psicologia
Scienza che studia i
processi psichici, coscienti e inconsci, cognitivi (percezione,
attenzione, memoria, linguaggio, pensiero ecc.) e dinamici (emozioni,
motivazioni, personalità ecc.). Il termine sembra sia stato usato per
la prima volta dall’umanista dalmata M. Marulo nell’opera Psychologia
de ratione animae humanae (ca. 1511-18) e successivamente anche da F.
Melantone, ma fu diffuso specialmente da R. Goclenio, che nel 1590
diede a un suo trattato il titolo di Ψυχολογία, hoc est de hominis
perfectione. Affermatosi poi definitivamente nell’uso con G.W. Leibniz,
divenne termine comune per designare ogni dottrina che circa la natura
dell’anima fosse stata professata fin dall’antichità, quando ancora non
si parlava di p., ma solo d’indagini περὶ ψυχῆς o de anima.
1. La p. come dottrina filosofica dell’anima
1.1 L’età classicaNella cultura greca più antica, l’anima fu
considerata non tanto come principio di consapevolezza, quanto come
generale principio di vita, identificata col soffio vivificante del
respiro. La concezione dell’anima come sede della coscienza, e quindi
come principio della responsabilità e del valore morale, si affermò a
partire dal 5° sec. a.C. Da un lato essa è implicita nell’insegnamento
morale di Socrate, dall’altro risulta dal consolidamento
etico-metafisico, operato da Platone, della tradizione
orfico-pitagorica (che già nel secolo precedente aveva asserito
l’immortalità dell’anima e la metempsicosi). Nella filosofia platonica
si incontra per la prima volta una vera e propria p. come particolare
dottrina speculativa concernente la natura dell’anima. Approfondendo le
concezioni pitagoriche, Platone sostiene, con diverse dimostrazioni,
l’immortalità dell’anima.
La p. giovanile di Aristotele partecipa ancora pienamente della
persuasione platonica dell’immortalità, mentre la sua posteriore
critica della trascendenza delle idee platoniche implica anche la
rinuncia alla tesi dell’immortalità indipendente dell’anima. Nel De
anima, l’anima è considerata forma vitale e organica del corpo,
principio quindi di vita vegetativa e sensitiva; nell’uomo il potere
dell’anima culmina nella funzione ‘dianoetica’ o ‘pensante’, a cui
appartengono tutte le attività proprie dell’essere razionale. La
suprema forma di questa attività pensante, quella dell’‘intelletto’, è
d’altronde per un lato facoltà dell’anima, e per un altro trascendente
rispetto all’anima stessa.
Il pensiero posteriore infatti o si limita a negare le dottrine
platoniche e aristoteliche, tendendo a dissolvere il concetto
dell’anima e con ciò a eliminare il tema stesso della scienza, o ne
compone ed elabora in vario modo i motivi. L’epicureismo considera
l’anima composta di atomi, e quindi dissolubile per la morte al pari
del corpo. Nello stoicismo è centrale la concezione dell’anima cosmica:
la forma divina, immanente al cosmo, lo costituisce e governa secondo
la sua razionale provvidenza; lo stesso nome, πνεῦμα (spiritus), viene
dato all’anima del singolo individuo, divisa in una parte razionale, o
‘dirigente’ (ἡγεμονικόν), nelle cinque facoltà sensibili, nella
capacità del linguaggio e in quella della generazione.
La sintesi ultima e maggiore della p. classica è data dal
neoplatonismo, il cui motivo principale della concezione dell’anima è
quello della sua funzione mediatrice tra l’ideale e il reale. Così nel
massimo pensatore neoplatonico, Plotino, l’anima appare come ultima
nella gerarchia, discendente verso il mondo della materia, delle tre
ipostasi ideali: partecipe del divino e dell’ideale, ne condivide
l’unità, ma, confinante con la materia terrena e principio animatore
del cosmo, si riverbera negli esseri molteplici.
1.2 Il MedioevoL’enciclopedica sintesi della p. classica operata dal
neoplatonismo si riconnette alle concezioni primitive del
cristianesimo, la cui evoluzione dogmatica è contemporanea a quella
della scuola di Plotino. La terza persona della Trinità, il Πνεῦμα
῞Αγιον, «Spirito Santo», ripete nel nome una delle più classiche
designazioni dell’anima, o almeno della sua superiore facoltà
intellettuale. La trinità nella sua interezza, secondo la p. di s.
Agostino, si riflette nell’anima umana: la psiche è infatti considerata
come costituita di un principio triadico, conformato a immagine e
somiglianza di quello intrinseco alla natura divina.
Nella filosofia scolastica, alla tradizione platonico-agostiniana,
continuata dal misticismo e dal francescanesimo, si oppone la teologia
domenicana, che per opera principalmente di s. Tommaso d’Aquino compie
un grande sforzo per interpretare in senso cristiano l’insegnamento
peripatetico. La dottrina tomistica cerca di conciliare l’aristotelismo
con la dottrina cristiana. S. Tommaso combatte l’interpretazione
averroistica della dottrina aristotelica, secondo la quale l’intelletto
sarebbe del tutto separato rispetto all’anima individuale, che
risulterebbe così priva di quell’elemento di divinità e di immortalità
che a suo parere poteva invece esserle attribuito anche in base alla
pur problematica dottrina aristotelica. Il problema dell’immortalità
viene pertanto risolto dalla p. tomistica in connessione con quello
dell’intelletto.
1.3 L’età modernaLa p. moderna inizia con R. Descartes e col suo
rinnovato metodo d’indagine filosofica della realtà. La
contrapposizione dell’anima come res cogitans al corpo come res extensa
toglie alla prima ogni carattere di corporeità, presentandola come pura
funzione pensante (mens). Di qui la concezione occasionalistica (➔
occasionalismo) del suo rapporto col corpo. Il fatale determinismo di
questa concezione viene in massima luce nella filosofia di B. Spinoza,
per cui l’anima, modo singolo dell’unica e infinita sostanza secondo
l’attributo del pensiero, corrisponde del tutto al suo corpo, modo
singolo della stessa sostanza secondo l’attributo dell’estensione, non
essendone che la concreta consapevolezza (idea corporis). Questa p.
contribuisce alla risoluzione dell’intera realtà nell’esperienza
pensante dell’anima. Per tale via, si giunge alla concezione di
Leibniz, che riduce l’universo al contenuto psichico, consapevole o
inconsapevole, delle monadi. D’altra parte, questo stesso
riconoscimento dell’intrinseca illimitatezza dell’anima in quanto
centro di consapevolezza e di conoscenza conduce a poco a poco alla
dissoluzione del suo classico carattere di oggettività sostanziale.
Tale evoluzione si attua specialmente per opera della gnoseologia
empiristica inglese. J. Locke combatte l’innatismo cartesiano, cioè la
dottrina dell’esistenza nell’anima di idee innate, determinate da Dio
prima di ogni esperienza sensibile, mostrando invece come ogni
contenuto psichico derivi dall’esperienza attraverso interiori processi
di astrazione e associazione. Ma la considerazione del mondo psichico
come semplice processo associativo di conoscenze pone in dubbio la
stessa esistenza, e preesistenza, dell’anima come sostanza, la cui idea
viene quindi ridotta da Locke a quella di un oscuro ‘non so che’. G.
Berkeley completa l’opera di Locke riducendo a contenuto di percezione
ogni realtà oggettiva e D. Hume, allargando la negazione berkeleyana
della ‘sostanza estesa’ alla ‘sostanza pensante’, ridotta a semplice
‘fascio di sensazioni’ interiori, mette in luce come la gnoseologia
moderna (in quanto teoria dell’attività pensante) concluda nella
negazione di quella stessa p. classica (in quanto teoria della
sostanzialità dell’anima) con cui aveva fatto corpo nel primo periodo
del suo sviluppo.
Spetterà a I. Kant, che restaura la gnoseologia su nuova base col suo
principio del trascendentale o dell’apriori, determinare il passaggio
attraverso cui, dalla stessa crisi della p. classica nasce la p.
moderna come analisi e classificazione empirica dei fenomeni psichici.
2. L’affermazione della p. scientifica
La distinzione di una p. empirica o scientifica dalla p. filosofica o
razionale risale a C. Wolff (Psychologia empirica, 1732; Psychologia
rationalis, 1734). Solo però nella seconda metà del 19° sec. la p.
empirica ottenne sistemazione scientifica. Di determinante importanza
risultò l’apporto della ricerca fisiologica; la scoperta dell’esistenza
di diversi tipi di nervi, rispettivamente sensori e motori (C. Bell,
1830), condusse a formulare l’ipotesi dell’energia specifica dei nervi,
svolta poi da J. Müller, e le ricerche sulle funzioni specifiche di
parti del cervello diedero impulso alla teoria delle localizzazioni,
sistematizzata da D. Ferrier (1876). Un ulteriore influsso esercitò poi
nel campo della p. la teoria darwiniana dell’evoluzione; seguendo
l’esempio di C. Darwin (The expression of the emotions in man and
animals, 1872), la prospettiva evoluzionistica fu applicata allo studio
del comportamento, determinando la nascita di una p. comparata (D.
