Balbuzie
La balbuzie, detta anche disfemia o disartria funzionale, è un'alterazione del flusso verbale che si manifesta in forma di blocchi o di ripetizioni di sillabe, causati da spasmi intermittenti dell'apparato fonoarticolatorio. Ne risulta una loquela periodicamente esitante, interrotta, tronca e abbondante di ripetizioni. La sede dell'inceppamento può essere la faringe, la glottide, la lingua o le labbra, per cui si parla di balbuzie gutturale, linguale e labiale; si distinguono anche una balbuzie fonatoria e una balbuzie respiratoria. La balbuzie può presentare vari gradi di intensità: dalla semplice titubanza e dalla ripetizione spasmodica di sillabe (tartagliamento), all'inceppamento e all'arresto della parola (impuntamento); nelle forme più gravi la balbuzie è accompagnata da movimenti associati (sincinesie) e da tic. Tale disturbo è stato analizzato sulla base di teorie genetiche, neurologiche, foniatriche e psicogenetiche. Sul piano terapeutico, la precocità dell'intervento diagnostico può migliorare l'efficacia del trattamento.
Da un punto di vista descrittivo, si può distinguere una forma tonica di balbuzie, caratterizzata da blocchi improvvisi e parossistici, e una forma clonica, consistente in ripetizioni, più o meno convulse, di una stessa sillaba all'inizio o all'interno della parola. La difficoltà articolatoria è spesso accompagnata da sincinesie più o meno diffuse in tutto il corpo, ma prevalenti in ambito facciale. I gradi di intensità del disturbo variano notevolmente nei diversi soggetti e anche nello stesso soggetto in situazioni diverse, e sono altresì frequenti periodi di remissione totale del sintomo. L'incidenza della balbuzie è maggiore nel sesso maschile rispetto a quello femminile, con un rapporto di 4 a 1. Per quanto riguarda il periodo di insorgenza, le età più significative sono considerate quelle dei 3 anni (momento di massima espansione linguistica) e dei 6 anni (prime richieste sociali in rapporto alla scolarizzazione); sono rare le insorgenze dopo i 12 anni. Il significato di prestazione sociale cui il linguaggio assolve sembra avvalorato da alcuni studi epidemiologici, che hanno sottolineato una maggiore incidenza della balbuzie nelle grandi città rispetto ai piccoli centri, o che hanno evidenziato un rapporto diverso nella distribuzione tra i sessi in quei contesti sociali dove sono richieste prestazioni linguistiche di alto livello anche alle donne (in questo caso la frequenza del disturbo diventa quasi pari nei due sessi).L'eziologia della balbuzie è stata sempre molto controversa e si sono contrapposte teorie neurologiche, foniatriche e psicologiche. Alcuni autori hanno sostenuto un'origine ereditaria e tale ipotesi ha trovato ampio credito nell'opinione popolare. La presenza di soggetti balbuzienti all'interno dello stesso nucleo familiare, che dovrebbe suffragare l'ipotesi dell'ereditarietà, non costituisce, tuttavia, una validazione dell'ipotesi genetica, potendosi giustificare sul piano psicologico o su quello sociologico.Le teorie neurologiche più accreditate sono quelle di I.W. Karlin (1950) e di S.T. Orton (1937). Karlin sottolinea come causa della balbuzie un ritardo nel processo di mielinizzazione, cioè nella formazione della mielina, sostanza che contorna come strato isolante le fibre del sistema nervoso, consentendo un aumento notevole dell'intensità di trasmissione degli impulsi nervosi. La mielinizzazione si verifica prima nelle bambine e ciò spiegherebbe la maggior percentuale di maschi tra i soggetti balbuzienti. L'altra teoria, quella di Orton, mette in relazione la balbuzie con una non adeguata dominanza emisferica.
