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Cacciatore
Cacciatore
La caccia affonda le sue origini nel mito: il centauro
Chirone la apprende da Artemide (Diana a Roma, casta dea
della caccia) e Apollo (Mercurio), insegnandola poi, tra gli
altri, anche a Eracle. In Omero troviamo diverse modalità di
caccia: da quella al cinghiale, effettuata con i cani, a quella
agli uccelli (Odissea 19,428 ss.; 12,330 ss.). Se in origine la
caccia e la raccolta sono le più diffuse forme di sussistenza,
questa pratica diventa progressivamente un elemento
complementare alle attività agricolo-pastorali. Tra gli altri,
Senofonte osserva questa utile complementarietà
(Economico 5,5). Ma, come testimonia lo stesso Senofonte in
un’opera dedicata alla caccia (Cinegetico), l’arte venatoria è
uno strumento molto utile nell’educazione dei cittadini
(questo vale in particolare per l’aristocrazia e si verifica
anche presso altri popoli: nella Ciropedia il re dei Persiani
Ciro comincia a dimostrare, da giovane, il suo coraggio
proprio nella caccia). Platone critica la caccia dei volatili e
tecniche come l’uso delle reti e delle trappole, mentre elogia
la caccia a cavallo e con i cani: il cacciatore non deve mirare
al guadagno (Leggi 823b). Aristotele conferma una
valutazione positiva della caccia, tra le attività naturali,
come l’agricoltura e la pastorizia (Politica 1258). Presso i
Romani, la caccia si afferma come pratica sportiva, utile al
corpo e allo spirito: Cicerone, che distingue la caccia
dall’uccellagione, la considera un possibile svago anche nella
vecchiaia (De senectute 16,56). Non mancano tuttavia
valutazioni di segno diverso, che ridimensionano la dignità
della caccia (è mansione da schiavi per Sallustio, La
congiura di Catilina 4,1).
La caccia, nel mondo esopico, «non è l’unico mezzo di
sostentamento, bensì un’attività collaterale rispetto
all’agricoltura e alla pastorizia» e sembra avere insomma «la
funzione di sport, come oggi» (Pugliarello 1973, 147). La
figura del cacciatore, sia di uccelli sia di animali di terra, è
spesso presente e può trovarsi accostata a figure affini, come
quella del pescatore (Babrio 61). L’uomo pare avere a
disposizione diversi strumenti di caccia, come l’arco (v.
ARCIERE), le reti (cfr. Esopo 284 Ch.), il vischio e le canne
(Esopo 137 Ch.); può anche prendere al laccio gli uccelli
(Esopo 169 Ch.). Al fianco del cacciatore troviamo alcuni
animali, che possono essere usati nella funzione di esche,
come le colombe domestiche e le pernici. Ma è soprattutto
importante la collaborazione dei cavalli (Esopo 328 Ch.) e
dei cani, che aiutano l’uomo a catturare la preda (Fedro
5,10). Nell’uso e nella trattatistica antica esiste una precisa
classificazione dei cani, sulla base del loro impiego (i
venatici, ossia quelli destinati alla caccia, sono allevati
diversamente da quelli dei pastori o da quelli da guardia
impiegati nelle fattorie). Quanto alle prede, oltre ovviamente
alla lepre, al cervo, al cinghiale e a numerosi tipi di volatili
(tordi, pernici, gru, cicogne, allodole), si segnala anche la
caccia al leone, che sembrerebbe rimandare a un’epoca
anteriore, caratterizzata da un’economia venatoria: in realtà
è coesistente all’attività agricola. A questo proposito, nella
tradizione favolistica troviamo due comportamenti antitetici:
l’uomo pauroso finge di cacciare il leone, quando in realtà ne
ha una enorme paura (Esopo 93 Ch.); l’arciere infallibile
incute in tutti gli animali un senso di timore, eccetto che nel
leone; la belva tuttavia deve soccombere. Una volta
catturato, il re degli animali può essere umiliato e finire
legato a un albero con una fune, come una sorta di trofeo
(cfr. Esopo 206 Ch.). Lo stesso leone, oltre che vittima, è
naturalmente il principale attore della caccia che si realizza
nel microcosmo degli animali, spesso in associazione con
bestie meno nobili (cfr. Esopo 208 Ch.).
Bibliografia
Stocchi C. Dizionario della favola antica, BUR, 2012