Spalding, G.J. Romanes, C. Lloyd Morgan, L.T. Hobhouse). Né è da
trascurare l’importanza delle ricerche psicopatologiche, specie in
Francia nell’ambito della psichiatria (Ph. Pinel, B.-A. Morel) e della
neurologia (J.-M. Charcot, A.-A. Liebeault, H. Bernheim).
In Germania, l’opera di J.F. Herbart, pur negando ancora alla p. lo
status di scienza naturale, aveva introdotto l’idea dell’applicabilità
di strumenti matematici allo studio dei fenomeni psichici. I concetti
di soglia di coscienza e di misurabilità nei contenuti psichici,
teorizzati poi da G.T. Fechner, ne furono il logico sviluppo: si creò
su questa base una nuova disciplina, la psicofisica (➔). Nel 1879 W.
Wundt fondò il primo importante laboratorio sperimentale a Lipsia,
impiegando sistematicamente l’introspezione allo scopo di accertare i
processi psichici intercorrenti tra uno stimolo controllabile e
misurabile (con i metodi della fisiologia sperimentale) presentato a un
soggetto e la sua risposta. Nacque così la p. sperimentale (o p.
fisiologica) propriamente detta, i cui assiomi possono considerarsi i
seguenti: oggetto di studio sono i processi e gli stati di coscienza;
fra stati di coscienza e stimolazioni esterne sussiste una relazione
costante; tutti i dati psichici sono riconducibili mediante analisi a
elementi semplici; i contenuti complessi sorgono per associazione di
elementi semplici.
La storia della p. scientifica nel 20° sec. coincide in buona parte con
il processo di dissoluzione di questi presupposti. In contrapposizione
all’elementarismo delle posizioni associazionistiche, s’imporrà, con W.
Köhler, K. Koffka e M. Wertheimer, la p. della forma
(Gestaltpsychologie;➔ Gestalttheorie). Il presupposto che oggetto della
p. dovessero essere solo i processi e gli stati della coscienza fu
invece sottoposto a critica e respinto da cultori di p. comparata e in
particolare di p. animale. Il risultato più cospicuo di questa
revisione fu la fondazione/">fondazione del behaviorismo (➔), o
comportamentismo, da parte di J.B. Watson nel 1913. Secondo questa
nuova impostazione, che tra gli psicologi nordamericani sarebbe stata
dominante tra le due guerre mondiali, si doveva limitare la ricerca
psicologica al comportamento, cioè all’insieme di manifestazioni
motorie, neurovegetative e verbali dell’individuo. Il behaviorismo
cominciò a declinare intorno alla seconda metà degli anni 1950 con lo
sviluppo del cognitivismo (➔ cognitivo), che rivalutava, in
contrapposizione al comportamentismo, il metodo dell’introspezione,
privilegiando lo studio dei processi interni della mente (percezione,
memoria, ragionamento, linguaggio ecc.) con cui l’individuo acquisisce
e trasforma le informazioni provenienti dall’ambiente, elaborando
conoscenze che influiscono in maniera determinante sul comportamento.
Sempre ai fini della costituzione di una p. obiettiva, furono di
notevole rilievo alcune posizioni teoriche sorte in Russia a opera di
W. Bechterev e riprese poi dal fisiologo I.P. Pavlov (1903) che, con le
esperienze sui riflessi condizionati, dette origine alla riflessologia.
Su un altro piano, un superamento del soggettivismo in p. fu attuato
dalla psicanalisi di S. Freud, che, introducendo il concetto
dell’inconscio, impose una radicale revisione dei concetti fondamentali
della psicologia. Una delle principali linee di sviluppo della
psicanalisi freudiana nordamericana negli anni 1940-50 fu la p. dell’Io
(➔ psicanalisi; per la p. analitica ➔ Jung, Carl Gustav e neojunghiane,
scuole; per la p. dinamica ➔ psicodinamica).
Per gli inizi degli studi di p. scientifica in Italia, tra la fine del
19° sec. e i primi anni del 20° sec., vanno ricordati R. Ardigò, G.
Sergi, G. Buccola, F. De Sarlo, S. De Sanctis e A. Gemelli. Le prime
cattedre universitarie di p. furono istituite nel 1905.
3. P. applicata
È così detta la p. in quanto ha per oggetto l’applicazione dei principi
e dei metodi della p. scientifica ai problemi della vita pratica per
finalità socialmente utili. Il concetto di p. applicata è storicamente
collegato soprattutto all’impiego pratico della p. nell’industria. Uno
dei primi importanti rappresentanti della p. applicata fu W.L. Stern
(1903), che la distinse in psicognostica e psicotecnica. H. Münsterberg
può essere considerato il primo ‘psicologo applicato’ degli USA, il
primo formulatore e sistematore della psicotecnica, cioè della p.
applicata al lavoro e all’economia.
La p. applicata si articola in diverse branche, rivolte a fini di
specifici interventi sociali o a categorie speciali di cittadini. In
Italia si è affermata tra le due guerre mondiali dietro impulso di A.
Gemelli.
4. P. ambientale
Sviluppatasi intorno alla fine degli anni 1960, soprattutto per effetto
dell’interesse verso l’ecologia, l’etologia e le scienze della
progettazione ambientale, studia con forti caratteristiche di
interdisciplinarietà il rapporto dell’individuo con l’ambiente che lo
circonda. Il campo della p. ambientale si presenta articolato in una
pluralità di filoni di ricerca raggruppabili fra loro a seconda che
studino gli effetti che le diverse caratteristiche assunte
dall’ambiente hanno sui possibili comportamenti degli individui, ovvero
le modalità con cui gli aspetti individuali (di atteggiamento, di
personalità, di esperienza ambientale) influenzano il tipo di
comportamento che l’individuo stabilisce con aspetti specifici o
generali dell’ambiente stesso. L’indagine sul rapporto tra l’uomo e
l’ambiente fisico più o meno naturale, che ha costituito il tema
originario della p. ambientale, si è andata via via estendendo allo
studio del rapporto tra il comportamento umano e l’ambiente
sociofisico, e non più solo fisico, in cui esso si realizza.
5. P. animale
Settore della p. che studia il comportamento dell’animale nel suo
ambiente naturale (e come tale si identifica con l’etologia) o compara,
anche in laboratorio, i comportamenti di animali appartenenti a specie
diverse (e come tale si identifica con la p. comparata).
6. P. dell’arte
Settore della p. che studia le funzioni e le attitudini sia di chi crea
l’opera d’arte sia di chi ne fruisce, indaga sui fattori che si
associano all’esperienza estetica e alle variazioni individuali e
culturali, analizza le interpretazioni psicologiche degli stili
artistici, dell’arte primitiva e di quella popolare, studia
l’immaginazione creativa, le capacità artistiche individuali, la
creatività e la genialità.
La p. scientifica dell’arte nasce nel 1876 con l’introduzione
all’estetica (Vorschule der Ästhetik) di G.T. Fechner, che propone
un’estetica sperimentale e induttiva, fondata sull’osservazione
empirica, verificabile da parte di altri ricercatori. Le successive
ricerche hanno conseguito risultati di rilievo nello studio della
preferenza delle forme geometriche e delle combinazioni di colori (G.J.
von Allesch); sono state proposte (A.D. Birkhoff, 1932) formule per la
misura/">misura del piacere estetico. Il contributo della p. della
forma, per la quale è centrale il problema della percezione, è stato
notevole, specie per quanto concerne le arti visive e la musica. Tutto
il processo dell’immaginazione creativa sarebbe orientato a stabilire
un equilibrio dinamico originale, genesi dei meccanismi produttivi
dell’opera d’arte. Anche l’apporto della psicanalisi è stato di
rilievo, specie per quanto concerne lo studio dei rapporti fra
inconscio e attività fantastica, delle analogie tra attività artistica
e attività ludica e, soprattutto, lo studio del simbolismo nell’arte.
L’estetica sperimentale ha cercato di avvalersi delle prospettive
offerte dalla cibernetica e dalla teoria dell’informazione, mentre a
D.E. Berlyne si devono importanti studi sulle concordanze tra
atteggiamento estetico e forme di comportamento esplorativo, con la
dimostrazione dell’importanza del risveglio attentivo (arousal) nei
processi estetici.
Di rilievo per i processi genetici della p. dell’arte si è rivelata
l’interpretazione psicologica del disegno infantile, legato allo
sviluppo della psicomotricità e dipendente da pulsioni motorie (gli
scarabocchi) e affettive, con il successivo sviluppo della fase del
disegno simbolico e di quello realistico.
La psicopatologia dell’espressione è settore molto rigoglioso, sia come
mezzo diagnostico che per lo studio dei processi dell’immaginazione e
dell’esperienza estetica, sia come procedimento importante di terapia
occupazionale.
7. P. clinica
Studia i processi psichici dinamici e i disturbi psichici privilegiando
l’indagine sul singolo caso rispetto a una impostazione normativa
derivata da dati su vasti campioni di individui.
