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Teoria e terapia del cambiamento




Che cosa induca una persona a cambiare le sue relazioni, il modo in cui vive e si pone di fronte alla realtà esterna, e perché una persona cambi, sono gli interrogativi con cui ciascuno, nel corso della propria vita, prima o poi si confronta. Ma soprattutto coloro che, per la loro professione, sono costantemente impegnati nel tentativo di modificare gli altri, di aiutarli a cambiare, hanno bisogno di trovare una risposta a queste domande. Per cercare di definire il problema che ci interessa occorre prendere in considerazione alcuni punti.

Il c. implica il passaggio da uno stato di funzionamento mentale a un altro e la mente è un'entità complessa basata su una rete di relazioni tra strutture di diversa natura (anatomiche e cognitive) mediate, nel loro funzionamento e nei loro rapporti, da processi biochimici, cognitivi e affettivi (Dennett 1991; Edelman 1992; Damasio 1994). Il c., a livello psicologico e comportamentale, va quindi inteso come una modificazione delle relazioni esistenti tra le parti che concorrono a formare questa entità e che contribuiscono a determinare il Sé dell'individuo (Guidano 1987; Liotti 1994), il suo senso di identità. Quando si parla di mente, nella concezione attuale, non parliamo di una realtà che risiede esclusivamente all'interno dell'individuo e che, quindi, risente solo di processi interiori, ma di un'entità che può esistere solo nella misura in cui l'individuo è visto in relazione con la sua realtà esterna (Liotti 1994). In questa prospettiva, non ha senso parlare di un individuo indipendente dal suo mondo esterno: in tutti gli esperimenti che hanno tentato di isolare il primo dal secondo (attraverso l'annullamento degli stimoli), il soggetto ha cominciato ad avere allucinazioni su ciò che non poteva più percepire. Ciò indica che la sensazione di esistere, il sentimento di vitalità e di coscienza, è subordinato alla continua presenza di un'attività percettiva che elabora le sensazioni provenienti dall'interno e dall'esterno dell'organismo ed è condizionata dalla qualità degli stimoli.

Teoria cognitivo-comportamentale del cambiamento

Poste queste premesse, ne deriva che in ogni caso, anche quando parliamo di un singolo individuo, ci troviamo di fronte a un sistema di elementi (di cui l'individuo è solo una delle parti) collegati tra loro da relazioni specifiche in una rete di possibili interazioni; è sufficiente che si verifichi un c. nei rapporti esistenti tra un numero più o meno grande di questi elementi, perché si abbia un c. nel sistema considerato, di entità maggiore o minore a seconda dell'importanza da essi rivestita e/o dell'importanza delle loro relazioni all'interno del sistema stesso. Vi è, quindi, un rapporto tra la funzione della/e relazione/i modificata/e nell'assetto complessivo del sistema e il risultato finale. Vi è, inoltre, la possibilità che la modificazione di un solo elemento abbia effetti macroscopici o, viceversa, che la trasformazione di più elementi abbia un risultato scarsamente percepibile. L'esito non è prevedibile sulla base di una semplice conoscenza degli elementi in gioco, perché dipenderà dalle interazioni che si svilupperanno a partire dalle condizioni iniziali, soggette a loro volta all'influenza di circostanze e di fattori incontrollabili, soprattutto nel corso del processo.

La verifica e l'elaborazione del flusso dei dati di esperienza vengono a collocarsi, in una concezione gerarchica delle strutture e delle funzioni della mente, a livello della coscienza e dei processi cognitivi superiori attraverso i quali quest'ultima si manifesta. A essi viene deputato il compito di attribuire un 'significato' a ciò che sta accadendo, di riconoscere, cioè, il luogo, la classe in cui collocare gli eventi che si susseguono nella vita quotidiana, nel proprio mondo di riferimento. Ogni persona elabora nel tempo una propria 'struttura cognitiva' e qualsiasi espressione psichica, anche quelle identificabili con le cosiddette manifestazioni sintomatiche di un disturbo psicologico, è riconducibile a uno specifico assetto cognitivo.

