psicologia clinica
PSICOLOGIA CLINICA (clinical
psychology; klinische Psychologie; psychologie clinique; psicología
clínica). – Settore autonomo della psicologia, non esclusivamente
applicata, spesso erroneamente identificato con la sola testologia o la
sola psicoterapia. Storicamente l’origine del termine si fa risalire al
suo fondatore: Lightner Witmer. Allievo di James M. Cattell e di Wundt,
Witmer sostenne l’utilizzo sistematico del metodo clinico in
psicologia, distinguendolo dal metodo clinico impiegato nella medicina.
Avviò la prima clinica psicologica all’Università della Pennsylvania;
istituì insegnamenti universitari e corsi di formazione e fondò una
rivista scientifica specificatamente dedicata alla disciplina
(«Psychological Clinic»).
Fin dal suo etimo (dal greco klivnh, letto), e in continuità con alcuni
settori della medicina, delle scienze sociali e di altre discipline
storico-filosofiche, la psicologia clinica rivela come suo oggetto
specifico la sofferenza e la malattia psichica e come obiettivo quello
di comprenderla, alleviarla e anticiparla. L’intervento sul caso, sia
esso individuale, familiare, di gruppo, costituisce l’ambito elettivo
di applicazione della psicologia clinica. In questo senso essa si
avvale dei saperi dei principali orientamenti psicologici (psicologia
generale, dello sviluppo, sociale, di comunità ecc.); si articola
secondo i paradigmi teorici e metodologici fondamentali
(psicoanalitico-psicodinamico, umanistico-esperienziale,
cognitivocomportamentista, sistemico); concerne il comportamento umano
in tutti i suoi aspetti (dal punto di vista dell’adattamento, del
funzionamento mentale e relazionale, dello sviluppo psico-biologico);
riguarda l’intero ciclo di vita della persona (la «temporalità») e i
suoi contesti di funzionamento, matrice culturale compresa (la
«spazialità»). Proprio siffatta versatilità costituisce il punto di
forza e, contemporaneamente, di debolezza della psicologia clinica,
rendendo il suo statuto epistemologico incerto. Alcuni fondamenti della
disciplina possono però delinearla in modo univoco. Tali fondamenti si
riferiscono rispettivamente al metodo clinico e alle finalità
applicative e di studio.
SOMMARIO: I. Il metodo clinico. - II. Le finalità applicative e di
studio: 1. La valutazione. - 2. Il trattamento. - 3. La ricerca.
I. IL METODO CLINICO. – Si contrappone al procedimento sperimentale e a
quello statistico, tipici della psicologia di base, per il ricorso al
rapporto interpersonale come approccio conoscitivo elettivo; per l’uso
dell’osservazione, sistematica, rigorosa e partecipante, come primaria
metodologia di studio; per l’impiego di procedure indiziarie, più che
ipotetico-deduttive, come suo fondamento epistemico; per lo studio
intensivo del caso singolo come suo vertice di indagine fondamentale,
laddove il caso può essere anche una coppia, una famiglia, un gruppo,
un’organizzazione. In questo senso il metodo clinico ha natura
propriamente idiografica: è infatti più spesso associato al metodo
cosiddetto soggettivo, talora interpretativo-intuitivo o della
complessità, ma che è meglio qualificare come qualitativo o
comprensivo. La differenza cruciale che ne deriva, ossia quella tra
idiografico e nomotetico, non deve tuttavia far pensare all’assenza di
controllo e di fondamento empirico, viste le cautele e i criteri con i
quali il metodo clinico può e deve essere impiegato. Di fatto, unicità
e regolarità possono coniugarsi: in questo senso – scrive Santo Di
Nuovo – «costituiscono significativi passi in avanti [...] l’affermarsi
di una logica di ricerca esploratoria accanto alla conferma/disconferma
di ipotesi tipica della sperimentazione; la combinazione in uno stesso
disegno di confronti fra gruppi e analisi di casi individuali;
l’approntamento di nuove e specifiche modalità di rilevazione; il
diffondersi della cumulazione dei risultati e della verifica
metaanalitica come strategia per incrementare le possibilità di
generalizzazione» (I metodi della ricerca in psicologia clinica, in L.
