significato
Il contenuto espressivo di
qualsiasi mezzo di comunicazione (parole o frasi, gesti, segni grafici
ecc.).
In linguistica, ciò che si vuol dire pronunciando una frase o una
parola, il messaggio cioè che con queste si trasmette.
FILOSOFIA
1. Il s. nella filosofia antica
Nella filosofia presocratica troviamo i primi documenti di una
riflessione intorno al significato. Laddove Eraclito sosteneva che le
parole significano naturalmente e sono del tutto adeguate a
rappresentare la mutevolezza della realtà, Parmenide sottolineava il
carattere arbitrario del s. delle espressioni linguistiche, incapaci di
cogliere l’unità dell’essere. Platone si soffermava poi nel Cratilo
sull’interpretazione del s. delle parole nei termini di un rapporto
onomatopeico tra forma linguistica e oggetto designato, mentre al
Teeteto e al Sofista si può far risalire un primo tentativo di
classificazione filosofica di diversi livelli di s., con la distinzione
tra il dire (λέγειν) e il denominare (ὀνομάζειν). Nell’Organon di
Aristotele, e in particolare nel De interpretatione, veniva avanzata
una teoria che faceva dipendere il s. delle forme linguistiche,
riconosciute come del tutto arbitrarie e frutto di convenzioni, dalla
loro relazione con le ‘affezioni dell’anima’ che altro non sono che
copie mentali delle cose reali. Anche in Aristotele troviamo la
distinzione tra vari tipi di s.: s. del nome, che è senza tempo, e s.
del verbo, che ‘significa in aggiunta il tempo’; s. apofantico proprio
degli enunciati dichiarativi a cui appartiene l’essere vero o falso, e
s. retorico proprio di quegli enunciati che sono usati con intenti
persuasivi. Secondo Diogene Laerzio, gli stoici hanno dedicato
un’intera sezione della loro dialettica alle questioni di s.: non a
caso dunque a Zenone di Cizio, a Cleante di Asso e a Crisippo di Soli
si fa risalire la prima dottrina completa sulle cose significate o
espresse (λεκτά). Gli stoici distinsero tra ciò che significa, ciò che
viene significato e l’oggetto, ovvero tra l’espressione linguistica, il
s. vero e proprio che altro non è che una ‘rappresentazione razionale’
della cosa cui si pensa, e la cosa esterna.
Ai logici dell’età medievale, e in particolare a Gugliemo di
Shyreswood, Pietro Ispano e Guglielmo di Occam, si può far risalire
l’importante distinzione tra significatio e suppositio: la significatio
di una parola o di una frase è la sua capacità di comunicare o
presentare una forma, mentre la suppositio è la capacità che un termine
ha di riferirsi a un certo oggetto.
2. Il s. nella filosofia moderna e contemporanea
Nella filosofia moderna una teoria che concepisce il s. come un’idea
legata alla parola e che viene risvegliata nel pronunciarla anche
nell’ascoltatore fu proposta nel 17° sec. dai logici di Port Royal. Non
diversamente anche J. Locke nell’Essay concerning human understanding
(1690) sosteneva che la funzione delle parole è quella di essere
contrassegno delle idee e che le idee dunque sono il loro significato.
Nel 18° sec. la teoria lockiana del s. venne riproposta da E.B. de
Condillac e P.L.M. de Maupertuis. Particolarmente importante è poi il
System of logic (1843) di J.S. Mill, il quale rilevava che la
concezione denotazionista del s. può rendere conto solo del
funzionamento dei nomi propri, mentre non può spiegare quella più
importante dimensione del significare in cui è in gioco l’applicazione
di attribuzioni alle cose cui ci si riferisce. Mill collegava poi
questa dimensione connotativa del s., che sarebbe propria non tanto dei
nomi quanto dei termini generali, a dei ‘concetti’ o delle ‘essenze’
cui ci si riferirebbe.
Anche G. Frege distinse tra la denotazione o riferimento (Bedeutung) di
un segno, che sarebbe l’oggetto designato, e il suo senso (Sinn),
ovvero il ‘modo in cui quell’oggetto ci viene dato’. La differenza tra
senso e denotazione risulta chiara se consideriamo che mentre
espressioni come ‘la stella del mattino’ e ‘la stella della sera’ hanno
indubbiamente un senso diverso, pur tuttavia si riferiscono entrambi
allo stesso oggetto, il pianeta Venere. Nonostante la distinzione di
Frege, la teoria del s. come riferimento godette di grande fortuna
nella filosofia analitica. Così B. Russell poneva al centro del suo
atomismo logico una teoria del s. che interpretava tutte le
proposizioni complesse significanti come riducibili a proposizioni
atomiche, in cui compaiono solo nomi di dati sensoriali. L.
Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus (1922), oltre a
sostenere che il nome significa l’oggetto, affermava una completa
corrispondenza tra la struttura della frase significante e la struttura
del fatto rappresentato. Le teorie di Wittgenstein dovevano suscitare
l’interesse di alcuni componenti del circolo di Vienna, i quali ne
trassero argomenti per le loro dottrine antimetafisiche volte a
definire un criterio di significanza empirica in grado di squalificare
come privi di s. gli enunciati non vertenti, sia pure in modo indiretto
e in linea di principio, su ciò che è esperibile.
3. L’orientamento pragmatico
Nel 20° sec. si è avuta una serie di tentativi di proporre teorie
alternative rispetto a quella che assimila il s. alla denotazione di un
oggetto fisico o mentale. Alle riflessioni di C.S. Peirce e di G.H.
Mead si può far risalire la prima comparsa di quella teoria pragmatista
o comportamentista del s. che, riproposta da C.K. Ogden e I.A. Richards
con The meaning of meaning (1923), fatta valere nella linguistica da L.
Bloomfield con Language (1933), trova in Signs, language and behaviour
(1946) di C. Morris e in Ethics and language (1944) di C.L. Stevenson
la presentazione più sistematica. Il s. di una parola o frase non è più
visto come ciò che viene raffigurato o denotato, ma come l’insieme
della situazione che spinge a produrre una certa formula linguistica
(lo stimolo) e degli effetti che la sua produzione provoca negli
ascoltatori (la risposta).
Il più radicale ridimensionamento delle teorie referenzialistiche del
s. a favore di una prospettiva pragmatica (volta a studiare il s. in
relazione agli utenti di un linguaggio e ai loro scopi comunicativi) si
deve comunque a Wittgenstein che, mettendo in discussione la teoria
sostenuta nel Tractatus, nelle Logische Untersuchungen (post. 1953)
indicò nell’uso delle espressioni linguistiche uno dei più importanti
fattori nella determinazione del loro s., definendo l’uso a sua volta
nei termini delle regole e delle convenzioni linguistiche di una
comunità. L’orientamento pragmatico non è peraltro tipico/">tipico
del solo Wittgenstein, ma è comune ai rappresentanti della cosiddetta
filosofia del linguaggio ordinario (G. Ryle, P.F. Strawson, J.O.
Wisdom, J.L. Austin). Particolare rilievo presentano le teorie di
Austin (How to do things with words, 1962), che mise in evidenza la
funzione illocutiva di molti proferimenti linguistici (come dare
ordini, chiedere scusa, promettere ecc.), cioè il fatto che con essi
non si afferma qualcosa suscettibile di essere vero o falso, ma si
compie un’azione, ‘si fa qualcosa’. Sotto le suggestioni di Austin, ma
con intenti più sistematici, J. Searle (Speech acts, 1969) elaborò poi
un’articolata teoria del s. basata sulla nozione di ‘forza illocutiva’.
4. Il s. negli sviluppi della filosofia del linguaggio
Le sottili analisi della filosofia del linguaggio ordinario si
contrapponevano agli esiti sempre più tecnici dell’impostazione
neopositivista del problema del s.: fondamentale da questo punto di
vista il contributo di R. Carnap (Meaning and necessity, 1947) che,
insieme con i risultati di A. Tarski, rappresenta in larga
misura/">misura la fonte delle successive analisi semantiche di tipo
formale. Oltre che dai filosofi del linguaggio ordinario questa
impostazione è stata oggetto di radicali obiezioni da parte di W.V.O.
Quine. Criticando la nozione di ‘proposizione’ intesa come il s. in
comune a un enunciato e alla sua traduzione in un’altra lingua, con
l’esperimento mentale della ‘traduzione radicale’ (Word and object,
1960), Quine è pervenuto a conclusioni scettiche circa la possibilità
stessa di una teoria del s.: sulla base di un approccio
empirico-comportamentistico al linguaggio ha posto in luce, mediante la
descrizione del lavoro di un ipotetico linguista che si trovi a
dover/">dover tradurre una lingua del tutto sconosciuta, come i dati
comportamentali non siano sufficienti a determinare la compilazione di
un univoco ‘manuale di traduzione’, essendo tali dati compatibili con
più manuali (tesi dell’‘indeterminatezza della traduzione’). Quine è
giunto inoltre a una concezione olistica del s. e del linguaggio, per
la quale gli enunciati sono significanti solo all’interno della
totalità del linguaggio cui appartengono.