Il problema del c. si pone, quindi, inevitabilmente come problema di trasformazione della struttura cognitiva, più o meno ampia, più o meno profonda, ma comunque tale da produrre una modificazione psicologica o comportamentale nella persona. Non è detto che tale modificazione sia esteriormente percepibile, perché, come si comprende facilmente, il suo effetto non si traduce costantemente in un cambiamento macroscopico dell'atteggiamento o del comportamento della persona. E non è neanche scontato che si abbia una percezione soggettiva del c. interno: le modificazioni possono non superare la soglia di coscienza, pur producendo una serie di effetti all'interno del soggetto, dei quali questi può prendere coscienza solo successivamente, quando si sarà verificato un loro accumulo o una loro stabilizzazione nel tempo. Frequentemente, la persona non si rende subito conto di quanto sta accadendo e, anzi, riferisce un senso di confusione, corrispondente al venir meno dei parametri abituali. Ciò evidenzia come la dimensione tempo e il parametro movimento abbiano una loro importanza, in quanto è difficile percepire un processo di c.; quantomeno è difficile definire che cosa stia accadendo, perché ogni definizione equivale al 'congelamento', alla cristallizzazione del movimento. È più facile invece, a processo concluso, rendersi conto delle differenze esistenti tra l'attuale modo di percepire e quello precedente.

Alcune volte la trasformazione degli elementi che concorrono a determinare il significato di una specifica situazione è talmente rapida e globale, come si verifica in occasione di un evento fortemente traumatico, che si ha un repentino c. dei significati che sono alla base delle matrici percettive: per es., la morte di una persona alla quale siamo particolarmente legati può improvvisamente cambiare la nostra visione di noi stessi, della vita e del mondo.

Quest'ultimo esempio evidenzia come alla base della creazione dei significati non esistano semplicemente delle operazioni di carattere logico, come quelle che, nel corso dello sviluppo, ci portano al riconoscimento di un oggetto attraverso l'integrazione di una serie di caratteristiche che lo contraddistinguono. Gli studi sul linguaggio e sulla semiotica (Eco 1975) hanno evidenziato la relazione esistente tra aspetti denotativi e connotativi del linguaggio usato in riferimento a un oggetto, a una persona o a un evento: le proprietà 'evidenziabili' dell'elemento nominato (riferibili agli aspetti denotativi) sono inestricabilmente collegate a quelle dipendenti dal contesto e dalle relazioni in cui esso viene esperito (riferibili agli aspetti connotativi). Ciò indica l'importanza delle componenti affettive nell'attribuzione dei significati (Damasio 1994). Non esiste in pratica alcun significato che sia del tutto esente da valenze affettive e, corrispondentemente, le relazioni, gli oggetti, le circostanze, le persone acquistano per ciascuno una collocazione particolare nel sistema cognitivo personale soprattutto per il valore affettivo di cui sono portatori e che viene loro attribuito. Questo si vede molto bene nei disturbi deliranti, dove solo apparentemente il problema sembra consistere in un errore logico: un esame più approfondito rivela invece come l'errata interpretazione di quanto accade sia conseguente a una valenza affettiva particolarmente intensa che condiziona l'intero ragionamento, falsando il significato attribuito agli eventi, agli oggetti o alle persone. Ciò spiega perché sia illusorio pensare di correggere il ragionamento sbagliato dei pazienti deliranti cercando di spingerli a un esame di realtà secondo dei parametri logici. Il motore primario del c. di significato sta nell'investimento affettivo che viene effettuato dal soggetto su singoli elementi cognitivi, che acquistano un valore particolare rispetto ad altri e condizionano l'organizzazione cognitiva globale.

