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Ateo
Ateo
In passato, chiunque possedesse un segreto in un'arte correva il rischio d'esser considerato uno stregone; ogn nuova setta era accusata di sgozzare i bambini nei suoi misteri; e qualsiasi filosofo non osservasse alla lettera il gergo
delle scuole era accusato d'ateismo dai fanatici e dai cialtroni e condannato dagli sciocchi.
Anassagora osa pretendere che a guidare il sole non è Apollo dall'alto di una quadriglia? Lo chiamano ateo, ed è costretto a fuggire.
Aristotele viene accusato d'ateismo da un sacerdote e, non potendo far condannare il suo accusatore, si ritira a Calcide. Ma la morte di Socrate è quanto la storia della Grecia ha di più odioso.
Aristofane (quell'uomo che i commentatori ammirano perché era greco, senza pensare che era greco anche Socrate), Aristofane fu il primo che abituò gli ateniesi a considerare Socrate un ateo.
Da noi questo poeta comico, che non è né comico né poeta, non sarebbe stato ammesso a rappresentar farse nemmeno alla fiera di Saint-Laurent; mi sembra molto più volgare e spregevole di quanto non lo dipinga Plutarco. Ecco ciò che il saggio Plutarco dice di questo buffone: «Il linguaggio di Aristofane è quello di un miserabile ciarlatano: tutto
battute oscene e ributtanti; non è nemmeno divertente per il volgo, ed è insopportabile per l'uomo di giudizio e d'onore; la sua arroganza è intollerabile, e la sua malignità detestata dalla gente perbene.»
Questo è dunque, sia detto di passata, il guitto che madame Dacier, ammiratrice di Socrate, non si vergogna di ammirare; è questo l'uomo che preparò di lontano il veleno con cui giudici infami fecero morire l'uomo più virtuoso della Grecia.
I conciapelli, i calzolai e le sarte di Atene applaudirono una farsa in cui si rappresentava Socrate che, sollevato in aria dentro un paniere, annunciava che non c'era nessun dio e si vantava d'aver rubato un mantello insegnando filosofia. Un popolo intero, il cui cattivo governo autorizzava licenze tanto infami, si meritava proprio quel che gli è
accaduto, di finire schiavo dei romani, e di esserlo oggi dei turchi.
Saltiamo tutto il tempo che intercorre tra la repubblica romana e noi. I romani, assai più saggi dei greci, non hanno mai perseguitato nessun filosofo per le sue idee. Non fu così presso i popoli barbari succeduti all'impero romano.
Non appena l'imperatore Federico II si mise a disputare con i papi, lo si accusò di essere ateo, e per di più autore, insieme al suo cancelliere Pier delle Vigne, del libro I tre impostori.
Il nostro gran cancelliere dell'Hospital si dichiara contro le persecuzioni, ed ecco che subito lo accusano di ateismo. «Homo doctus, sed verus atheos.» Un gesuita tanto al disotto di Aristofane quanto Aristofane è al disotto di Omero, un disgraziato il cui nome è diventato ridicolo persino tra i fanatici, in breve il gesuita Garasse, scopre ovunque
degli «ateisti»: così chiama tutti coloro contro i quali si scatena. Garasse chiama «ateista» Teodoro di Beza; è lui che ha indotto in errore la gente su Vanini.
La misera fine di Vanini non ci muove a sdegno e pietà come quella di Socrate, perché Vanini non era che un
pedante forestiero privo di meriti; ma non era affatto un ateo, come si è voluto far credere; anzi, era esattamente il contrario. Era un povero prete napoletano, predicatore e teologo di professione, portato a disputare all'eccesso sulle quiddità e sugli universali, «et utrum chimera bombinans in vacuo possit comedere secundas intentiones», ma nel quale non c'era nessuna tendenza all'ateismo. Il suo concetto di Dio si ispirava alla teologia più sana e accreditata: «Dio è principio e fine di se stesso, padre dell'una e dell'altra cosa, e niente affatto bisognoso né dell'una né dell'altra; eterno senza essere nel tempo, presente dappertutto, senza essere in nessun luogo. Non c'è per lui né passato né futuro; è dappertutto e fuori di tutto, tutto governa, tutto ha creato, immutabile e indivisibile; il suo potere è la sua volontà ecc.»
Vanini ambiva a rinnovare quella bella intuizione di Platone, accolta poi da Averroé, che Dio avrebbe creato una catena di esseri, dal più piccolo al più grande, il cui ultimo anello sarebbe congiunto al suo trono eterno; idea, in verità più sublime che vera, ma tanto lontana dall'ateismo quanto l'essere dal nulla.
