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Cane




Il rapporto tra l’uomo e il cane è antichissimo (si
registrano attestazioni fin dal mesolitico) e la sua
domesticazione precede quella degli altri animali. Impiegato
nella caccia e nella pastorizia, ma anche come guardiano e
persino in guerra (Plinio, Naturalis historia 8,61), questo
animale tende, infatti, al commensalismo con l’uomo e ne
diventa presto il più fedele alleato. La letteratura offre
significativi esempi, a partire da Argo, che muore dopo avere
finalmente rivisto il suo padrone (Odissea 17,326 ss.); sono
numerosi i racconti di cani che preferiscono rinunciare alla
vita, per il dolore dovuto alla morte del padrone (cfr. Plinio,
Naturalis historia 8,142 s.). Questo rapporto, costituito
insieme di affetto e di subalternità nei confronti dell’uomo,
non esclude elementi negativi; già nell’Iliade l’animale viene
giudicato sullo stesso piano di lupi e sciacalli: si ciba dei
cadaveri dei nemici e l’accostamento a esso ha il valore di un
insulto (1,4; 1,225), secondo una consolidata tradizione
letteraria (cfr. Otto 68 ss.). Il cane è anche l’animale simbolo
del cinismo, movimento filosofico che ha un notevole influsso
sulla tradizione favolistica: secondo la tradizione, Diogene
(v.) definisce se stesso «il cane» perché scodinzola con chi
gli offre qualcosa, abbaia a chi non gli dà nulla e morde i
ribaldi. Interessante appare l’elaborazione della figura di
questo animale nella sfera religiosa e mitologica. Le diverse
tradizioni che si sviluppano nell’antichità lo vedono ora
gradito agli dei (come testimonia Eliano, De natura
animalium, custodiva il tempio di vari dei, fra cui Asclepio –
7,13 – e Atena – 11,5; lo stesso accadeva a Roma, presso il
tempio di Iuppiter custos sul Campidoglio: Gellio 6,1,6), ora
legato a cerimonie agricole, ora considerato animale impuro
(non poteva entrare nel tempio di Apollo a Delo; Plutarco,
Questioni romane 290a testimonia la proibizione a Roma per
un sacerdote, il flamine di Giove, di toccare un cane o
pronunciarne il nome), ora implicato in sacrifici e riti
catartici, visto il suo rapporto con il regno dei morti. Del
resto, «il cane è psicopompo cioè conduce le anime
attraverso la notte della morte: presso gli Egizi era Anubi e
Thot, presso i Greci e i Romani poteva essere Ecate o
Hermes (Mercurio) oppure Cerbero», il cane custode
dell’Ade (Maspero 64).
Probabilmente, occorre risalire a epoche remote per
inquadrare nella dimensione corretta il contrasto tra
amicizia e repulsione che caratterizza il rapporto tra uomo e
cane: già da quei tempi «dovette instaurarsi un mitico
rapporto tra l’uomo e il cane, poiché questi sentimenti dalla
realtà si trasferirono nelle pratiche religiose, estrinsecandosi
in diverse credenze e cerimonie»: di qui l’ambiguità che si
riflette di conseguenza anche nella tradizione favolistica
(Pugliarello 1973, 81). La figura del cane è infatti oscillante.
Spesso è descritto come fedele amico dell’uomo, abile a
prevenire le insidie del ladro (Fedro 1,23); la sua condizione
domestica di schiavitù diventa anche un motivo di
rimprovero da parte del lupo, che è simbolo invece
dell’amore per la libertà (Esopo 226 Ch.): la favolistica gioca,
tra l’altro, sulla comune origine tra lupi e cani, che si
assomigliano «in tutto», eppure sono su fronti opposti
(Esopo 216 Ch). Il servizio più frequente del cane è quello
svolto a difesa del gregge (v. PECORA), con lo scopo di
prevenire le aggressioni del lupo (cfr., tra le tante favole sul
tema, Esopo 217 Ch.). Ma l’animale fedele si muta in
