transessualismo



Condizione di persona il cui sesso non è anatomicamente certo o che, pur essendo di sesso anatomicamente certo, si considera appartenente all’altro sesso, del quale aspira ad assumere le caratteristiche anatomiche e comportamentali. Il soggetto transessuale è quindi chi, nato e registrato anagraficamente secondo un sesso, ha poi assunto in vario modo e per mezzo di interventi chirurgici e trattamenti ormonali le caratteristiche fisiche dell’altro sesso, cui soggettivamente ritiene di appartenere.

1. Disturbo dell’identità di genere

Un vissuto di incongruità tra un corpo che non riconoscono e ciò che sentono di essere spinge i transessuali a cercare un cambiamento. L’intervento chirurgico e ormonale consente loro sia di possedere un corpo che appaia e funzioni come quello desiderato, sia di essere riconosciuti dalla società come appartenenti al genere verso cui si sentono psicologicamente orientati. Situazioni di questo tipo sono state descritte durante tutta la storia dell’umanità, con riferimento prevalente ai riti di iniziazione e/o morte e rinascita, come nel culto di Cibele e di suo figlio Attis, il cui punto centrale era l’evirazione; fenomeni che possono essere parzialmente ricondotti al t. sono stati riscontrati in molte culture. In Louisiana e in Florida i transessuali erano denominati Berdaches e avevano una funzione specifica in cerimonie religiose, nei riti funebri e in attività militari ausiliarie. Fra i Ciukci della Siberia il cambiamento di sesso era ordinato al giovane dallo spirito-guida che lo aveva eletto a sciamano: l’assunzione del ruolo femminile avveniva in tappe successive, e, quanto più la trasformazione era completa, tanto maggiori erano il prestigio e i poteri sciamanici.

J.B. Friedreich, nel 1830, fu il primo medico a fare allusione a questo tipo di problematica; J.-E.-D. Esquirol (1838) e K.F. Westpfal (1869) esposero i primi casi di travestitismo. Nel 1894 R. Kraft-Ebing descrisse un caso che definì metamorfosi sessuale paranoica. Solo nel 1949, con la definizione psychopatia transsexualis di D.O. Cauldwell, si ebbe la nascita del termine transessuali per le situazioni prive di una connotazione psichiatrica. H. Benjamin (1953) fu il primo a usare il termine per indicare una sindrome che definì e classificò distinguendola da tutte le altre parafilie: il transessuale andava considerato separatamente rispetto a tutte le deviazioni sessuali in cui non vi fosse un serio tentativo di acquisire identità o comportamento del sesso opposto, come il travestitismo e l’omosessualità. Gli elementi centrali del t. sono, in sintesi, il desiderio di trasformare il proprio corpo e la persistenza nel tempo di tale desiderio, presupponendo che questo non sia il sintomo di una malattia psichiatrica, né di un’alterazione cromosomica.

2. Fenomenologia

Le manifestazioni essenziali del t. sono un senso persistente di disagio e di contrasto nei confronti del proprio sesso anatomico, il desiderio incoercibile di sbarazzarsi dei propri genitali e vivere come una persona dell’altro sesso. Il comportamento, l’abbigliamento e gli atteggiamenti sono, in grado variabile, quelli del sesso opposto. L’età d’insorgenza si può collocare nella tarda adolescenza e nella prima età adulta, anche se già nell’infanzia si trovano i primi problemi d’identità. Nel linguaggio comune con il termine transessuale ci si riferisce prevalentemente a soggetti di sesso maschile: ciò è forse dovuto alla maggiore incidenza del fenomeno e anche al fatto che culturalmente è sempre stato più facile per i maschi esprimere i disagi inerenti alla sfera della sessualità. Inoltre, fino a poco tempo fa era chirurgicamente più facile trasformare un maschio in femmina piuttosto che il contrario.

3. Eziopatogenesi

È difficile stabilire l’origine del comportamento transessuale. Molti autori hanno provato ad avvalorare varie ipotesi patogenetiche, tuttavia le ricerche riguardanti gli aspetti biologici sono ancora poco convincenti. Certamente i fattori biologici, per quanto non espressamente patogenetici, possono in qualche modo favorire l’instaurarsi di tale disturbo; offre un’infinità di teorie l’interpretazione psicologica: verosimilmente, responsabili sono i processi di identificazione con le figure genitoriali, in particolare una condizione di fusionalità simbiotica con la madre e la conseguente mancata individuazione come persona separata e di sesso diverso, almeno per quanto riguarda i maschi. La madre del transessuale donna appare fredda e anaffettiva; il suo disinteresse porterebbe la figlia ad allontanarsi da lei fino a rifiutare la propria femminilità. Se il padre, inoltre, è una figura marginale, la bambina può cercare di diventare il compagno ideale della madre allo scopo di conquistarne l’affetto. Se invece il padre desiderava un figlio maschio, egli tenderà a incoraggiare i comportamenti e l’identificazione maschile della figlia, spostando il rapporto con lei dalla seduzione alla competizione ritualizzata, come se la bambina fosse un maschio.

4. Trattamenti

La diagnosi di t. è innanzitutto un’autodiagnosi, nel senso che il transessuale dichiara di essere tale e compito del clinico è valutare la genuinità di tale affermazione, escludere la presenza di una psicopatologia grave e proporre l’intervento che ritiene più idoneo. Modifiche della condizione sessuale sono ottenute con terapie ormonali a base di estrogeni (nel caso di femminilizzazione) o di testosterone o di altri steroidi anabolizzanti (nel caso di mascolinizzazione), somministrati per periodi lunghi, anche anni. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico per evitare gli effetti da sovradosaggio; è questa una prescrizione non sempre facile da seguire da parte del transessuale a causa della situazione di ‘clandestinità’ in cui spesso è costretto a vivere la sua sessualità che può anche portare all’acquisizione e al consumo di prodotti non testati e non controllati, che possono dare forme anche gravi di epatite. Per quanto riguarda la riattribuzione chirurgica del sesso (RCS), nel caso di cambiamento dal sesso maschile a quello femminile (il più frequente) l’intervento chirurgico consiste nell’ablazione degli organi genitali, nel confezionamento di una cavità pseudovaginale ed eventualmente nell’inserimento di protesi mammarie. Nella donna che vuole mascolinizzarsi, la costruzione chirurgica di un pene con possibilità di erezione comporta maggiori problemi tecnici, maggior numero di interventi e l’inserimento di protesi peniene gonfiabili. La frequenza degli interventi chirurgici, ai quali i transessuali devono sottoporsi per perseguire l’obiettivo del cambiamento di sesso, aumenta la possibilità di infezioni. Ovviamente l’intervento non consente di acquisire la capacità procreativa peculiare per il nuovo organo. Nella fase postchirurgica è necessario affrontare problematiche inerenti la nuova immagine corporea e di inserimento sociale e familiare del soggetto.

5. Legislazione

In Italia le norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali del soggetto, sono state dettate dalla l. 164/1982. La relativa domanda deve essere proposta con ricorso al tribunale del luogo di residenza il quale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza.

Bibliografia

da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it