7.1 Significato di clinicoL’aggettivo ‘clinico’ può essere ricondotto
ad almeno tre significati: a) un approccio alla realtà basato sul
rapporto interpersonale; b) una metodologia di studio della realtà
fondata sull’osservazione diretta e sistematica di vari individui, con
l’obiettivo di isolare elementi comuni e quindi tipici o, all’opposto,
differenziali, attraverso un lavoro sul campo e mediante
l’utilizzazione di una prospettiva storica; c) un sistema di formazione
basato sull’esperienza diretta di una realtà piuttosto che sull’uso di
modelli artificiali.
Da un punto di vista storico è stato sostenuto che la p. clinica nasce
dalla confluenza di due tradizioni culturali: quella psicometrica,
individuabile nel crescente interesse sviluppatosi sul finire del 19º
secolo e all’inizio del 20º per i test mentali e per la conseguente
possibilità di misurare e diagnosticare dimensioni psicologiche e
comportamentali, e quella dinamica, riferita ai contributi forniti, più
o meno negli stessi anni, dalle diverse scuole psicanalitiche.
7.2 Oggetto di studioL’oggetto di studio principale di questa
disciplina è l’individuo e, in particolare, le sue manifestazioni
psichiche e comportamentali, riferendo queste ultime ai processi
cognitivi e alle dinamiche emozionali, sulla base di criteri di
adeguatezza o inadeguatezza della condotta generale ovvero di parametri
di funzionalità/disfunzionalità o di normalità/patologia. Il
riferimento prevalente all’individuo, soprattutto all’individuo
problematico, ha posto progressivamente in maggiore risalto l’aspetto
del recupero di situazioni di difficoltà e/o disfunzionalità psichiche,
soggettivamente esperite come disturbo, disagio o simili. Le finalità
conoscitive e di intervento della p. clinica sono così state
progressivamente assimilate alle pratiche di diagnosi e terapia, fino
al punto di giungere a una sostanziale identificazione della p. clinica
con l’attività della psicoterapia. Ma tale concezione ristretta della
p. clinica si è progressivamente rivelata inadeguata rispetto alle
possibilità di intervento e alla multiformità delle richieste che
vengono avanzate agli psicologi clinici professionisti. Gli esempi di
tali potenziali utenti, ‘altri’ rispetto al singolo in cerca di
psicoterapia, sono numerosi: scuole, università, organizzazioni
produttive o sanitarie, carceri, enti locali, strutture sociali e, sul
piano individuale, richieste di consulenza intorno a tematiche quali
gravidanza, aborto, adolescenza, sessualità, o intorno alle
problematiche poste dalla tossicodipendenza o, infine, a quelle proprie
delle malattie terminali. Queste situazioni sembrano definire diverse
tipologie di p. clinica. È tuttavia possibile porre in risalto almeno
tre elementi, per così dire comuni, che hanno particolare rilevanza: la
relazione, il contesto, la richiesta. La competenza dello psicologo
clinico, in questa prospettiva, si esplica nell’orientare un processo
di relazioni significative, in specifici contesti, in funzione di
specifiche domande avanzate da specifici richiedenti l’intervento
psicologico al fine di produrre conoscenza e, in virtù di essa,
cambiamento. In p. clinica, dunque, l’obiettivo è quello di concepire
valutazione e terapia come momenti diversi di un processo di
significazione dell’esperienza sostenuto da una comune teoria del
cambiamento.
7.3 StrumentiGli strumenti che tradizionalmente si riconoscono come
propri della p. clinica sono il colloquio e i reattivi psicodiagnostici
o test psicologici. I test consentono di analizzare un determinato
campione di comportamento in più individui oppure più campioni di
comportamento in un singolo individuo, permettendo quindi di ottenere
dati che possano essere confrontati. Il colloquio rimane, tra gli
strumenti utilizzati in p. clinica, quello che occupa il posto di
maggiore importanza. Altro metodo largamente in uso è l’intervista. La
distinzione tra colloquio e intervista riposa sulla dinamica
motivazionale: nella situazione di colloquio, focalizzata maggiormente
sull’interazione tra consultante e consulente, prevale una motivazione
di tipo conoscitivo, fondata sulla presenza di un interesse reciproco
all’incontro; nel processo dell’intervista prevale una unilaterale
accentuazione dell’interesse dello psicologo clinico per la raccolta di
informazioni. Per il colloquio è di norma prevista una strutturazione
minore di quanto non lo sia per l’intervista, che segue uno schema
precostituito.
Sia il colloquio sia i test per quanto attiene allo psicologo clinico
sia la richiesta di consulenza psicologica per quanto riguarda il
consultante necessitano di coordinate di tipo organizzativo in cui
essere collocati, il cui insieme è definito setting/">setting (➔).
Il modo di reagire all’istituzione del setting può segnalare specifiche
modalità di funzionamento psichico, o, meglio, specifiche qualità della
relazione che viene a stabilirsi tra il consultante e lo psicologo.
7.4 MotivazioniLa motivazione alla base di una domanda di intervento
psicologico-clinico si può rintracciare in una crisi di decisionalità.
In altri termini, chi richiede un intervento, sia esso un individuo o
un’organizzazione, avverte uno iato tra la propria capacità di azione e
lo scopo verso il quale l’azione stessa è orientata. Tale difficoltà
può, anche se non necessariamente, accompagnarsi a una condizione di
sofferenza o, comunque, di insoddisfazione.
8. P. comparata
In generale, qualsiasi ramo della p. che faccia ricorso in modo
particolare al metodo comparativo. Per p. comparata in senso stretto si
intende la p. animale o zoologica; in un’accezione più vasta, il
termine comprende anche la p. differenziale e la p. genetica o
evolutiva (studio comparativo delle funzioni psichiche nelle diverse
età che spiega il costituirsi delle funzioni e delle strutture
psichiche in generale, e particolarmente quelle dell’adulto).
9. P. di comunità
Si dedica all’intervento psicologico nel territorio e nelle strutture
sociali, dalla famiglia alla scuola alle comunità terapeutiche, per
migliorare la salute psichica e la qualità della vita.
10. P. differenziale
Studia le differenze, e ne ricerca i fattori responsabili, sia nei
comportamenti animali sia nei processi psichici tra individui o tra
gruppi (classi d’età, classi sociali, culture, etnie ecc.). Un primo
obiettivo consiste nello studio comparativo delle caratteristiche
psicologiche fra individui tipici appartenenti a specie zoologiche
diverse; più frequente è il confronto fra determinate caratteristiche e
funzioni psicologiche nell’uomo e in un certo tipo di animale.
All’interno di una stessa specie biologica le differenze individuali
possono derivare da tre ordini di cause: diverso corredo ereditario;
diverso ambiente di vita; diversa età. Anche una sola di queste tre può
determinare un’ampia gamma di variazioni individuali; le loro influenze
tendono a esaltarsi a vicenda, mentre è improbabile una reciproca
attenuazione dei rispettivi effetti, salvo interventi specificamente
diretti a tal fine.
10.1 MetodiI metodi con i quali si studiano, separatamente o in
combinazione, queste varie cause differenziatrici, fanno capo alla
dicotomia della ricerca sul campo e della ricerca sperimentale. Nel
primo caso si studiano fenomeni che avvengono spontaneamente in un
determinato contesto ‘naturale’ e influiscono sugli individui
considerati; nella ricerca sperimentale si realizza l’artificiosa
manipolazione di una delle condizioni che influiscono sui soggetti
d’esperimento.
La p. differenziale può seguire due linee diverse e complementari: o
partendo da categorie di individui precostituite in base a qualche
criterio a priori e ricercando poi i caratteri che esse hanno diversi o
comuni; oppure costituendo categorie di individui da contrapporre
proprio in base a loro caratteristiche psicologiche sistematicamente
diverse. Il campo di maggiore interesse riguarda lo studio comparativo
delle qualità psicologiche di categorie omogenee di persone distinte a
priori (per es., per il sesso, l’età, le condizioni economico-sociali o
culturali).
10.2 Differenze di sessoLa p. differenziale riguardo al sesso è
disarmonica e scarsa di acquisizioni metodologicamente rigorose: il
confronto fra le caratteristiche psicologiche di individui dei due
sessi, rigorosamente equiparati per tutte le altre variabili influenti,
è infatti particolarmente arduo. Le ricerche hanno molto ridotto le
presunte differenze psicologiche fra i due sessi del genere umano
imputabili a cause biologiche primarie, riconoscendo prevalente le
differenze indotte dall’ambiente socio-culturale. Riguardo
all’efficienza mentale, risultano avvantaggiati i maschi nei fattori
spaziale e numerico dell’intelligenza; le femmine nei fattori verbali.
La percezione cromatica eccelle nelle femmine, come anche la motricità
fine e ritmata. Le differenze nel campo emotivo tra i due sessi sono
fortemente condizionate da fattori culturali.
