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Asino
Asino
L’asino è considerato generalmente simbolo di ignoranza e di stoltezza, al punto che, come accade ancora oggi, l’epiteto «asino» è impiegato come insulto (cfr., ad esempio, Cicerone, Contro Pisone 73). Importante anche sul piano religiososacrale, l’animale è in particolare connesso al culto del dio Dioniso (v.) come emblema di fertilità sessuale.
Nell’ambito del servizio che offre all’uomo, l’asino è tanto utile quanto poco considerato e già nell’Iliade (11,558 ss.) è presentata l’immagine, che poi si consolida, dell’animale preso a bastonate. La pazienza e la resistenza, d’altra parte, ne fanno un costante punto di riferimento in campo agricolo (come spiega, tra gli altri, Columella 7,1). La sua domesticazione pare risalire al III millennio a.C.; si discute sul fatto se sia indigeno della Grecia o se vi sia giunto dall’Africa in epoca neolitica (cfr. Pugliarello 1973, 135).
Nelle Metamorfosi di Apuleio, l’asino emerge quale simbolo di lussuria, come spesso accade nella letteratura classica (cfr. Senofonte, Anabasi 5,8,3), e la sua figura va letta in connessione con il culto di Iside: in questa ottica l’asino si identificherebbe con Seth, divinità demoniaca della morte e della distruzione. In ambito cristiano, oltre al tenace simbolismo legato all’ignoranza (cfr. Basilio di Cesarea, Omelie sull’Esamerone 9,3), emerge quello relativo all’umiltà e alla pazienza.
L’asino è uno degli animali più presenti nella tradizione favolistica, che ne rielabora in modo piuttosto articolato le caratteristiche assorbite dalla cultura antica; d’altra parte, le narrazioni risalgono a una fase in cui gli elementi religiosi sembrano in gran parte superati. Come nota Marchesi 1923, 59, «l’asino è un tipo variabile». Si segnala infatti per la vanagloria, quando chiede riscontro del suo presunto valore, ma viene riportato subito dal leone all’umile dimensione che gli appartiene (Esopo 208 Ch.; cfr. anche Fedro 1,11).
Appare, invece, piuttosto stolto quando cerca di imitare il cane (Esopo 275 Ch.) o la scimmia (Babrio 125) senza averne le caratteristiche: così la sua goffaggine lo porta a un’inevitabile punizione. Una sorte ingloriosa gli tocca anche
quando, carico di sale, cade in un fiume: il sale si scioglie e lui si rialza leggero; allora prova a comportarsi allo stesso modo quando si ritrova a trasportare spugne, ma l’esito è ovviamente opposto (Esopo 265 Ch.). Queste narrazioni si
basano su un semplice schema concettuale, per cui «tipico dello stolto è non cogliere le differenze da situazione a situazione, applicare meccanicamente il risultato di un’esperienza» (La Penna 1961, 500). L’animale diventa, quindi, provocatorio e volgare quando insulta il cinghiale, paragonando il proprio enorme membro al grugno dell’interlocutore, che preferisce trascurarlo, considerandolo un imbelle (Fedro 1,29); appare inoltre simbolo di ignoranza (anche se la favola sembra dirigere in altra direzione la morale) nella narrazione che lo vede accostarsi a un lira: lui non ha la capacità di usarla (Fedro, App. 12 [14]). Questa narrazione, che si ricollega all’idea pitagorica secondo cui l’asino non ha orecchio musicale e non sente il suono della lira (Eliano, De natura animalium 10,28), è riconducibile, come altre, a un proverbio (v. sotto), a testimonianza della forte caratterizzazione nell’immaginario collettivo della figura dell’asino. L’animale è considerato ignobile ed è disprezzato dalle altre bestie, al punto che il leone lo definisce «vergogna della natura» (Fedro 1,21,11). Del resto, il leone, re degli animali, rappresenta una figura che si pone agli antipodi dell’asino. Sulla base di questa opposizione tra il primo e l’ultimo del gruppo sociale degli animali, va certamente letta la favola di Esopo 267 Ch., che riprende lo schema narrativo, comune anche ad altre favole (v. SCIMMIA), del membro più umile della comunità che assume, attraverso un travestimento, le sembianze del capo, ma viene smascherato e torna alla sua iniziale situazione (v. LEONE per il parallelo con la tradizione del Pañcatantra).
Anche i cavalli (o i buoi nel mondo romano) sono animali considerati agli antipodi dell’asino, al punto da diventare proverbiale l’espressione «Passare dagli asini ai cavalli (buoi)» o viceversa (v. BUE), che si applica per lo più per esprimere un’ascesa sociale da una classe umile a una privilegiata (cfr. Esopo 142 Ch. e Babrio 76). Lo stesso cavallo sembra trattare con sufficienza il povero asino, negandogli ogni solidarietà e sostegno (Esopo 141 Ch.; Romulus 53; 82). La figura dell’animale oscilla dunque da una caratterizzazione comica (come in Esopo 274 Ch.) a una rappresentazione tragica: la sua rassegnazione si manifesta efficacemente in Fedro 1,15: che importa se cambia il padrone? Il carico rimarrà sempre lo stesso. Assenza di speranza ed esercizio di una sopportazione senza fine sono gli elementi di questa favola, che sembrano caratterizzare assai efficacemente il punto di vista delle classi subalterne dell’antichità (La Penna 1961, 19). Insomma, l’asino è sfruttato da vivo e può essere persino percosso e umiliato da morto quando, come nell’agghiacciante favola 236 Ch., finisce per diventare parte di un tamburo (v. SACERDOTE).
Occorre, dunque, accontentarsi: chi si lamenta, rischia di peggiorare la propria condizione, come accade all’asino della favola 273 Ch. di Esopo, che prega Zeus di cambiare la sua situazione, ma finisce dal giardiniere al ben più temibile conciapelli. L’impossibilità di un cambiamento della condizione di vita – prospettiva tipica della società esopica – si esprime bene anche nell’estremo appello degli asini alla divinità, presentato secondo il consueto motivo narrativo degli animali che inviano un’ambasceria agli dei. Ma Zeus risponde che le loro fatiche cesseranno solo quando, con l’orina, riusciranno a formare un fiume (Esopo 262 Ch.).
Anche il rapporto con l’uomo non è semplice: l’asinaio (v.) non esita a percuotere l’animale ed è sordo alle sue esigenze. Come accade anche per altri animali, sulla base di uno schema narrativo tipicamente esopico, la condizione dell’asino domestico viene paragonata a quella dell’asino selvatico: nonostante l’abbondanza di cibo, la condizione di schiavitù del primo sembra da compiangere (Esopo 264 Ch.), tuttavia garantisce, secondo una morale decisamente consolatoria, un riparo di fronte alle aggressioni delle bestie feroci che condannano inevitabilmente alla morte l’altro (Sintipa 30). Ritenuto inferiore anche al mulo (v.), raramente l’asino si prende qualche rivincita, come quando con un’astuzia riesce a sferrare il suo formidabile calcio sul malcapitato lupo (Esopo 281 Ch.).
Bibliografia
Stocchi C. Dizionario della favola antica, BUR, 2012