Tenendo presenti tali premesse, si comprende come alla base di un c. dell'individuo vi sia una trasformazione del suo rapporto con la realtà esterna e interna, conseguente in gran parte a una trasformazione dei valori attribuiti agli elementi costitutivi delle realtà in questione. Essi sono portatori di valenze di carattere affettivo. La persona cerca prima di tutto di far corrispondere i significati e i rapporti percepiti o intuiti all'emozione sottostante ed è portata istintivamente a comportarsi come se non vi potessero essere dei significati alternativi. Si comprende come ciò abbia un'importanza fondamentale nella creazione di un mondo personale costituito principalmente di relazioni con persone e oggetti. Gli aspetti cognitivi di una relazione evolvono sulla base del sentimento di fondo che la caratterizza, influenzato profondamente dalla qualità del rapporto (di fiducia o di sfiducia). Questo evidenzia come, in una relazione terapeutica, il c. sia strettamente condizionato dal rapporto (di fiducia o di sfiducia) che si instaura tra paziente e terapista. È solo l'attribuzione di un valore di 'bontà' o di 'lealtà' a tale rapporto che permetterà l'accettazione dei significati che verranno proposti nel corso del processo terapeutico. Il c. sarà tanto più accentuato, quanto più cambieranno i valori che sottendono l'attribuzione di significati alle singole relazioni. Parallelamente, le manifestazioni di carattere emotivo che accompagnano l'interazione terapeutica, rilevabili sia da parte del paziente che da parte del terapeuta, diventeranno gli 'indicatori' dei punti nodali di particolare rilievo sui quali intervenire, nel mondo dei significati rappresentati.

Teorie sistemiche del cambiamento

Il proverbio francese secondo cui più si cambiano le cose, più esse restano come sono, definisce in modo conciso il rapporto paradossale e sconcertante tra persistenza e c.: questo rapporto ha costituito un fondamento delle teorie sistemiche e una vera sfida terapeutica, lanciata dal paziente ogniqualvolta arriva in terapia con una richiesta di c. all'interno di un bisogno di natura opposta, quello di mantenere le cose così come sono.

Mentre nel campo medico sembrerebbe assurda una duplicità tra persistenza della malattia e guarigione, nell'area dei conflitti psicologici e delle vicende umane tale concezione appare assolutamente congrua e compatibile. Per es., ogni volta che osserviamo una persona, una famiglia o un sistema sociale più grande intrappolati in una problematica che si mantiene e si ripete malgrado il desiderio e lo sforzo di modificare la situazione, ci si deve chiedere in uguale misura come mai persista questa situazione indesiderabile e che cosa si debba dunque fare per cambiarla.

Nello sviluppo dell'approccio sistemico la teoria del c. ha subito una notevole evoluzione ed è sempre stata condizionata da due posizioni contrastanti, animate da due diverse modalità di affrontare il tema della soggettività e della soluzione dei problemi. Da una parte, abbiamo la prospettiva sistemico-cibernetica introdotta dal gruppo di Palo Alto alla fine degli anni Sessanta (Watzlawick, Helmick Beavin, Jackson 1967), che sostiene la necessità di circoscrivere l'attenzione esclusivamente al comportamento interattivo, così come esso si manifesta nell'hic et nunc, vale a dire a quelli che sono gli aspetti osservabili della comunicazione. L'"approccio pragmatico", così come definito da Watzlawick, Weakland, Fisch (1974) e la stessa elaborazione iniziale della scuola di Milano, così com'è stata codificata in Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin et al. 1975), in ossequio al principio behavioristico che tratta la mente come una 'scatola nera', ritengono che i processi mentali, nella loro globalità, rientrino nel regno dell'indecidibile e quindi non debbano essere oggetto di interesse scientifico; partendo da tali premesse, escludono dal proprio campo di indagine non soltanto la sfera emotiva, ma anche quella cognitiva, e si limitano a prendere in considerazione unicamente la dimensione del presente. Secondo tali teorie il terapeuta è visto come totalmente esterno al problema presentato, al quale deve essere soltanto capace di trovare una soluzione. Haley (1969) è il rappresentante paradigmatico di questo orientamento. Lavora nel 'qui e ora' con strategie prescrittive rivolte al c. comportamentale, con una visione deterministica della famiglia. Partiamo da una delle sue affermazioni: "Noi abbiamo a che fare con famiglie in cui c'è un bambino che non vuole andare a scuola. Ma una volta che i genitori si mettono d'accordo, allora vedrete che lui ci andrà". Con tutto il rispetto dovuto al raggiungimento di quest'obiettivo, è difficile pensare che dei bambini disturbati cambino semplicemente perché vedono i loro genitori accordarsi su delle soluzioni. I problemi relazionali non possono essere risolti esclusivamente con l'autorità e il potere. Anche se questo modello, che con Di Nicola (1990) potremmo chiamare tecnocratico, potesse giovarsi dell'attenzione che via via viene posta sul mondo dei significati, è fuor di dubbio che tale impostazione teorica rende il terapeuta meno interessato all'individuo in sé e al suo mondo relazionale di quanto non lo sia alla famiglia come sistema di funzioni, adeguate o inadeguate.