10.3 Differenze di etàLa p. differenziale connessa all’età, secondo i
casi più o meno influenzata da fattori biologici e culturali, è tanto
estesa da giustificare la relativa autonomia di una p. dell’età
evolutiva. Anche l’altro versante dell’arco di vita umana costituisce
il campo di studio della p. dell’età involutiva, o gerontopsicologia.
Nelle funzioni mentali la senilità mostra una progressiva divergenza
fra la dotazione di fattori verbali dell’intelligenza, che viene
relativamente meglio conservata, e l’intelligenza ‘pratica’. La memoria
di eventi remoti è notoriamente meglio conservata, mentre, per difetto
di fissazione, decade la memoria a breve termine e di fatti recenti. La
vita emotiva, con molte varianti introdotte dallo stato generale di
salute, dal livello economico e dallo status familiare, tende ad
accentuare tratti ossessivi, depressivi ed egocentrici. Accanto a
queste sistematiche modificazioni legate all’età avanzata, si rileva
che il singolo individuo resta molto coerente col suo pregresso corredo
psicologico e influenzato dalla trascorsa attività lavorativa.
10.4 Tipologie psicologicheUn altro procedimento della p. differenziale
porta a determinare e contrapporre categorie omogenee partendo da un
inventario delle caratteristiche personali di un vasto campione della
popolazione. Tale inventario, ottenuto da informazioni attendibili e
abbastanza discriminative, può essere formulato in termini o analitici
o sintetici. Nel primo caso si tratta di un esauriente elenco di tratti
personali indipendenti, eventualmente quantificati, che costituisce un
‘profilo psicologico individuale’; nell’altro caso si tratta di
diagnosi indicative di un insieme organico di caratteri personali che
si presentano di frequente associati (sindrome). Con tali procedimenti
la p. differenziale tende a costituire tipologiepsicologiche, spesso
formulate in categorie contrapposte dicotomiche o più numerose. Queste
tipologie sono state impiantate sulla base di ‘tratti’ o ‘fattori’
(innati o acquisiti, cioè del temperamento o del carattere) considerati
più rappresentativi dell’intera personalità secondo determinate teorie
o scale di valori, stabiliti sia mediante una semplice analisi logica
sia sulla scorta di elaborazioni statistiche (correlazioni, analisi
fattoriale).
Il concetto di ‘normalità’, in p. differenziale come in biologia, è a
un tempo statistico e socio-politico: in una qualsiasi popolazione
statistica non selezionata, esso riguarda quella gran parte di casi che
si collocano in posizione intermedia in una scala di valori rilevanti
per una data cultura. I casi anormali costituiscono comunque una
minoranza, di consistenza variabile secondo le varie culture più o meno
tolleranti al riguardo, divisa simmetricamente in parti eguali, una al
disopra e l’altra al disotto della zona di valori intermedi. A una
sola, o alle due estremità di questa distribuzione cadono i valori più
periferici e rari tra i casi anormali. Secondo criteri ancora una volta
socio-culturali e politici ispirati a valori funzionali o estetici,
questi casi di estrema anomalia vengono definiti ‘patologici’ quando
eccedono in senso negativo determinati livelli di tolleranza espliciti
o impliciti, stabiliti ad libitum da quella particolare cultura.
La p. etnica (o etnografica) è un ramo della p. differenziale che
studia le caratteristiche psicologiche degli individui appartenenti a
gruppi etnici differenti, e quindi i caratteri psichici ereditari
peculiari di un dato gruppo.
11. P. esistenziale
Scuola psicologica che si fonda sui principi filosofici
dell’esistenzialismo. In particolare, la p. esistenziale deve il
proprio quadro concettuale di riferimento alla fenomenologia di E.
Husserl e all’ontologia di M. Heidegger. L. Binswanger è partito
proprio dall’analitica heideggeriana per elaborare un’analisi
esistenziale, cioè dei modi della presenza nel mondo. Il singolo, la
situazione, l’intersoggettività, l’angoscia costituiscono i cardini sui
quali si impernia la problematica dell’esistenza.
Caratterizza questa scuola il tentativo di superamento dell’antinomia
tra psiche e soma nella nozione di corporeità e il lungo soffermarsi
sul sempre ricorrente tema dell’angoscia. Il fine dell’analisi
esistenziale è quello di acquisire una fondazione della psicopatologia
basandola sull’umano. L’umano è appunto l’esserci o, più esattamente,
l’esistenza («l’essenza dell’esserci è l’esistenza»: Heidegger), cioè
il singolo in quanto individuo solo, irripetibile nella sua
peculiarità, irriducibile all’altro, non inquadrabile, ma unico
«soggetto operante». Questa inconfondibile singolarità unica, che è
appunto la persona, è il luogo di manifestazione dei fenomeni di cui
tratta lo psicologo e lo psicopatologo, fenomeni essenzialmente umani,
in quanto chi li esprime non è riconducibile a un mero fatto naturale:
ha una sua trascendenza, cioè è sempre presente per qualche cosa
d’altro.
La p. esistenziale prescinde da giudizi clinici e prognostici e da
funzionalità operativa; poiché il singolo è inseparabile dal suo
mondo-di-vita, il fenomeno è la veridica espressione del mondo-di-vita,
di quella presenza e del suo farsi mondano (essere in situazione). La
situazione in cui un individuo è gettato è la sua concretezza, la sua
configurazione, la sua incarnazione (G.H. Marcel). Qui l’analisi
esistenziale di Binswanger introduce al livello dell’esistenza umana
concreta, accentuando in modo particolare i parametri della corporeità
e della spazio-temporalità dell’esperienza vissuta (il «tempo
immanente» di Heidegger). La nozione di inconscio è inaccettabile dal
punto di vista esistenziale (particolarmente in Binswanger): l’a priori
esistenziale (che è l’orizzonte della coscienza e si riferisce sempre a
una presenza) è il fondamento fenomenologico di ciò che, dal punto di
vista della scienza naturale, si riferisce a una mente inconscia; è la
struttura di ciò che rende possibile l’esperienza.
L’approccio esistenziale, in psicopatologia, indica i modi essenziali
in cui la presenza riceve, trasforma, costituisce il mondo. La
psicopatologia esistenziale è dunque lo studio di quelle modificazioni
della struttura della presenza che approdano a un ‘restringimento’, una
‘costruzione’ o un ‘appiattimento’ del mondo (J. Needleman).
Schematicamente: a) la presenza costituisce il suo mondo attraverso il
contesto di significato dell’a priori esistenziale; b) la presenza
trova il suo mondo e il suo sé così costituiti; c) la presenza
comprende il suo mondo e il suo sé attraverso una libera e aperta
relazione e si proietta verso il futuro, avendo nello stesso tempo
capito la necessità nella propria effettività qui e ora (il modo
dell’essere gettata), oppure si abbandona al mondo, all’effettività, ed
è dominata come dal di fuori dal suo proprio modo di costruire il
mondo; d) energia dispersa per mantenere l’autodeterminazione con lo
svuotamento del potenziale esistenziale (progresso verso
l’inautenticità=nevrosi; e) rinuncia totale alla libertà del
sé=psicosi. Gli studi di Binswanger sulla schizofrenia mostrano
individui il cui essere nel mondo è appunto dominato in questo modo. Il
tempo è portato a un ‘arresto’, non vi è maturazione esistenziale
possibile. La presenza (come progetto di mondo) si è consegnata a una
determinata immagine del mondo, a un particolare progetto da cui viene
afferrata o sopraffatta.
La p. esistenziale fa attenzione soprattutto ai contenuti delle
espressioni del linguaggio, come indizi, come comunicazione, per il
significato modale che racchiudono nei riguardi della declinazione
mondana di quell’esistenza che ci sta di fronte. Si può cogliere uno
stile, cioè un modo che ha una sua indiscussa unità (per es., stile
schizofrenico, maniacale ecc.).
12. P. dell’età evolutiva (o dello sviluppo)
Studia il processo di sviluppo compreso tra il concepimento e la fine
della giovinezza, ossia l’inizio dell’età adulta (per la cultura
occidentale, intorno ai 25 anni).
12.1 SuddivisioniL’età evolutiva viene solitamente suddivisa in quattro
grandi fasi: dalla nascita ai 6 anni (prima infanzia); dai 7 agli 11
anni (periodo scolastico); dagli 11 ai 14 anni (pubertà); dai 14 anni
all’età adulta (adolescenza, giovinezza). Tale suddivisione è stata
integrata da una classificazione più indicativa: a) periodo prenatale;
b) periodo neonatale; c) il primo anno di vita; d) dal 2° al 4° anno;
e) dal 4° al 6° anno; f) dal 6° all’11° anno (periodo scolare); g)
dall’11° al 14° anno (prepubertà e pubertà); h) dal 14° anno in poi
(adolescenza e giovinezza). Confrontando la prima e la seconda
classificazione, appare evidente come gli studiosi abbiano via via
accentrato l’attenzione sui primi anni di vita come i più complessi e
ricchi da un punto di vista evolutivo.
