicoanalisti a chiarire, innanzi
tutto a sé stessi, i criteri basilari della teoria e la coerenza del
metodo e di non rinunciare allo sforzo di mettere a punto migliori
criteri di osservazione.
Psicoanalisi e neuroscienze
Un interessante terreno di incontro è quello tra psicoanalisi e
neuroscienze. Attualmente, nel piccolo mondo della psicoanalisi circola
infatti un certo entusiasmo, perché la nostra architettura concettuale
si è rivelata in larga misura compatibile con le più recenti e
accreditate acquisizioni delle neuroscienze, particolarmente della
neurobiologia e della neurofisiologia. Un segno tangibile di tale nuova
era è rappresentato dall’enorme mole di lavori che nell’ultimo decennio
sono stati pubblicati nella zona di interfaccia tra psicoanalisi e
neuroscienze.
I vantaggi di un dialogo non riduzionista con le altre branche del
sapere che oggi si rivolgono alla psiche umana, di una reciproca,
aperta conoscenza sono evidenti in entrambe le direzioni: i
neuroscienziati possono offrirci rassicuranti conferme, ma soprattutto
possono limitare taluni perniciosi arbitrii di ‘fantapsicoanalisi’
aiutandoci a non produrre teorie in contrasto con le cognizioni
biologiche attuali. Per contro, gli psicoanalisti possono confutare e
contraddire le semplificazioni e i riduzionismi che caratterizzano
troppo spesso sia le metodologie sia le deduzioni finali degli
scienziati ‘puri’, senza perdere di vista la multifattorialità e il
plurideterminismo che regolano ogni vicenda umana.
Le qualità dell’analista
È infine lecito interrogarsi su quali debbano essere i requisiti di
coloro che si propongono come terapeuti delle sofferenze altrui.
L’analisi personale ha lo scopo di vagliare il progetto del candidato
che vorrebbe diventare analista, di confrontarlo con le sue parti
malate e sofferenti (che in variabile misura ci sono sempre in coloro
che decidono di intraprendere tale atipica professione) anziché
avallare il cortocircuito di porsi preliminarmente dalla parte di chi
cura.
La qualità minimale, ma essenziale dell’analista è comunque la capacità
di sopportare l’angoscia: la propria, come premessa indispensabile per
reggere poi quella degli altri. Ciò comporta la rinuncia, per quanto è
umanamente possibile, alle difese che ostacolano la circolazione inter-
e intrapsichica di pensieri e affetti; particolarmente la rinuncia a
quelle che potremmo chiamare difese professionali stabilizzate, al
servizio delle quali possono andare i livelli più evoluti del pensiero:
l’autoreferenzialità delle argomentazioni, l’autogiustificazione del
proprio operare, la conferma autogestita delle variazioni delle
strategie cliniche.
Fin dall’epoca di Freud, d’altronde, amiamo dire che nel nostro
mestiere etica e tecnica coincidono, come sforzo verso il
riconoscimento dell’alterità. E ciò serve a metterci in guardia dalla
tentazione di prendere il posto dell’ideale dell’Io dei pazienti, di
cercare in essi sotterranee gratificazioni narcisistiche o oggettive e
anche di trovare nel lavoro l’intero senso della nostra esistenza,
dimenticandoci di vivere.
In conclusione, la psicoanalisi moderna continua a fare riferimento a
Freud, ma soprattutto al Freud degli ultimi anni, severo e consapevole
dell’interminabilità del lavoro analitico, della dolorosa rinuncia alle
illusioni, privo di ogni nota di trionfalismo. Così la storia
travagliata della psicoanalisi prosegue, tra le miserie e le follie
private dei singoli, le critiche di taglio epistemologico, politico,
religioso, le accuse di falsa scienza, pratica borghese, fragilità
teorica, inadeguatezza terapeutica a fronte dei supposti repentini
successi degli psicofarmaci. E tutto ciò avviene in contrasto,
peraltro, con tutte le straordinarie acquisizioni teoriche e cliniche
della nostra disciplina.
La psicoanalisi, d’altronde, è in sé una teoria della crisi permanente:
l’esigenza di rivisitare i concetti, di sfidare le certezze raggiunte e
di rimanere accessibile anche a profonde trasformazioni fa parte della
filosofia di fondo come ricerca della verità, sia pure la verità
modesta e destituita di onnipotenza del non mentire a sé stessi. La
crisi, semmai, è degli psicoterapeuti, attratti da altri più sbrigativi
percorsi formativi o da altri apparentemente più oggettivi parametri di
scienza.
Anche l’esiguità numerica è un problema relativo. Anzi, alcuni aneliti
di espansione in nuove aree del mondo e della cultura hanno creato più
problemi che vantaggi. La crescita quantitativa non è mai stata un
obiettivo precipuo; la storia insegna che fin dagli esordi il maggiore
pericolo non proviene dall’ostilità aperta, bensì dai meccanismi
imitativi, dall’inglobamento, dal consumo frettoloso e dalla
trasformazione/deformazione dello spirito di questa particolare
disciplina. La crescita degli psicoanalisti nell’ambito della comunità
internazionale, come pure nel nostro Paese, se è istituzionalmente
rigorosa, non può che essere lenta e numericamente modesta. È invece
vero, purtroppo, che non è facile sopravvivere nella modernità, in una
società dominata dalla superficialità e dalla fretta, nella quale i
criteri legali per l’esercizio della psicoterapia omologano ormai
tutti; nella quale i bisogni di introspezione, di coerenza interiore,
di costruzione del senso di sé e della propria storia appaiono
indeboliti o forse non si sanno più riconoscere. D’altronde, nel cuore
stesso dell’associazione internazionale, tra una bufera e l’altra le
acque sono permanentemente mosse; tra scuole, modelli, correnti che,
alla rincorsa della modernità e del consenso, rosicchiano dall’interno
le pietre angolari: il setting, il transfert e il controtransfert,
l’interpretazione, addirittura il concetto di inconscio.
Tutto ciò rende inevitabilmente assai arduo anche l’incontro clinico
con i pazienti, la possibilità di offrire loro indicazioni corrette.
Sempre più spesso infatti vengono messe ‘in cura’ persone afflitte
dalle fisiologiche difficoltà dell’esistenza, mentre le vere patologie
restano relegate ai margini istituzionali oppure abbandonate a sé
stesse.
La questione non è proteggere la psicoanalisi come una rara specie in
estinzione, ma non lasciare inaridire le condizioni socioculturali
nelle quali possa essere coltivata quale bene comune da non dilapidare.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it