Le teorie foniatriche hanno posto di volta in volta l'accento su difficoltà respiratorie, articolatorie o sull'alterazione del feedback uditivo. E. Pichon e S. Borel-Maisonny (1976) hanno elaborato, invece, la teoria dell'insufficienza 'linguo-speculativa', per la quale la balbuzie sarebbe il risultato di un deficit del linguaggio interno, che si manifesta nella difficoltà a trasporre in parole le immagini mentali. Secondo questa teoria il balbuziente ripete una parola perché il persistere dell'immagine sensoriale ostacola l'espressione del pensiero linguo-speculativo, che procede per rappresentazioni mentali.Tra le teorie psicogenetiche ricordiamo la teoria di J.G. Sheehan (1958), la teoria di O. Bloodstein (1958) e la teoria psicoanalitica. Sheehan, il cui intento è soprattutto quello di spiegare la modalità di manifestazione del disturbo, ritiene che nel balbuziente si crei un conflitto tra parlare e tacere. Quando le due tendenze di avvicinamento e allontanamento rispetto al linguaggio raggiungono il massimo contrasto, e cioè poco prima di parlare, si determina il blocco. La teoria di Bloodstein, o della reazione anticipatoria dello sforzo, mette in evidenza due fattori: una particolare difficoltà a parlare un linguaggio fluente da parte del bambino e una reazione specifica dell'ambiente a questa non-fluenza. Il bambino si convince di essere un cattivo parlatore perché non risponde alle aspettative dell'ambiente e ciò dà il via alla sua particolare reazione tutte le volte che deve parlare. Per quanto riguarda la teoria psicoanalitica, si deve a P. Glauber (1958) il tentativo di chiarire il significato che la balbuzie può assumere come sintomo di una conversione nevrotica, in relazione allo sviluppo non adeguato della libido. Si tratterebbe, quindi, di una nevrosi da includere nel gruppo delle conversioni pregenitali. Nonostante la rilevanza che le teorie foniatriche e neurologiche hanno avuto in passato, attualmente le ipotesi più accreditate sono quelle psicogenetiche che, pur da varie prospettive, considerano la balbuzie quale manifestazione di un disagio emotivo. Le incidenze cliniche che suffragano tale ipotesi sono la discontinuità del disturbo, che smentisce la sua origine neurologica, e il fatto che nessun balbuziente presenta difficoltà nella fluenza durante il canto e la recitazione. Al riguardo, un altro dato rilevante è costituito dalla riduzione o remissione spontanea del disturbo che, in una buona percentuale di casi, si verifica intorno ai 10 o tra i 18 e i 20 anni. Esistono, dunque, situazioni ansiogene che scatenano il sintomo, come quelle in cui si è esposti a un giudizio, e situazioni che ne determinano la temporanea remissione, come quelle in cui si impersona un ruolo diverso dal proprio. Inoltre, il sintomo è stato spesso osservato in strutture familiari rigidamente gerarchiche, dove la conflittualità si manifesta con forte tensione emotiva.
Alcuni autori hanno parlato di madre 'balbuziogenica' e di padre 'assente', mettendo in evidenza, da una parte, la necessità di una terapia psicologica sul bambino che prenda in considerazione l'aspetto relazionale sotteso dal sintomo, e, dall'altra, la necessità di un intervento di sostegno alla coppia genitoriale. Studi condotti sulla personalità del balbuziente evidenziano alcune caratteristiche comuni: tendenza al perfezionismo, spiccata autocritica, accentuata permalosità. Contrariamente alla diffusa opinione popolare, secondo la quale la crescita risolverebbe il problema, quanto più l'intervento è precoce, tanto più favorevole è la prognosi. Un trattamento di tipo logopedico, basato sul ritmo, sull'articolazione, sulla respirazione o sul rilassamento, può favorire una capacità di controllo del flusso verbale, con conseguente diminuzione del disturbo. Tale intervento, tuttavia, solo raramente risolve il problema in modo definitivo.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it