La suddivisione delle fasi e soprattutto la loro interpretazione
cambiano da autore a autore, da scuola a scuola; per es., A.L. Gesell
(uno dei pionieri nello studio dell’età evolutiva) risolve tutto nel
quadro di un’interpretazione sistematica; ricollegandosi sotto certi
aspetti al behaviorismo, sottopone il bambino a un’osservazione
sistematica, servendosi anche di tecniche particolari (schermo
unidirezionale, nursery-guide ecc.) e da questa osservazione trae le
sue considerazioni sul comportamento del bambino nelle diverse fasi
evolutive. H. Wallon invece, che si muove su una base rigidamente
sperimentale di tipo psicobiologico legata anche alla riflessologia,
fissa la sua attenzione sugli elementi sia genetici sia comportamentali
nello sviluppo del bambino. È. Claparède parte dal problema della
«meccanica degli interessi», intendendo come interesse un rapporto di
reciproca convenienza tra soggetto e oggetto e un «simbolo di bisogno
di sviluppo del soma e della mente»; da un punto di vista metodologico
si serve dell’osservazione del comportamento, delle produzioni del
bambino (disegni, racconti) e del metodo introspettivo. J. Piaget pone
al centro della sua indagine il metodo ‘clinico’ in relazione allo
studio dei processi intellettivi del bambino e della genesi del
pensiero infantile riferito al pensiero adulto; tale metodo, come nella
pratica medica del clinico, si basa sull’osservazione del caso
concreto, condotta però in modo sistematico e avvalendosi di situazioni
sperimentali anche se considerate in relazione al caso singolo.
Un’altra impostazione importante di ricerca è stata data dalla scuola
sovietica fondata da L.S. Vygotskij, che, in parte in contrapposizione
a Piaget, ha sottolineato l’influenza determinante dei fattori
storico-culturali più di quelli genetici nello sviluppo psichico
infantile.
Nella scuola psicanalitica si possono individuare due correnti
principali, quella di M. Klein e quella di A. Freud; entrambe le
impostazioni sono di tipo rigidamente clinico. Secondo la psicanalisi,
le vicende dell’età evolutiva sono collegate a uno sviluppo dinamico su
base istintiva, con particolare accento sui primi anni di vita.
12.2 Ricerche ‘longitudinali’Successivamente, la volontà di render
conto dei meccanismi di transizione tra i vari livelli di sviluppo ha
comportato una modificazione nelle strategie di ricerca. Pur non
trascurando il confronto tra soggetti di età diversa, si privilegiano
veri e propri esperimenti (o in ambienti artificiali, che permettono un
maggior controllo sulle variabili, o sul campo, cioè in contesti di
vita quotidiana), grazie ai quali è possibile individuare con maggior
precisione i fattori causali dello sviluppo psicologico. Molti studiosi
sottolineano l’indispensabile contributo di ricerche ‘longitudinali’,
ovvero di indagini in cui gli stessi soggetti vengono esaminati a più
riprese nel corso del tempo. Dal punto di vista delle teorie di
riferimento, si è attenuata di molto la contrapposizione tra grandi
teorie (o correnti di pensiero), quali l’approccio piagetiano,
psicanalitico, comportamentista, che ha caratterizzato il panorama
della disciplina per quasi mezzo secolo e si è fatta strada l’idea che
il ‘bambino reale’, nella sua complessità, possa essere descritto e
compreso solo giustapponendo i risultati di molteplici studi, condotti
con ottiche diverse.
12.3 Il neonatoIl risultato probabilmente più appariscente delle
ricerche recenti è costituito dal modo in cui appare oggi il neonato.
Grazie anche alle sofisticate tecniche di rilevazione di comportamenti
non visibili, o non visibili con precisione a occhio nudo (per es., la
frequenza dei movimenti di suzione; i movimenti oculari) e di
registrazione di indici fisiologici (come il battito cardiaco, il ritmo
respiratorio), gli studiosi sono riusciti a mettere in evidenza
numerose caratteristiche adattive delle quali il neonato dispone fin
dall’inizio. Un esempio tipico/">tipico è il pianto, che può essere
differenziato mediante analisi spettrografica in vari tipi (per fame,
per collera, per dolore ecc.) e che, pur non costituendo una forma
intenzionale di comunicazione, funziona come un segnale e come tale è
ben presto riconosciuto nel suo significato dagli adulti che si
prendono cura del bambino.
12.4 Età prescolareProfonda è stata anche la rivalutazione delle
abilità cognitive nell’età prescolare (dai 2-3 anni ai 6). Al bambino
di tale età viene riconosciuta la capacità di formarsi, sul mondo che
lo circonda, idee organizzate e coerenti, anche se diverse da quelle
degli adulti (teorie ingenue); la capacità di divenire esperto su
argomenti che lo interessano in modo particolare, superando anche le
competenze degli adulti; di comunicare efficacemente con gli altri,
modulando il modo di esprimersi in relazione al tipo d’interlocutore.
Una chiara dimostrazione di queste competenze cognitive precoci
proviene dagli studi sulla teoria della mente, ossia sulla capacità dei
bambini di comprendere l’esistenza di stati mentali propri e altrui e
di porli in relazione con la realtà.
12.5 Sviluppo affettivo e socialeUn terzo ambito ricco di risultati è
quello dello sviluppo affettivo e sociale. I primi legami affettivi (o
relazioni di attaccamento) sono considerati frutto delle risposte che
gli adulti danno a una serie di comportamenti e segnali provenienti dal
piccolo, innati nella nostra specie come in altri primati, e tendenti a
mantenere la prossimità: il pianto, il sorriso, l’aggrapparsi e il
cercare il contatto fisico. I comportamenti di attaccamento, dapprima
rivolti dal bambino a qualunque adulto si prenda cura di lui, divengono
(fra i 2 e i 6-8 mesi) selettivamente indirizzati alla figura materna;
successivamente il bambino inizia a reagire negativamente alla
separazione dalla madre e alla presenza di estranei, fenomeno
interpretato come segno del costituirsi di una relazione specifica tra
madre e bambino. Solo nel secondo anno di vita, divenuto capace di
rappresentarsi mentalmente la madre e di comprendere che una sua
momentanea assenza non significa la sua sparizione definitiva, il
bambino potrà tollerarne con maggiore facilità la lontananza.
La considerazione del bambino come essere disposto fin dall’inizio alla
socialità ha portato anche a rivalutare le possibilità d’intrattenere
relazioni significative con i coetanei, già nella prima e soprattutto
nella seconda infanzia. Una fase di familiarizzazione sufficientemente
lunga consente a bambini di età inferiore a un anno di realizzare
semplici sequenze di gioco a due, mentre, già nel secondo anno di vita,
si può assistere alla nascita di relazioni positive e preferenziali con
un ‘amico’.
12.6 Il contestoUn elemento centrale nello studio dello sviluppo è
infine costituito dall’interesse per gli effetti del contesto sui
processi psicologici. Per contesto si può intendere qualcosa di
oggettivabile come l’ambiente fisico in cui il soggetto vive e le
caratteristiche degli stimoli che ne derivano, ma anche il più elusivo
ambiente sociale, e le diverse rappresentazioni della realtà da esso
veicolate; si può intendere qualcosa di molto lato e sovra-individuale,
come il periodo storico in cui si situa il comportamento individuale,
ma anche un più privato e transitorio contesto mentale, inteso come il
quadro di riferimento attivato attingendo nella memoria a lungo termine
quando il soggetto si trova di fronte a un compito specifico. Questo
indirizzo di ricerca, che è espressione della tendenza dei ricercatori
a farsi carico della complessa interrelazione tra fattori interni
(biologici e psicologici) e fattori esterni (contestuali), costituisce
da un lato una reazione al rinascere di dichiarate propensioni
innatistiche (per es., nelle ricerche psicometriche sull’intelligenza e
la sua ereditabilità), dall’altro un approfondimento degli aspetti
costruttivistici e interattivi, presenti in modo insufficiente sia
nelle teorie strutturaliste classiche come quella di Piaget sia in
quelle, più recenti, derivate dall’estensione delle scienze cognitive
ai fenomeni dello sviluppo (per es., la teoria di R. Case o quella di
J. Pascual-Leone).
13. P. fisiologica
Sinonimo di p. scientifica nella seconda metà dell’Ottocento, quando
l’impostazione fisiologica era considerata il requisito indispensabile
di una disciplina non soggettiva e filosofica, ma oggettiva,
sperimentale e scientifica, nei primi decenni del Novecento la p.
fisiologica diventò una branca specifica della p. che studiava la
relazione tra i processi fisiologici (con particolare attenzione ai
processi del sistema nervoso) e quelli psichici.