D’Odorico [a cura di], Sperimentazione e alternative di ricerca.
Orientamenti metodologici in psicologia dello sviluppo, sociale e
clinica, Milano 1995, pp. 209- 210). La specificità del metodo clinico
si evidenzia inoltre in due ordini di fattori: il carattere processuale
dell’indagine che gli è propria (da qui definita storico-ermeneutica in
contrapposizione al carattere a-temporale di certa ricerca
sperimentale) e la sua non esclusiva riducibilità alla patologia.
II. LE FINALITÀ APPLICATIVE E DI STUDIO. – Si lasciano ordinare in tre
grandi raggruppamenti. 1. La valutazione. – Basata sull’indagine
psicologica, in contrapposizione a quella medicopsichiatrica, non si
riduce al mero riconoscimento di segni e sintomi, quanto alla «ricerca
di senso» che il caso offre. Psicodiagnostica e psicopatologia sono
spesso suoi derivati ma, relativamente alla psicologia clinica, essi
vanno intesi a partire dal significato primario di patologia, ossia
«discorso sulla sofferenza». Anche nel caso di un gruppo o di
un’organizzazione si considera il dolore e il bisogno sotteso aldilà
della possibilità nominalista di associarvi una qualche etichettatura
eziologica (diagnosi medica) o sindromica (diagnosi psichiatrica). Lo
scopo – dicono Ezio Sanavio e Cesare Cornoldi – «non è la collocazione
del soggetto esaminato all’interno di una classe diagnostica, ma
l’acquisizione di una conoscenza più approfondita del soggetto lungo
molteplici dimensioni psicologicamente rilevanti. [...] La formulazione
di una diagnosi di disturbo mentale [...] può essere una
chiarificazione preliminare, può essere un tassello imprescindibile, ma
non esaurisce l’esame psicodiagnostico, che è un insieme più ampio»
(Psicologia clinica, Bologna 2001, p. 12). Finalità, contesti teorici e
applicativi, problematiche e tipologie diverse di pazienti orientano la
valutazione e le metodologie di indagine di cui la valutazione stessa
dispone. Tra queste, classicamente, si riconoscono: l’osservazione (più
o meno naturalistica), il colloquiointervista (più o meno strutturato),
il reattivo mentale (di intelligenza e di sviluppo, psicofisiologico e
neuropsicologico, proiettivo e grafico, autovalutativo). Esempi in
questo senso sono rispettivamente: l’osservazione etologica,
l’osservazione diretta psicoanalitica, l’osservazione
quasi-sperimentale di matrice piagetiana, l’auto-osservazione, il
gioco; l’intervista strutturale di Otto F. Kernberg, l’Adult Attachment
Interview di Mary Main e colleghi, il colloquio clinico libero; i test
di intelligenza di John C. Raven; il Bender Gestalt Test; le tecniche
di Neuro-Imaging; il test della torre di Londra di Tim Shallice; il
test di Hermann Rorschach; il Family Life Space di Danuta Mostwin; il
Beck Depression Inventory. 2. Il trattamento. – Si declina sia in una
prospettiva salutogenica, sia di intervento in senso stretto. Da qui la
sua articolazione progressiva lungo l’asse
«prevenzione-orientamentoconsultazione- sostegno-psicoterapia».
Trasversale a tali componenti si colloca la «relazione» o «legame
interpersonale», da intendersi come condizione necessaria – per alcuni
sufficiente – ai fini del trattamento e del lavoro di cura psichica.