Possiamo invece definire 'fenomenologico' un secondo tipo di approccio terapeutico, caratterizzato dalla ricerca costante di senso: il terapeuta di impostazione fenomenologica ha di fronte a sé, per tutto il tempo, l'esperienza di sofferenza della famiglia e il modo in cui ciascuno affronta quest'esperienza. Il suo interesse è rivolto alla comprensione dell'essenza stessa della famiglia, e non solo alle sue funzioni e disfunzioni.

Se nell'orientamento tecnocratico il c. è descritto più in termini riparativi, come modificazione di uno status quo indesiderato, pieno di valenze negative, in questa seconda impostazione viene ridato valore alla storia dello sviluppo individuale, così da comprendere i processi di persistenza/c., anziché bollare come 'resistenti' quei pazienti o quelle famiglie che non vogliono cambiare nei modi e nei tempi prescritti o previsti dal terapeuta: si è, cioè, compreso che, per entrare in contatto con un sistema emozionale, sia esso rappresentato da un individuo, una coppia o una famiglia, bisogna innanzitutto stare con la sofferenza del paziente, anziché usare tecniche e strumenti volti a rimuoverla. Lo 'stare' ha già in sé una forte valenza trasformativa. Si passa, in questo caso, dal considerare, per es., un problema le paure di un bambino di andare a scuola, al vederle come un'occasione di incontro con lui e i suoi genitori attraverso il tema della paura. Nel corso degli anni e dell'esperienza clinica si può constatare che molte volte gli adulti hanno bisogno del comportamento problematico di un figlio per accettare di mettere in discussione le proprie modalità relazionali e affrontare le proprie impasse. Molte delle richieste di terapia per disturbi comportamentali, affettivi o relazionali di un bambino sono, in realtà, delle richieste di terapia di coppia 'camuffate', come se il problema manifestato da un figlio permettesse di chiedere aiuto all'esterno. Una volta ottenuto questo lasciapassare sarà più facile affrontare i problemi 'veri' che sono più spesso radicati negli adulti e nella loro storia di quanto non lo siano nel bambino: quest'ultimo potrà segnalare il successo o meno di questo processo trasformativo familiare attraverso, per esempio, la 'scomparsa' delle paure e un sereno ritorno a scuola.

La psicologia relazionale sembra proporsi come la disciplina più adeguata e sensibile nel cogliere i processi di crescita e di c. della persona, sia essa un bambino o un adulto, in quanto capace di ricercare i nessi e di mettere in risalto i pattern di collegamento più significativi tra l'individuo e il suo mondo familiare e sociale. Allo stesso tempo è in grado di registrare l'impatto dei c. sociali all'interno del gruppo familiare e di descrivere le potenzialità di quest'ultimo nell'affrontare variazioni di stato e di funzioni essenziali per la sua sopravvivenza. In questi ultimi decenni la psicologia relazionale, con i concetti di mito familiare, lealtà invisibile, debito e credito intergenerazionale, proiezione familiare intergenerazionale, distacchi emotivi, delega intergenerazionale ecc., ha messo a fuoco le tappe evolutive dell'individuo e ha permesso che quest'ultimo, tramite l'esperienza della terapia, ritrovasse le risorse interne e relazionali capaci di produrre un processo di cambiamento. Il terapeuta, nella sua natura di nesso nuovo, temporaneo e altamente significativo, diviene il primo elemento di modificazione della trama familiare: partendo da queste premesse e dall'impossibilità di entrare nella storia vissuta nel tempo dalla famiglia è possibile 'costruire una storia' con la famiglia nel contesto della terapia. All'interno di questa storia, è possibile apprendere come ricercare significati diversi negli eventi e nei comportamenti reciproci ed eventualmente sperimentare nuove alternative relazionali. Il c. e la sua verifica in un certo senso esulano dal contesto terapeutico: riguardano la famiglia che lo ricerca al di fuori di esso, nella misura in cui essa impara in terapia a collegare diversamente le proprie conflittualità individuali. Quello che si apprende è soprattutto un metodo di lavoro, più che contenuti specifici da sostituire ai precedenti. Così la famiglia può applicare il metodo appreso a esigenze future, quando vengano richiesti nuovi adattamenti personali e una diversa integrazione tra l'essere di ciascuno e l'appartenere di molti alla stessa storia evolutiva (Tempo e mito nella psicoterapia familiare 1987).