13.1 PrincipiI concetti principali impiegati dalle prime teorie della
p. fisiologica furono la localizzazione cerebrale delle funzioni
psichiche (D. Ferrier) e l’arco riflesso (C. S. Sherrington). Il punto
di riferimento della p. fisiologica della prima metà del Novecento fu
la teoria di I.P. Pavlov fondata sulle ricerche sui riflessi
condizionati (➔ riflesso). Nella descrizione dell’organizzazione e
della dinamica dei processi nervosi superiori (attività nervosa
superiore), su cui si basano i processi comportamentali, Pavlov
introdusse nuovi concetti come l’eccitazione, l’inibizione, l’induzione
reciproca ecc., che erano stati inferiti dallo studio dell’attività
comportamentale, in particolare dei riflessi condizionati, e non
avevano una verifica neurofisiologica diretta. La teoria pavloviana fu
criticata in particolare da K.S. Lashley in relazione al semplicismo
degli schemi associazionistici adottati che, secondo Lashley, non
esprimevano adeguatamente la complessità delle interazioni che si
compiono nel cervello durante un’attività comportamentale. L’esigenza
di verificare la teoria pavloviana con una più precisa analisi
neurofisiologica si poté realizzare a partire dagli anni 1950 con il
progresso della strumentazione elettronica per la registrazione
dell’attività del sistema nervoso. Nella seconda metà del Novecento
sono state compiute ricerche fondamentali sui meccanismi nervosi che
regolano la veglia e il sonno, sul ruolo delle strutture sottocorticali
nei processi motivazionali, sui processi sensoriali e percettivi, sulle
basi corticali dell’apprendimento. È stata notevole, inoltre,
l’influenza sulla p. fisiologica della teoria dell’informazione e della
cibernetica, che hanno richiamato l’attenzione sui processi di
retroazione che regolano il comportamento. Rispetto alla ricchezza e
importanza dei risultati sperimentali, scarsi sono i tentativi di
sintesi teorica; un contributo di rilievo a una nuova teoria dei
rapporti tra processi cerebrali e processi psichici è di A.R. Lurija,
il quale ha elaborato il concetto di sistema funzionale cerebrale, che
indica il complesso insieme dinamico delle varie strutture cerebrali
che intervengono nella realizzazione di un processo psichico.
13.2 Tecnologie di indagineIl progresso delle ricerche sui rapporti tra
processi fisiologici e processi psichici è stato accelerato
dall’introduzione di nuove tecnologie di indagine (registrazioni
elettrofisiologiche dei neuroni, tecniche di neuroimmagine). La
registrazione con microelettrodi dell’attività di singoli neuroni ha
permesso di approfondire ed estendere i risultati conseguiti da D.H.
Hubel e T.N. Wiesel sulla corteccia visiva. Da studi successivi, la
corteccia cerebrale risulta composta da cellule altamente specializzate
per l’elaborazione dell’informazione (dalle caratteristiche fisiche
degli stimoli visivi, uditivi e tattili, al riconoscimento di materiale
verbale, di facce ecc.). Alcuni ricercatori hanno sostenuto che i
processi psichici si fondano su questi sistemi neuronali (denominati
moduli), mentre altri ritengono che le operazioni mentali avvengano in
modo diffuso in tutto il cervello (modelli delle reti neurali). In
entrambe le ipotesi, viene rifiutata la concezione di una divisione
anatomofunzionale della corteccia cerebrale in aree sensoriali, aree di
associazione e aree motorie, su cui si fonderebbero le funzioni
psichiche della sensazione e della percezione, dell’integrazione
associativa e della memoria, e dell’esecuzione motoria. Ricerche più
recenti partono dall’ipotesi che l’informazione non scorra in modo
rigido e sequenziale da un’area all’altra del cervello, ma si diffonda
lungo canali in parallelo secondo circuiti diversi.
Nell’uomo, lo studio dei processi cerebrali associati ai processi
mentali viene condotto generalmente attraverso due tipi principali di
indagine: il primo si basa sulla registrazione dell’attività elettrica
cerebrale correlata a processi o eventi psichici (potenziali correlati
a eventi), il secondo sull’analisi delle prestazioni di pazienti con
lesioni cerebrali. Queste due correnti di ricerche (rispettivamente
note come psicofisiologia e neuropsicologia) hanno permesso di
approfondire le caratteristiche (tempi di elaborazione, aree impegnate)
delle attività cerebrali durante lo svolgimento di compiti cognitivi
(identificazione di oggetti e facce; elaborazione di informazione
verbale e musicale; processi di memorizzazione; pianificazione di atti
motori). Mentre la psicofisiologia studia campioni estesi di soggetti
umani per individuare le modalità generali del funzionamento cerebrale,
la neuropsicologia considera anche i casi singoli nei quali particolari
forme di lesione cerebrale hanno prodotto sintomatologie psicologiche
molto rare (del tipo di quelle descritte nei cosiddetti romanzi
neurologici di O. Sacks). L’introduzione delle tecnologie di
neuroimmagine nel campo della ricerca neuropsicofisiologica ha
consentito di documentare in modo più preciso la localizzazione delle
varie regioni cerebrali interessate.
I risultati della p. fisiologica e delle neuroscienze hanno pertanto
permesso di sviluppare il dibattito sui rapporti tra cervello e mente.
Mentre alcuni filosofi e neuroscienziati (tra cui J.C. Eccles e K.
Popper) hanno sostenuto l’irriducibilità dei processi psichici a
processi cerebrali, altri (tra cui F.H. C. Crick) ritengono che le
funzioni mentali, compresa la coscienza, possano essere spiegate in
termini neurofisiologici.
14. P. forense
Studia gli aspetti psicologici legati alla pratica giudiziaria. In
generale, la p. forense si occupa della valutazione dell’incidenza
delle singole situazioni cliniche nella soluzione degli specifici
problemi giuridici. Nel suo ambito si distinguono una p. criminale, che
studia il comportamento e le caratteristiche psicologiche del
delinquente, una p. giudiziaria, che analizza dal punto di vista
psicologico gli attori dei processi (imputati, vittime, testimoni ecc.)
e valuta l’attendibilità delle deposizioni, e una p. penitenziaria (o
carceraria), che ha per oggetto di studio le condizioni psichiche dei
detenuti al fine di elaborare i sistemi di trattamento più idonei a
favorire la riabilitazione.
15. P. del lavoro
Settore della p. applicata che studia il comportamento dell’uomo in
relazione all’attività lavorativa, con il duplice intento di migliorare
l’efficacia delle prestazioni e la soddisfazione dei lavoratori.
15.1 PsicotecnicaLa p. del lavoro si sviluppò inizialmente come
psicotecnica, cioè come studio delle attitudini e delle capacità
individuali, inquadrabili in configurazioni di mestiere (profili
professionali). La diffusione del termine si deve a H. Münsterberg, che
realizzò i primi interventi di selezione del personale nell’azienda dei
trasporti pubblici di New York. Nella psicotecnica come oggetto di
studio e d’interessi applicativi s’identificò un vasto movimento
internazionale, che cercò di definire un quadro teorico di riferimento,
d’istituire confronti tra i risultati ottenuti, di mettere a punto
specifiche metodologie, di delineare nuove iniziative. In questa fase
il termine psicotecnica fu definitivamente usato per designare quelle
applicazioni della p. che riguardano l’uomo nell’ambito della sua
attività lavorativa e che perseguono in generale lo scopo di
realizzare, da un lato, un suo migliore adattamento ai compiti e
all’ambiente di lavoro e, dall’altro, un migliore adattamento delle
tecniche e delle condizioni lavorative alla sua personalità. Intorno
agli anni 1950, il termine andò scomparendo dal linguaggio
specialistico, sostituito dall’espressione p. applicata, ritenuta più
appropriata e pertinente. Col tempo, la p. applicata si arricchì di
diverse branche e il campo operativo cui inizialmente si era dato il
nome di psicotecnica prese quello di p. del lavoro.
15.2 L’influsso del taylorismoFin dagli inizi, la p. del lavoro si
trovò di fronte allo scientific management di F.W. Taylor e F.B.
Gilbreth. Inevitabilmente si ebbe la conversione graduale dei propositi
dei primi psicologi del lavoro alle esigenze del taylorismo. Infatti i
primi tentativi di una classificazione dei posti di lavoro si
frantumarono in numerose distinzioni, tutte derivate dall’esigenza
tayloristica che si fondava unicamente su un’estrema suddivisione
parcellare dei compiti, rigidamente ritagliati su unità di tempo e
disarticolati in movimenti finalizzati al raggiungimento di the best
way. Dal «posto adatto per l’uomo» si passò e si perseguì l’obiettivo
della ricerca dell’«uomo adatto per il posto adatto». Gradualmente e
progressivamente tutte le applicazioni della p. del lavoro sembrarono
informarsi a questo principio, e la p. del lavoro si identificò sempre
più con l’ideologia economicistica del taylorismo.
15.3 Selezione professionalePilastro dell’edificio della psicotecnica
fu la selezione professionale, che mediante l’impiego di tecniche e
strumenti diagnostici obiettivi operava una scelta tra concorrenti a un
posto di lavoro, assumendo come criterio il riscontro di quel corredo
attitudinale capace di offrire maggiori garanzie di successo in quel
posto. Attraverso formulazioni successive, ricollegabili da un lato
allo sviluppo di nuovi orientamenti teorici e applicativi della p. ma
fondamentalmente sollecitate da esigenze aziendalistiche e da
contingenze economiche e sociali, si ebbe un’evoluzione concettuale e
metodologica della selezione, insieme a un progressivo ipertrofico
sviluppo delle procedure psicologico-statistiche. In breve, si può dire
che le tendenze dogmatico-aprioristiche, che avevano caratterizzato il
sorgere della selezione professionale ipotizzando come possibili una
scomposizione del lavoro in parti semplici o elementari (‘analisi del
lavoro’ e ‘gesti professionali’) e la definizione delle funzioni
psichiche corrispondenti a ciascuna di queste parti (attitudini
articolate in ‘profili professionali’) misurabili con apposite prove
(test o reattivi psicologici), si dimostrarono, nonostante l’apparente
rigore sperimentale, compromesse da ipotesi non verificate né
probabilmente verificabili.