Egli si mise a viaggiare per far fortuna e disputare; ma disgraziatamente il disputare è la via opposta a quella del fare fortuna; ci si fa tanti nemici mortali quanti sono i sapienti o i pedanti contro i quali si disputa. Ecco la fonte
delle disgrazie di Vanini: il suo ardore e la sua rudezza nel disputare gli attirarono l'odio di alcuni teologi; ed essendo venuto a lite con un certo Francon o Franconi, costui, amico dei suoi nemici, non mancò di accusarlo d'essere ateo e di insegnare l'ateismo.
Questo Francon o Franconi, con l'appoggio di qualche testimone, ebbe la barbarie di sostenere, in giudizio, l'accusa. Vanini, sul banco degli imputati, interrogato su quel che pensasse dell'esistenza di Dio, rispose che adorava, con la Chiesa, un Dio in tre persone. Raccolta da terra una pagliuzza, disse: «Basta questa festuca a provare che esiste
un creatore.» E pronunciò un bellissimo discorso sulla vegetazione e sul moto e sulla necessità di un Essere supremo,
senza il quale non ci sarebbe né moto né vegetazione.
Il presidente Grammont, che si trovava allora a Tolosa, riferisce questo discorso nella sua Storia di Francia, oggi così dimenticata; e questo stesso Grammont, per un preconcetto inconcepibile, osa dire che Vanini disse tutto ciò «per vanità o per paura, piuttosto che per intima convinzione».
Su che cosa si può fondare questo giudizio temerario e atroce del presidente Grammont? E evidente che, dopo la sua risposta, Vanini doveva venir assolto dall'accusa di ateismo. Ma che accadde, invece? Questo disgraziato prete straniero si occupava anche di medicina: si trovò un grosso rospo vivo, che conservava in casa sua in un vaso pieno
d'acqua; e così non si mancò di accusarlo di stregoneria. Si sostenne che quel rospo era il dio che adorava; si attribuì un
significato empio a molti passaggi dei suoi libri - la qual cosa è assai facile e comune - scambiando le obiezioni per affermazioni e interpretando malignamente qualche frase ambigua, avvelenando qualche espressione innocente. Infine, la fazione che lo perseguitava strappò ai giudici la sentenza che condannò l'infelice a morte.
Per giustificare questa morte bisognava accusare il disgraziato dei più orrendi crimini. Il minimo e minimissimo Mersenne spinse la demenza fino a far stampare che Vanini «era partito da Napoli con dodici dei suoi apostoli, per andare a convertire tutte le nazioni all'ateismo». Che miseria! E come avrebbe potuto avere, un povero prete, dodici persone alle sue dipendenze? Come avrebbe potuto convincere dodici napoletani a viaggiare insieme a lui con grande spesa per recarsi a diffondere dappertutto quell'abominevole e rivoltante dottrina, a rischio della vita? Un re
sarebbe abbastanza potente da pagare dodici predicatori d'ateismo? Nessuno, prima del padre Mersenne, aveva mai detto una simile assurdità. Ma, dopo di lui, la si è ripetuta, se ne appestarono i giornali, i dizionari storici; e la gente, che ama le cose incredibili, ha creduto ad occhi chiusi a questa favola.
Lo stesso Bayle, nelle sue Oeuvres diverses, parla di Vanini come di un ateo: si serve di questo esempio per
sostenere il suo paradosso «che una società d'atei può sussistere».
Egli assicura che Vanini era un uomo di ottimi costumi, e che fu il martire della propria opinione filosofica. Ma si inganna su entrambi i punti; il prete Vanini ci
confessa nei suoi Dialoghi, fatti a imitazione di Erasmo, di aver avuto un'amante di nome Isabella. Egli era libero nella sua condotta, come nei suoi scritti, ma non era ateo.
Un secolo dopo la sua morte, il dotto La Croze e colui che prese il nome di Filalete, tentarono di giustificarlo; ma siccome nessuno si interessa della memoria di un disgraziato napoletano, pessimo scrittore, quasi nessuno ha letto quelle apologie.
Il gesuita Hardouin, più dotto di Garasse, e non meno temerario, accusa di ateismo, nel suo libro Athei detecti, uomini come Descartes, Arnauld, Pascal, Nicole, Malebranche: fortunatamente, costoro non subirono la stessa sorte di Vanini.
Passo al problema morale agitato da Bayle, e cioè se una società d'atei possa sussistere. Notiamo prima di tutto, a questo punto, in quali enormi contraddizioni gli uomini possano incorrere disputando in proposito: coloro che sono insorti con maggiore veemenza contro l'opinione di Bayle, che hanno negato con le più aspre ingiurie la possibilità di una società d'atei, hanno poi sostenuto con altrettanta decisione che l'ateismo è la religio ne di governo in Cina.