malvagio calunniatore, quando, in Fedro 1,17, si accorda con
il lupo, facendo condannare con una falsa accusa chi
dovrebbe difendere, cioè la pecora; le menzogne e gli
inganni si rivolgono persino contro i suoi stessi simili: una
cagna raggira un’altra cagna, peraltro benefattrice nei suoi
confronti (Fedro 1,19). Tra i vizi del cane, emergono
l’avidità, nell’ambito di una favola probabilmente di origine
orientale (Fedro 1,27; v. AVVOLTOIO), la pigrizia e la
tendenza a una vita da parassita (Esopo 345 Ch.),
l’ingordigia, che lo spinge non solo a mangiare una
conchiglia, per poi soffrire atrocemente (Esopo 181 Ch.), ma
anche a tentare di bere l’acqua di un fiume per raggiungere
alcune pelli (Esopo 176 Ch.) o a tuffarsi, vedendo riflessa la
propria immagine e pensando di poter raggiungere quello
che in realtà non esiste (Esopo 185 Ch.). Curiosamente,
questa narrazione appartiene anche ad altre tradizioni
culturali: in Africa, nel repertorio favolistico dei Bangwa,
troviamo un cane che perde il suo osso, secondo una stessa,
esplicita, morale che condanna i golosi. Nemmeno nella
tradizione indiana del Pañcatantra manca il motivo narrativo
dell’inganno causato da un’immagine riflessa nell’acqua (il
contesto, però, è differente; in questo caso, è il leone il
protagonista: primo tantra, racconto sesto). Un altro
elemento accolto in modo negativo dalla favolistica è
l’abbaiare del cane, «percepito come un suono poco
armonioso, nemico delle Muse» (Franco 2007, 51): forse su
questo presupposto si basa la favola dei cani musicisti (Dione
Crisostomo 32,66). Del resto, lo stesso Esopo rivolge parole
salaci a una cagna che abbaia in modo insolente (Aristofane,
Vespe 1401 ss.: nella commedia, la storiella serve a
offendere indirettamente una fornaia). Vista l’oscillazione
della sua immagine presso gli antichi, non può mancare
l’ambiguità tra le caratteristiche del cane. La lepre,
catturata, viene mordicchiata e leccata, al punto che non
capisce se le intenzioni del cane sono benevole o ostili
(Esopo 182 Ch.). Ma il cane si segnala anche per qualità
rilevanti, come l’accortezza, che lo aiuta a prevenire le
insidie del coccodrillo (Fedro 1,25), e il coraggio: il
cacciatore si dimostra ingeneroso, quando, pur vecchio e
abbandonato dalle forze, l’animale non rinuncia a adempiere
al suo dovere contro il temibile cinghiale (Fedro 5,10; ma se
la dà a gambe al solo ruggito del più forte leone: Esopo 187
Ch.). Oltre a fare la guardia e proteggere il gregge, il cane
gioca un ruolo importante nella caccia, anche se il rapporto
con l’uomo non è sempre facile (v. CACCIATORE), mentre la
sua relazione con gli dei è descritta secondo l’abituale
schema narrativo degli animali che mandano un’ambasceria
a Giove. L’obiettivo è reclamare un migliore trattamento da
parte degli uomini (Fedro 4,18 [19]), ma, poiché defecano di
fronte allo stesso re degli dei, i cani vanno incontro a
un’inevitabile punizione. Questa immagine, collocata in una
favola dagli accentuati connotati comici, forse di impronta
cinica, si ricollega all’idea, come si è notato assai diffusa,
dell’impurità di questo animale. Del resto, la contiguità con
gli escrementi è attestata anche in Fedro 1,27, dove il cane è
definito «concepito in un trivio e cresciuto nello sterco».
Particolare rilievo ha il ruolo della cagna, in perenne lite con
la scrofa, che discute con lei circa la fecondità di entrambe
(Esopo 342 Ch.) e la accusa di essere puzzolente da viva e da
morta (Esopo 329 Ch.).






Bibliografia


Stocchi C. Dizionario della favola antica, BUR, 2012

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