15.4 I testI test, strumento principale della selezione professionale,
si rivelarono in grado di dare solo una valutazione ‘statica’ delle
possibilità dell’esaminando, che nel migliore dei casi rifletteva il
livello massimo di queste possibilità, senza però fornire alcun
elemento riguardante gli aspetti dinamici della messa in atto delle
possibilità stesse (per es., regolarità, impegno futuro dell’esaminando
ecc.). Non per niente sono andate acquistando sempre maggior rilievo
tecniche di valutazione del comportamento di tipo dinamico o
‘adattivo’, nelle quali si ha modo di aumentare o diminuire le
difficoltà dei compiti che il soggetto deve affrontare in funzione del
livello di rendimento raggiunto dal soggetto in quel dato momento.
Anche quando la selezione professionale si è arricchita di tecniche più
o meno raffinate che hanno portato l’indagine sui bisogni e sulle
motivazioni dell’individuo con l’ambizione di giungere a una completa
diagnosi di personalità, di fatto è stata presa in considerazione
l’aderenza o meno delle configurazioni di personalità ai bisogni
dell’azienda, con tutte le implicazioni negative sul piano scientifico
e sociale che ne scaturivano. Pur con queste limitazioni, tuttavia, i
test di selezione sono tuttora ampiamente usati nell’ambito della
selezione professionale. Tra i più diffusi: test di idoneità, ideati da
L.J. Cronbach, che mirano a valutare il complesso delle condizioni
psichiche necessarie per espletare una data attività; Giese-test, messi
a punto da F. Giese e rielaborati da F. Dorsch, che prendono in
considerazione l’aspetto qualitativo di alcuni parametri (abilità
manuale, capacità tecnica, capacità direttiva ecc.); Pauli-test,
elaborati da R. Pauli e perfezionati da W. Arnold, che misurano la
qualità della concentrazione, dell’attenzione, del rendimento nello
svolgimento di un’attività lavorativa.
15.5 Orientamento professionaleAnche per l’orientamento professionale
sono stati sufficienti pochi decenni per rendere evidente che un
orientamento circoscritto al momento della scelta di un’attività
lavorativa dava risultati modesti e insoddisfacenti. Quel momento non
era infatti che il risultato dei precedenti pedagogici della storia
relazionale dell’individuo; il margine per aiutare alla scelta della
professione si presentava pertanto ristretto e rigido. L’orientamento
doveva perciò necessariamente allargarsi in orientamento scolastico e
professionale, prendendo in considerazione, e attribuendogli importanza
maggiore, il periodo formativo dei soggetti da inserire nel più vasto
processo della formazione professionale.
A un tipo di strategia che considerava il lavoro come costante e l’uomo
come variabile, si è contrapposto un tipo di approccio la cui enfasi è
invece posta sul lavoro e sull’ambiente al fine di adattarli alle
capacità e ai limiti dell’essere umano, con la conseguente necessità di
formulare una strategia d’interventi che, invece d’individuare
nell’insieme delle risorse umane profili professionali adattabili alle
richieste dell’organizzazione, manipoli la variabile lavoro in modo che
ogni persona possa adattarvisi. In questa direzione, la ricerca di
livelli ottimali d’integrazione tra uomo e ambiente di lavoro è
diventata lo scopo e l’interesse base d’indagini e di programmi di
ricerca che, sia pure in prospettive diverse, hanno trovato una loro
collocazione sotto le etichette di human engineering, biomeccanica,
engineering psychology, p. sperimentale applicata, fattori umani
dell’ingegneria e, infine, ergonomia, il termine di più larga accezione.
15.6 Relazioni umaneLa dottrina delle relazioni umane ha rappresentato
la più compiuta tra le forme di reazione alle nuove esigenze, e di
fatto, per le direzioni aziendali, fu intesa non tanto come aggiunta
alle teorie precedenti sull’organizzazione del lavoro, ma come una
tecnica d’intervento che nelle mutate condizioni sociali consentisse
non tanto e non più l’adattamento dell’uomo alla macchina, ma
l’adattamento al regime di fabbrica nel suo insieme. Il progetto delle
relazioni umane, non ponendosi in termini di alternativa reale, non
incise sulla struttura dell’organizzazione, rimanendo costretto e
strumentalizzato all’interno della rigida cornice istituzionale fissata
dallo scientific management e rivelandosi nel complesso incoerente con
i sistemi aziendali.
Nelle mutate condizioni economiche, sociali e tecnologiche degli anni
intorno al 1950 il bisogno di recupero della soggettività operaia
divenne assoluto: la presenza sempre più massiccia di forza-lavoro
qualitativamente differenziata, il cui impiego non sopportava le regole
e i ruoli della vecchia organizzazione manufatturiera, rese rapidamente
obsolete le forme di stratificazione professionale e mise in crisi il
problema del potere all’interno dell’azienda, del potere tecnico non
meno importante di quello politico, di un potere su quello che si fa e
sul dove porta, capace di dare al lavoro un senso e un significato meno
inconsistente e di permettere a chi lo svolge, a qualsiasi livello
della struttura aziendale, di «sapere come funziona» e non di
«funzionare senza saperlo». In questa prospettiva, quasi in termini di
conflitto tra una concezione dell’uomo come componente strumentale del
processo di produzione (con un ruolo al di sotto della sua
individualità tecnica) e una che lo considera come un fattore di
adattabilità al centro dell’organizzazione (con un ruolo creativo e
partecipe che esalta la sua individualità tecnica), vanno a collocarsi
soluzioni non più e non tanto di una p. del lavoro di tipo
tradizionale, ma prodotte dallo sforzo congiunto di più discipline che,
concentrandosi sull’esigenza di una diversa organizzazione del lavoro,
deve tener conto della fabbrica e della società e dell’urgente
necessità di costruire nuovi referenti e nuovi modelli. Dietro queste
soluzioni, le riassunzioni, dirette o indirette, di temi classici della
p., quali i bisogni, le motivazioni, le strategie decisionali, sono
evidenti, e alle vecchie ricette psicotecniche si sostituiscono più
ambiziosi sforzi di teorizzazione nei quali confluiscono le nuove
correnti della p. sociale cognitiva e gli sviluppi dell’ergonomia
cognitiva.
16. P. della musica
Oggetto della sua indagine sono la percezione della musica, la
creazione musicale, la memoria musicale, il talento musicale e le
reazioni emotive collegate alla musica. Sono particolarmente studiate
le dimensioni tonali (altezza, volume, timbro, ritmo, memoria), le loro
modificazioni attraverso l’esercizio, le questioni fisiopsicologiche
relative all’‘orecchio assoluto’ (cioè alla capacità di riconoscere
senza errori i toni ordinati in una successione casuale e quindi di
identificare un tono senza ricorrere a un tono di confronto).
17. P. pedagogica o psicopedagogia
Ramo della psicologia applicata che si avvale di tecniche e dati
offerti da diverse branche della p. per lo studio dei problemi
educativi.
Gli antecedenti di questa disciplina si possono ritrovare sia come
acquisizione di consapevolezza psicologica da parte della pedagogia sia
come acquisizione di consapevolezza pedagogica da parte della
psicologia. Nel primo senso ha operato una tradizione che da Comenio,
attraverso J.J. Rousseau e J.F. Herbart, è giunta fino a J. Dewey e
all’attivismo; nel secondo, l’opera di autori come G.S. Hall, W. James,
A. Binet, É. Claparède, J. Piaget, J.S. Bruner, e, in senso tutto
particolare, di E.L. Thorndike, e B.F. Skinner.
Dal lato della psicologia, l’adozione del metodo sperimentale di
ricerca è sfociata nella costruzione di modelli e di sistemi che
investono anche le situazioni d’istruzione: con la netta prevalenza,
ancor oggi, della considerazione dei processi di apprendimento su
quella dei processi d’insegnamento, ma con la possibilità aperta di
interessanti e notevoli sviluppi futuri anche in questo settore. L’uso
dell’espressione fu proposto da G. Mialaret, il quale accentuò il
significato di uno studio globale della personalità del discente o
educando (e in grado minore e consequenziale della personalità del
docente o educatore entro la stessa situazione d’istruzione). Questo in
opposizione alla versione tedesca, anglosassone e slava dei medesimi
studi, tendente ad accentuare i problemi dell’apprendimento nei
confronti di quelli della personalità, e a considerare su un piano di
più stretta interdipendenza le due figure del discente e del docente.