Certo han preso un bell'abbaglio riguardo al governo cinese; bastava che leggessero gli editti degli imperatori di questo immenso paese, e avrebbero visto che quegli editti sono dei sermoni, e che dovunque si parla dell'Essere supremo, governatore, vendicatore e remuneratore.
Ma al tempo stesso non si sono meno ingannati sull'impossibilità di una società di atei, e non so come Bayle abbia potuto non ricordarsi di un esempio sbalorditivo che avrebbe potuto rendere vittoriosa la sua causa.
Per quale motivo sembra impossibile una società di atei? Perché si reputa impossibile che uomini che non abbiano freni non potrebbero mai vivere insieme; che niente possono le leggi contro i delitti segreti; che è
indispensabile un Dio vendicatore che punisca in questo o nell'altro mondo i malvagi sfuggiti alla giustizia umana.
È vero che le leggi di Mosè non parlavano affatto di una vita futura, non minacciavano pene dopo la morte, non insegnavano ai primi ebrei l'immortalità dell'anima; però gli ebrei, lungi dall'essere atei, lungi dal credere di potersi sottrarre alla vendetta divina, erano gli uomini più religiosi della terra. Non solo credevano all'esistenza di un Dio eterno ma lo credevano sempre presente tra loro; tremavano d'essere puniti in loro stessi, nelle loro mogli, nei loro figli, nei loro discendenti, fino alla quarta generazione, e questo freno era potentissimo.
Ma presso i gentili molte sette non avevano alcun freno; gli scettici dubitavano di tutto; gli accademici sospendevano il giudizio su tutto; gli epicurei erano persuasi che la divinità non potesse immischiarsi nelle faccende
degli uomini e, in fondo, non ammettevano alcuna divinità. Erano convinti che l'anima non è una sostanza ma una facoltà che nasce e muore con il corpo: di conseguenza, non avevano altro giogo che quello della morale e dell'onore. I senatori e i cavalieri romani erano autentici atei, perché gli dei non esistevano per uomini che non temevano né speravano niente da loro. Il senato romano era dunque realmente un'assemblea di atei al tempo di Cesare e di Cicerone.
Questo grande oratore, nella sua arringa in difesa di Cluenzio, dice a tutto il senato riunito:
«Che male gli fa la
morte? Noi respingiamo tutte le assurde favole sugli Inferi. Che cosa dunque gli ha tolto la morte? Nient'altro che il sentimento dei dolori.»
E Cesare, l'amico di Catilina, volendo salvare contro lo stesso Cicerone la vita del suo amico, non gli obietta che far morire un criminale non è punirlo, che la morte non è niente, è soltanto la fine dei nostri mali, è un momento più felice che fatale? E Cicerone e tutto il senato non si arrendono forse a queste ragioni? I vincitori e i legislatori
dell'universo conosciuto formavano dunque, in modo evidente, una società d'uomini che non temevano ni ente dagli dei, che erano degli autentici atei.
Bayle esamina poi se l'idolatria sia più pericolosa dell'ateismo; se sia un delitto più grande non credere alla divinità che avere su di essa opinioni indegne: in questo è dello stesso parere di Plutarco: cr ede che sia meglio non avere nessuna opinione piuttosto che una cattiva opinione; ma, non dispiaccia a Plutarco, è evidente che era infinitamente
meglio per i greci temere Cerere, Nettuno e Giove che non temere niente del tutto. È chiaro che la santità dei giuramenti
è necessaria, e che bisogna fidarsi maggiormente di chi pensa che un giuramento falso sarà punito, che non di chi pensa di poter fare, impunito, un falso giuramento. È indubitabile che, in una società civile, è infinitamente più utile avere una religione (anche cattiva) che non averne nessuna.
Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare se sia più pericoloso il fanatismo o l'ateismo. Il fanatismo è indubbiamente mille volte più funesto, perché l'ateismo non ispira passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l'ateismo non si oppone al crimini, ma il fanatismo porta a commetterli. Supponiamo, con l'autore del
Commentarium rerum Gallicarum, che il cancelliere dell'Hospital non fece altro che leggi sagge, non consigliò altro che
la moderazione e la concordia; i fanatici commisero le stragi della notte di San Bartolomeo. Hobbes passò per ateo:
condusse una vita tranquilla e morigerata; i fanatici del suo tempo inondarono di sangue l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Spinoza non solo era ateo, ma insegnò l'ateismo; non fu certamente lui a prender parte all'assassinio giuridico di Barneveldt; non fu lui a fare a pezzi i due fratelli De Witt e a mangiarseli arrosto.
Gli atei sono per lo più studiosi arditi e fuorviati che ragionano male e che, non riuscendo a comprendere la
creazione, l'origine del male, e altre difficoltà, ricorrono all'ipotesi dell'eternità delle cose e della necessità.