Ispirata in parte a Quine e in parte alla semantica di Tarski è la
teoria del s. di D. Davidson. Partendo dalla definizione del predicato
‘vero’ di Tarski, Davidson ha proposto di utilizzare una teoria della
verità per un linguaggio naturale L come teoria del s. per L. Le
equivalenze metalinguistiche di tipo tarskiano della forma ‘E è
vero-in-L se, e solo se, T’ (dove E sta per il nome di un qualsiasi
enunciato di L e T per l’enunciato stesso o una sua traduzione nel
metalinguaggio) sono considerate specificazioni delle condizioni di
verità di E, che per Davidson ne forniscono il significato. Una teoria
del s. così concepita va poi empiricamente controllata attraverso un
metodo interpretativo di tipo olistico finalizzato ad accertare quali
siano gli enunciati ritenuti veri dal parlante sotto esame.
Mentre la teoria davidsoniana del s. ridimensiona la nozione di
riferimento, questa è invece al centro della concezione causale del s.
dei termini di genere naturale proposta da H. Putnam, secondo cui il
riferimento di tali termini è parte preponderante del loro significato.
A M. Dummett si deve infine la riproposizione di una forma di
verificazionismo, benché di tipo diverso da quello neopositivistico e
direttamente ispirato all’intuizionismo matematico. Dummett ha messo in
discussione la tesi di Davidson (e altri) che il s. di un enunciato
consista nella specificazione delle sue condizioni di verità, giacché
per un vasto numero di enunciati (sul passato, sul futuro, di tipo
controfattuale) nessun parlante è in grado di specificare tali
condizioni. Il s. sarebbe invece dato da ‘condizioni di asseribilità’,
nel senso che la capacità di afferrare il s. di un enunciato equivale
alla capacità di sapere cosa ne costituisce (o costituirebbe) una
giustificazione e, quindi, di asserirlo correttamente.
LINGUISTICA
1. Gli studi linguistici
L’inizio dello studio linguistico moderno del s. si pone di solito nel
1897 con l’Essai de sémantique di M. Bréal (che crea anche la parola
per la disciplina). Conformemente alla prospettiva dell’epoca, è un
saggio sui mutamenti di s. che ne modificano l’estensione (per es., per
restringimento, dal latino linteolum «lenzuolo» si ha il francese
linceul «sudario», il lenzuolo in cui si avvolgono i morti) e inaugura
una corrente di ricerche che arriverà senza sostanziali mutamenti fino
a S. Ulmann (Semantics: An introduction to the science/">science of
meaning, 1962). F. de Saussure, allievo di Bréal, riporta il
cambiamento come il funzionamento dei s. alla loro natura relazionale.
Nella dottrina saussuriana il segno è un’entità bifacciale composta da
significante e s., e questo è definibile solo come controparte del
primo. I s. infatti assumono valore solo delimitandosi reciprocamente
nel sistema (il francese mouton «montone» non ha lo stesso valore
dell’inglese mutton, perché questo indica solo la carne di montone
cucinata, avendo accanto a sé un secondo termine sheep per la bestia
viva). Questo tipo di considerazioni è sviluppato, con una certa
indipendenza da Saussure, dalla teoria dei campi semantici (in
particolare J. Trier), che studia settori di lessico che si riferiscono
a un aspetto delimitato della realtà, organizzati da termini che si
delimitano e oppongono reciprocamente. Per es., nel campo del ‘sapere’,
il tedesco del 13° sec. opponeva wisheit, il «sapere» spirituale in
generale, ai più specifici kunst, l’«arte» cortese, e list, la
«tecnica» artigiana. Un secolo dopo, a causa del cambiamento sociale e
culturale, wizzen (che si è sostituito a list) e kunst hanno perduto il
riferimento di classe, ed esprimono il primo il sapere «tecnico», il
secondo quello «artistico», mentre wisheit non li riassume più e indica
la «saggezza» mistico-religiosa.