Scienza interdisciplinare, ne dipendono discipline
più settoriali e specifiche, come la psicodidattica (studio dei
processi di apprendimento-insegnamento promovibili a seconda di
condizioni ambientali, sociali, istituzionali-scolastiche, strumentali,
economiche ecc.) e la psicomatetica (studio dei processi di
apprendimento-insegnamento promovibili a seconda di condizioni logiche
interne alla situazione, per es., rispetto al tipo o contenuto
dell’istruzione in corso), nonché la p. scolastica, o studio
dell’ambientazione istituzionale della situazione d’istruzione.
Per le correnti più legate allo studio della personalità, vi rientrano
molte tecniche d’intervento per terapie di normalizzazione, soprattutto
se esercitate in forma sistematica collettiva (a esclusione di quelle
strettamente psicanalitiche). Da tale punto di vista, la psicopedagogia
speciale (o differenziale) si occupa dei problemi di apprendimento e di
adattamento al contesto scolastico di soggetti caratterizzati da
insufficienza mentale. Pure in rapporto con la psicopedagogia si
possono considerare le tecniche tutoriali di assistenza allo studio, o
di guida e consiglio nell’orientamento.
Oggetto fondamentale rimane l’insieme delle modificazioni riscontrabili
in un processo d’istruzione (o educazione) considerato dal suo inizio
al suo termine in una situazione data; con la possibilità di osservare,
fra le condizioni, elementi che variano dagli atteggiamenti e
attitudini alle abilità o performance e ai gradi di profitto
riscontrabili; fra gli obiettivi, sia l’aspetto cognitivo sia quello
operativo, con l’implicazione dell’intenzionalità, della motivazione,
dell’interesse; fra gli interventi, le scelte logiche, come le
procedure o strategie di apprendimento-insegnamento, e quelle pratiche,
come i metodi e le tecniche utilizzabili concretamente.
La psicopedagogia è stata influenzata notevolmente dalle tendenze della
p. cognitiva. Molte ricerche sono state dedicate all’apprendimento
delle abilità di lettura e scrittura e alle strategie di ragionamento.
Un ampio dibattito è stato dedicato al ruolo dei fattori genetici e
maturazionali (scuola di Piaget) e di quelli storico-culturali (scuola
di Vygotskij) nello sviluppo psichico infantile, al fine di fissare
tappe più o meno rigide del processo educativo in relazione alla
maturazione biologica del bambino e al suo contesto socio-educativo.
18. P. sociale (o psicosociologia)
Ramo della psicologia, detto anche sociopsicologia, che studia i
comportamenti, le valutazioni e i sentimenti degli individui in quanto
membri di una collettività sociale.
18.1 PrincipiConvenzionalmente, la nascita della p. si fa coincidere
con la pubblicazione, nel 1908, delle prime due opere dal titolo Social
psychology del sociologo americano E.A. Ross e dello psicologo inglese
W. McDougall. La disciplina si è sviluppata in modo privilegiato negli
USA, dove la dovizia dei mezzi, l’urgenza dei problemi sociali da
risolvere, la presenza di molti studiosi europei, profughi dai loro
paesi d’origine, hanno dato ragione del gran numero di indagini, studi
e testi sull’argomento.
La spiegazione psicologica del comportamento sociale fu all’inizio
tentata utilizzando i concetti di imitazione, suggestione, abitudine,
simpatia, pressione sociale ecc.; ma risultò sempre più evidente che le
condotte sociali anche più stereotipate (come certi atti rituali) non
si spiegano, in ultima analisi, che in termini di «utilità
(psicologica) funzionale» per l’individuo: sono cioè da questo adottate
perché rispondono a bisogni e sono in linea con idee e atteggiamenti
che gli sono caratteristici. Pertanto, qualsiasi indagine esplicativa
del comportamento sociale dovrà rifarsi prima di tutto al complesso
delle leggi psicologiche riguardanti la motivazione, la conoscenza,
l’apprendimento ecc., e cioè ai processi psicologici fondamentali che
spiegano ogni comportamento, pure beneficiando dell’apporto
sociologico, indispensabile per la spiegazione integrale dell’azione
sociale.
18.2 InterazioneÈ soprattutto nella discussione del concetto centrale
di interazione che si sono differenziati gli orientamenti degli
studiosi di p.: mentre gli ‘psicologisti’ (specie della corrente
behaviorista) hanno teso a ridurre l’interazione sociale a fenomeno
puramente psicologico e a spiegarla in termini di psicologia
individuale, i ‘sociologisti’ l’hanno interpretata in termini
prevalentemente sociologici, riducendola ad assunzione di ruoli
partecipati e facendone, quindi, una funzione della società. Per uscire
dal trabocchetto riduzionista, è stato teorizzato, da S.E. Asch e da
altri, un concetto d’interazione umana come campo sociale mutuo, che
conserva al campo sociale la sua natura psicologica, senza implicare
una negazione della specificità sociale del comportamento associato.
18.3 Gruppi tematiciLe ricerche di p. si sono centrate, seguendo le
linee guida di diversi indirizzi teorici, su un gran numero di gruppi
tematici; tra i più importanti, ricordiamo: i fattori sociali nei
processi della percezione e della memoria e nella motivazione (F.C.
Bartlett, G.W. Allport, B. Berelson ecc.); la comunicazione e la
persuasione (A. Lumsdaine, C. Hovland, P. Lazarsfeld, L. Festinger);
l’influenza interpersonale (S.E. Asch, R.S. Crutchfield, P.G. Grasso,
K. Lewin, M. Sherif, T. Newcomb, C. Chapman ecc.); la stratificazione e
i ruoli sociali (U. Bronfenbrenner, P. Lazarsfeld, N. Gross); la
leadership (J. Moreno, H. Jennings, G.L. Lippitt); personalità, cultura
e struttura sociale (T.W. Adorno, M. Rokeach e, tra gli italiani, P.G.
Grasso, W.V. Battacchi, R. Canestrari, G. Jacono e L. Meschieri);
struttura e processi di gruppo (R. Bales, E.F. Borgata, A. Bavelas, S.
Stouffer, C. Herberg e il gruppo di ricercatori facente capo al
Research center for group dynamics dell’università del Michigan). Il
duplice riferimento all’individuo e alla società, ai processi psichici
e all’organizzazione collettiva della realtà e dei suoi significati
pesa sulla fisionomia della p. sociale e in alcuni momenti ciò ha
determinato ‘crisi’, spesso risolte a discapito dell’una o dall’altra
delle sue distinte, seppure inscindibili, istanze.
18.4 Cognizione socialePur nella varietà di prospettive teoriche e di
stili esplicativi, non c’è dubbio che una delle linee più
caratteristiche dello sviluppo della p. sociale riguardi il crescente
interesse per la cognizione. A questo proposito, si è cercato di
esplicitare che cosa si intenda esattamente per cognizione sociale: la
cognizione è sociale non solo per la natura del suo oggetto, per i suoi
contenuti, ma anche per il suo carattere condiviso, per la sua origine
e per la sua funzione. In questa linea è possibile individuare una
posizione intermedia lungo il continuum che va dal costruzionismo
sociale radicale allo psicologismo individualistico: molti studiosi
utilizzano la sofisticata metodologia sperimentale propria della
ricerca cognitiva, senza rinunciare a una interpretazione della vita
psichica in cui, però, la costruzione collettiva dei significati appare
più importante e centrale dei processi puramente individuali di
elaborazione delle informazioni. Questa scelta individua uno spazio che
è proprio ed esclusivo della p., la cui specificità consiste nel non
limitarsi a un unico livello di analisi (intrapsichico,
interindividuale o intergruppo), per porsi piuttosto proprio
all’intersezione fra questi diversi livelli.
Anche se non mancano altri approcci, la ricerca in chiave di cognizione
sociale è fortemente rappresentata, sia negli Stati Uniti sia in
Europa. Qui, in particolare, una maggiore attenzione è riservata a temi
quali l’identità sociale, il formarsi di stereotipi, le emozioni, le
relazioni intergruppi, il sé. Altri temi di ricerca ricorrenti
riguardano la vasta tematica delle rappresentazioni sociali (introdotta
da S. Moscovici), i processi di attribuzione (e cioè l’identificazione,
corretta o meno che sia, di cause interne od oggettuali di determinati
comportamenti), gli atteggiamenti, il linguaggio, l’influenza sociale.
Innumerevoli anche gli ambiti applicativi, che vanno dal lavoro, alle
strutture educative, alla salute, alla p. giuridica e politica.
19. Altre branche della psicologia
La p. transculturale studia i processi psichici di individui
appartenenti a culture diverse in un’ottica che privilegia l’influenza
dei fattori storico-culturali su quelli biologici.
Tra le altre più importanti branche della p. si ricordano inoltre: la
p. medica (rilevante per la medicina psicosomatica, per i rapporti
medico-malato), la p. gerontologica, la p. ostetrica (pratiche del
parto psicoprofilattico indolore), la p. ospedaliera (con particolare
considerazione dei rapporti interpersonali).
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it