G. Bateson (1979) ha sostenuto che ciò che viene appreso sono dei contesti specifici in cui i fatti e gli oggetti vengono collocati e che l'apprendimento più difficile da realizzare è quello di un 'contesto dei contesti', di un contesto, cioè, che permetta di 'comprendere' i vari contesti. La nostra identità viene costruita attraverso l'esperienza di contesti diversi: a questi, e agli oggetti e alle persone in essi contenuti, è affidata, in un certo senso, la 'memoria' della nostra storia. Essi sono importanti elementi di mediazione e supporti preziosi nell'espressione dei sentimenti, e scandiscono il succedersi delle relazioni. Per es., il fermarsi insieme a una persona a cui si è sentimentalmente legati di fronte a un paesaggio suggestivo, l'attribuzione di significato a particolari oggetti nel corso di un rapporto significativo diventano parte determinante dell'esperienza, tanto che nel rievocarli permettono di riattivarne i contenuti affettivi: servono, cioè, a materializzare, a rendere tangibili certe emozioni e certi rapporti. Anche il ricordo di emozioni e di sentimenti apparentemente non legati a oggetti o persone specifiche è possibile solo in quanto legato a un contesto particolare che gli fa da supporto. In questa prospettiva, il terapeuta diventa tramite per l'unione di contesti e di esperienze diverse: lo spazio terapeutico, il luogo materiale dove si svolgono le sedute, diventa così il punto d'incontro di contesti diversi e lontani nel tempo, e il luogo di costruzione di un contesto dei contesti. Da tale esperienza il sistema familiare potrà via via riscoprire modalità più armoniche di funzionamento. In una terapia sistemica così intesa non si va a ricercare come valutazione del c. la sola scomparsa del sintomo nel paziente. Si ritiene riuscita una terapia quando: a) il comportamento del paziente appare profondamente modificato; i sintomi per cui è stata richiesta una terapia sono scomparsi o quanto meno profondamente modificati; b) la famiglia si è riappropriata del proprio tempo evolutivo e il paziente non ha più la funzione di 'bloccarlo', ponendosi al centro dell'esistenza stessa del gruppo. Si può parlare liberamente di altri rapporti, anche di problemi importanti ancora irrisolti tra questo o quel componente della famiglia, senza che il paziente sia automaticamente coinvolto, sovrapponendosi a ogni altra problematica. Questo secondo c. appare più importante del primo, perché si osservano spesso c. vistosi nel paziente, senza che necessariamente sia cambiato il modo di rapportarsi degli altri tra di loro. Tale difficoltà di ritrovare un tempo evolutivo e uno spazio generazionale adeguato per affrontare gli inevitabili problemi dell'esistenza fa frequentemente ripiombare il paziente nel suo ruolo di 'pilastro' rassicurante della famiglia e forza altri membri della famiglia ad accettare questa funzione 'salvifica' a scapito del proprio spazio di crescita. Proprio queste esperienze richiamano l'attenzione sull'opportunità di valutare il successo terapeutico più sulla base del movimento evolutivo complessivo della famiglia che sul miglioramento del solo dato sintomatologico.






Bibliografia


da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it