Molteplici le derivazioni etimologiche richiamate dal termine: la
relazione ha infatti caratteristiche sia di vincolo (re-ligo), sia di
senso (re-fero), sia di decisione e gradi di libertà (rel-actio). In
ultima istanza, la relazione rimanda all’epistemologia interna della
psicologia clinica stessa e al suo ambito elettivo di applicazione, la
«psicoterapia», ossia – seguendo l’accezione di Cesare L. Musatti –
«terapia condotta con mezzi psichici» (Psicologia clinica e clinica
psicologica, in «Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria», 14,
1953, pp. 141-153). Punto di massima convergenza tra domanda
dell’utenza, conoscenze disponibili e metodiche di intervento, la
psicoterapia si qualifica a partire da opportune distinzioni. In questo
senso – secondo Vittorio Cigoli (Intrecci familiari. Realtà interiore e
scenario relazionale, Milano 1997) – risulta utile distinguere tra
paradigmi clinici, modelli, metodi, tecniche e contesti. I primi, i
«paradigmi», sono un insieme di presupposizioni-guida, concetti e
costrutti teorici, classificabili come psicoanalitico-psicodinamico,
umanistico-esperienziale, cognitivo-comportamentista, sistemico. I
secondi, i «modelli», sono invece operativi e assai numerosi e si
prestano alla verifica empirica e clinica. A loro volta, i «metodi»
fanno da ponte tra il paradigma teorico di riferimento e le numerose
«tecniche» di intervento utilizzabili. Riducibili a quattro
fondamentali (interpretativo, esperienziale, prescrittivo, educativo) i
metodi sono presenti nel lavoro dei terapeuti con differenti
articolazioni. Infine, i «contesti» delineano l’ambito entro cui si
attualizza il trattamento (il singolo, la coppia, la famiglia, il
gruppo, l’organizzazione, la rete sociale) con vincoli e opportunità
specifiche. Attualmente assistiamo, più che in passato, al tentativo da
parte dei vari paradigmi di occuparsi di tutti i contesti terapeutici
col rischio però di uniformarli e dimenticarne i caratteri distintivi.
3. La ricerca. – Le principali strategie di ricerca di cui si avvale la
psicologia clinica, anche nei termini di una loro combinazione, si
riferiscono rispettivamente: a) al metodo «sperimentale» (indirizzato,
secondo il modello del laboratorio, all’analisi e comprensione dei
fattori esterni agli organismi e in cui il controllo delle variabili
risulta potenzialmente massimo); b) al metodo «correlazionale» (basato
sulla significatività statistico-inferenziale e tipico della ricerca in
ambito psicosociale e in ambito epidemiologico); c) al metodo «clinico»
(volto alla gestione dei fattori interni ai soggetti, sulla base di una
significatività clinico-pratica e del rapporto interpersonale come
tecnica di conoscenza privilegiata). Se il metodo sperimentale genera
problemi di ordine pratico ed etico tali da inficiarne talora l’uso, e
quello correlazionale origina a sua volta problemi di interpretazione
dei risultati, il metodo clinico – dal canto suo – è spesso criticato
per l’assenza di adeguato controllo metodologico. Negli anni, tuttavia,
si è assistito ad un progressivo perfezionamento in tal senso: la
stessa ricerca con disegno a caso singolo (single case research o N=1)
ha sviluppato metodologie rigorose di controllo, raccolta ed analisi
dei dati. Esempi in questo senso sono la replicazione sistematica e
ragionata di più casi e la procedura di ricerca nota come metaanalisi.
La ricerca scientifica non significa infatti mero appiattimento
sperimentale, viste le specificità con cui la psicologia clinica va e
deve essere pensata. Del resto – d’accordo con Santo Di Nuovo – dal
momento che «essa si pone un oggetto diverso (che non si presta a
scomposizioni riduttive) e un diverso scopo (non solo conoscitivo ma
anche trasformativo), diversa e peculiare deve essere la sua
metodologia» (I metodi della ricerca in psicologia clinica, p. 209).
Bibliografia
Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006