È però L. Hjelmslev, in Omkring spragteoriens grunglaeggelse («I
fondamenti della teoria del linguaggio», 1943) e in una serie di
articoli, che riprende, sistematizza, esemplifica le teorie
saussuriane: biplanarità del linguaggio, composto da espressione e
contenuto, distinzione su ognuno di questi due piani di forma e
sostanza. Alla base della semantica strutturale c’è l’idea
dell’autonomia linguistica del s., conseguenza della tesi saussuriana
dell’arbitrarietà del segno per la quale non c’è alcun motivo esterno
alla lingua stessa a che in essa esistano certi, e non altri,
significanti e significati. Ogni lingua crea i propri s. articolando
liberamente, cioè senza che su ciò influiscano le caratteristiche della
realtà o del mondo in cui gli esseri umani la percepiscono (tanto che,
per es., l’area che il latino articola in albus/candidus «bianco
opaco/bianco brillante» e ater/niger «nero opaco/nero brillante» è
articolata in italiano in bianco/nero); perciò il s. è un’entità tutta
linguistica: privo di basi oggettive o psicologiche, esso si definisce
solo all’interno del sistema di valori, la lingua, in cui ogni termine
riceve il suo per contrasto con gli altri. Alla semantica strutturale
si rifanno in Europa E. Coseriu, H. Geckeler, A.J. Greimas, J. Lyons,
E. Nida, B. Pottier, U. Weinreich.
Nello strutturalismo americano il s., concepito come la situazione in
cui il parlante pronuncia una forma linguistica e la risposta che essa
suscita nell’ascoltatore, non è un’entità interna alla lingua, benché
L. Bloomfield gli dedichi un capitolo nel suo manuale (Language, 1933).
Una forma, per essere linguistica, deve avere un s., ma la definizione
di questo può venire solo da altre scienze (così è la chimica a
spiegare che il s. di sale va definito come cloruro di sodio). Si
salvano solo i tratti grammaticali del s. (‘agente’, ‘passato’ ecc.).
N. Chomsky, che per vari aspetti si oppone a Bloomfield, ne continua la
diffidenza verso il s. nelle Syntactic structures (1957) in cui si
propone una teoria ‘formale’ nel senso di ‘asemantica’. Negli Aspects
of the theory of syntax (1965) c’è un componente semantico che
interpreta le parole inserite negli schemi sintattici, funzionando più
o meno come un dizionario, che specifica i tratti grammaticali e
lessicali e le possibilità di combinazione che definiscono il s. di una
parola. Questo tipo di analisi che enumera e ordina le caratteristiche
che un senso deve presentare per essere trasmissibile con un s.
analizzando questo nei suoi componenti, è detto analisi componenziale
(per es., ragazzo dovrà essere analizzato nei componenti «umano»,
«maschio», «non adulto»). Proposta da Hjelmslev che parlava di ‘figure
del contenuto’ per i componenti di base, ritrovata indipendentemente
dagli antropologi, perseguita da U. Weinreich, E.H. Bendix, M.
Bierwisch, essa continua a essere praticata, sia pure in diverso modo,
da varie scuole linguistiche.
2. Semantica generativa e semantica cognitiva
Allievi e collaboratori di Chomsky hanno però elaborato sotto il titolo
di semantica generativa una diversa teoria del linguaggio in cui
l’organizzazione fondamentale delle frasi è semantica, indipendente
dalla struttura sintattica, e i legami tra i s. delle parole possono
essere descritti secondo la ‘logica dei predicati’: nelle
‘rappresentazioni semantiche’ di G. Lakoff e J.D. Mc Cawley è il verbo
che viene per lo più utilizzato come ‘predicato’, ma anche gli
aggettivi, certi pronomi e la negazione; degli altri componenti
(‘argomenti’) si mostra il diverso livello gerarchico lavorando con
parafrasi. Questa teoria tende alla fusione di linguistica, psicologia
e logica. Benché essa abbia dato analisi assai fini di certi fenomeni,
si corre il grave rischio di cancellare così il livello linguistico
autonomo e arbitrario del significato.
Dagli sviluppi della semantica generativa è sorta, alla fine degli anni
1970, la semantica cognitiva. Essa rifiuta ogni scissione tra fatti
linguistici ed extralinguistici sottolineando il legame tra il
linguaggio e la cognizione umana volta a interpretare ed esprimere
l’esperienza del mondo: il linguaggio non è un’entità autonoma,
indipendente da altre facoltà e conoscenze cosiddette
extralinguistiche, al contrario assolve il suo scopo proprio perché si
sviluppa e funziona in stretta relazione con quelle; e non è arbitrario
perché le sue caratteristiche sono condizionate da quelle della realtà
e del mondo in cui gli umani la percepiscono.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it