Gli ambiziosi, i viziosi, non hanno tempo di ragionare e di abbracciare un cattivo sistema: hanno altro da pensare che far confronti tra Lucrezio e Socrate. Così vanno le cose tra noi.
Non andavano così nel senato di Roma, quasi tutto composto di atei per teoria e pratica, ossia di gente che non credeva né alla provvidenza, né alla vita futura: quel senato era un'assemblea di filosofi, di dissoluti e di ambiziosi, tutti pericolosissimi, che portarono allo sfacelo la repubblica. L'epicureismo continuò a sussistere sotto l'impero: gli atei del senato erano stati dei faziosi, ai tempi di Silla e di Cesare; sotto Augusto e Tiberio, furono degli atei schiavi.
Io non vorrei avere a che fare con un principe ateo che avesse il suo interesse a farmi pestare in un mortaio: sono sicurissimo che sarei pestato. Non vorrei, se fossi un sovrano, avere a che fare con dei cortigiani atei, che avessero interesse ad avvelenarmi: mi sentirei costretto a prendere del contravveleno tutti i giorni. È dunque assolutamente
necessario, per i principi e per i popoli, che l'idea di un Essere supremo, creatore, reggitore, remuneratore e vendicatore,
sia profondamente radicata negli animi.
Ci sono dei popoli atei, dice Bayle nelle sue Pensées sur les comètes. I cafri, gli ottentotti, i tupinamba e molti altri piccoli popoli non hanno nessun dio; questo può essere; non ne negano né ne affermano l'esistenza; è che non ne hanno mai sentito parlare. Dite loro che ce n'è uno, lo crederanno facilmente; dite loro che tutto accade in virtù della
natura delle cose, vi crederanno ugualmente. Dire che sono atei è come accusarli d'essere anticartesiani; non sono né pro
né contro Descartes. Sono dei veri bambini; un bambino non è né ateo ne deista: non è niente.
Che conclusione trarremo da tutto questo? Che l'ateismo è un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle persone colte, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro scrittoio essi possono arrivare fino a coloro che vivono in piazza; che, se non è funesto quanto il fanatismo, è però quasi sempre fatale alla virtù.
Aggiungiamo soprattutto che oggi ci sono meno atei di quanti ce ne siano mai stati, da quando i filosofi hanno riconosciuto che non c'è alcun essere vegetale senza un germe, nessun germe senza uno scopo, e che il grano non nasce dalla putredine.
Alcuni geometri non filosofi hanno respinto le cause finali, ma i veri filosofi le ammettono; e come ha detto un noto scrittore, un catechista annuncia Dio ai pargoli, e Newton lo dimostra ai saggi.
II
Ma se vi sono degli atei, con chi prendersela se non con quei tiranni mercenari delle anime, che, costringendoci a ribellarci contro le loro nefandezze, forzano gli spiriti deboli a negare il Dio che quei mostri disonorano? Quante volte le sanguisughe di un popolo hanno portato i cittadini oppressi a rivoltarsi contro il loro re?
Certi uomini, ingrassati con i nostri averi, ci gridano:
«Mettetevi in testa che un'asina ha parlato; credete che un pesce ha inghiottito un uomo e lo ha vomitato, tre giorni dopo, sano e gagliardo, sulla riva; non dubitate che il Dio dell'universo abbia ordinato a un profeta ebreo di mangiare della merda (Ezechiele) e a un altro profeta di comperare due puttane e di far con loro dei figli di puttana (Osea) (sono le precise parole che vengon fatte pronunziare dal Dio di verità e di purezza); credete a cento cose evidentemente abominevoli o matematicamente impossibili: altrimenti, il Dio di misericordia vi brucerà non solo per milioni di miliardi di secoli nel fuoco infernale, ma per tutta l'eternità, sia che
abbiate un corpo, sia che non l'abbiate.»
Queste inconcepibili idiozie rivoltano tanto le menti deboli e temerarie, quanto gli spiriti fermi e saggi. Essi dicono: «I nostri maestri ci dipingono Dio come il più insensato e il più barbaro di tutti gli esseri; dunque, Dio non esiste!» Mentre dovrebbero dire:
«Questi nostri maestri attribuiscono a Dio le loro assurdità e i loro furori; dunque, Dio è il contrario di quello che essi annunciano, dunque Dio è tanto saggio e buono quanto costoro lo dicono pazzo e malvagio.»
Così parlano i saggi. Ma se un fanatico li ode, li denuncia al braccio secolare, e questo li fa bruciare a fuoco lento, credendo così di vendicare e imitare la maestà divina ch'egli oltraggia.
Bibliografia
Voltaire, F.-M. Dizionario filosofico