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Cina




Noi andiamo a cercare in Cina della terra, come se non ne avessimo; delle stoffe, come se ne mancassimo; una piccola erba per fare un infuso, come se nei nostri climi non avessimo dei semplici. E, in compenso, vogliamo convertire i cinesi: zelo lodevolissimo, ma non bisogna contestare la loro abilità e dire che sono degli idolatri. Sarebbe giusto se un cappuccino, ben accolto in un castello dell'antica famiglia dei Montmorency, volesse persuaderli che sono nobili di fresca data, come i segretari del re, e li accusasse di idolatria perché ha trovato in quel castello due o tre statue di connestabili per le quali quei nobili mostrano un profondo rispetto?
Il celebre Wolf, professore di matematiche all'università di Halle, pronunz iò un giorno un bellissimo discorso in lode della filosofia cinese; elogiò questa antica specie di uomini, che differisce da noi per la barba, gli occhi, il naso, le orecchie e per il modo di ragionare; elogiò, dico, i cinesi, perché adorano un Dio supremo e amano la virtù; rendeva
tale giustizia agli imperatori della Cina, ai Kolao, ai tribunali, ai letterati. La giustizia che si rende ai bonzi è di specie diversa.
Bisogna sapere che questo Wolf attirava a Halle un migliaio di studenti di tutte le nazioni. C'era, nella stessa università, un professore di teologia, chiamato Lange, che non attirava nessuno; disperato a forza di gelare dal freddo, solo, nella sua aula, volle, come di ragione, screditare il professore di matematiche; e non mancò, secondo il costume dei suoi simili, d'accusarlo di non credere in Dio.
Alcuni scrittori europei, che non erano mai stati in Cina, avevan dichiarato che il governo di Pechino era ateo.
Wolf aveva lodato i filosofi di Pechino, e dunque Wolf era ateo; l'invidia e l'odio non hanno mai prodotto migliori
sillogismi. Questo argomento di Lange, sostenuto da una cabala e da un protettore, fu giudicato convincente dal re del paese, che inviò al matematico un dilemma in debita forma: o lasciare Halle entro ventiquattro ore o venire impiccato.
Wolf, assai sveglio di cervello, se ne partì subito; la sua partenza costò al re la perdita di due o trecentomila scudi l'anno, che questo filosofo faceva entrare nel regno grazie all'affluenza dei suoi discepoli.
Questo esempio deve fare intendere ai sovrani che non sempre bisogna dar retta alle calunnie e sacrificare un grand'uomo al furore di uno stolto. Ma torniamo alla Cina.
Perché mai ci azzardiamo, noi, nell'estremo occidente, a disputare con accanimento e torrenti di ingiurie per sapere se ci sono stati quattordici principi, o no, prima di Fo-hi, imperatore della Cina, e se questo Fo-hi viveva tremila o duemilanovecento anni prima della nostra era volgare? Se due irlandesi si mettessero a disputare a Dublino per sapere chi fu, nel XII secolo, il proprietario delle terre che io occupo oggi, non è evidente che dovrebbero rivolgersi a me, che ho in mano gli archivi? La stessa cosa si deve fare, a mio giudizio, nei riguardi dei primi imperatori della Cina: bisogna rimettersi al giudizio dei tribunali di quel paese.
Disputate finché volete sui quattordici principi che regnarono prima di Fo-hi; la vostra bella disputa arriverà solo a provare che la Cina era allora molto popolata e che vi regnavano le leggi. Ora vi domando se una nazione riunita,
che ha leggi e principi, non presupponga una straordinaria antichità. Pensate quanto tempo occorre perché un singolare concorso di circostanze faccia trovare il ferro nelle miniere, perché venga impiegato nell'agricoltura, perché si inventi la spola e tutte le altre arti.
Chi si diverte a scrivere puerilità ha immaginato un calcolo molto divertente. Il gesuita Petau, con un bellissimo computo, attribuisce alla terra, duecentottantacinque anni dopo il diluvio, cento volte più abitanti di quanti si osi supporre per il presente. I Cumberland e i Whiston hanno fatto calcoli non meno comici: questa brava gente, se
avesse consultato i registri delle nostre colonie, sarebbe rimasta sbalordita: avrebbe appreso quanto poco il genere
umano si moltiplica, e che spesso diminuisce, anziché aumentare.
Lasciamo dunque, noi che siamo di ieri, noi discendenti dei celti, che abbiamo solo da poco dissodato le foreste delle nostre contrade selvagge, lasciamo che i cinesi e gli indiani si godano in pace il loro buon clima e la loro antichità.
Cessiamo, soprattutto, di chiamare idolatri l'imperatore della Cina e il subab del Dekkan! Non bisogna essere fanatici
dei meriti dei cinesi: la costituzione del loro impero è la migliore del mondo, la sola che sia tutta fondata sull'autorità paterna (il che non impedisce che i mandarini non bastonino di santa ragione i loro figli); la sola in cui un governatore venga punito quando, lasciando la sua carica, non riceva le acclamazioni del popolo; la sola che abbia istituito dei premi per la virtù, mentre, nel resto del mondo, le leggi si limitano a punire il crimine; la sola che abbia fatto adottare le proprie leggi ai suoi vincitori, mentre noi siamo ancora soggetti alle consuetudini dei burgundi, dei franchi e dei goti, che in altri tempi ci dominarono. Ma bisogna confessare che il popolino, governato dai bonzi, non è meno furfante del nostro; che agli stranieri tutto viene venduto a carissimo prezzo, come da noi; che nelle scienze i cinesi sono ancora al punto in cui noi eravamo duecento anni fa; che essi hanno, come noi, mille pregiudizi ridicoli; che credono ai talismani a all'astrologia giudiziaria, come ci abbiam creduto noi per tanto tempo.
Riconosciamo inoltre che essi sono rimasti meravigliati dal nostro termometro, dal nostro modo di ghiacciare i liquidi col salnitro, e di tutti gli esperimenti di Torricelli e di Otto von Guericke, proprio come lo fummo noi la prima
volta che vedemmo questi «giochi» di fisica; aggiungiamo che i medici cinesi, come i nostri, non guariscono le malattie
mortali; e che là, come da noi, solo la natura guarisce le malattie leggere; ma tutto ciò non impedisce che i cinesi, quattromila anni or sono, quando noi non sapevamo nemmeno leggere, conoscessero già tutte le cose utili di cui noi oggi ci vantiamo.
La religione dei letterati, ripetiamo, è ammirevole. Nessuna superstizione, nessuna leggenda assurda, nessuno
di quei dogmi che insultano la ragione e la natura, e ai quali i bonzi attribuiscono mille significati diversi, perché non ne
hanno alcuno. Da più di quaranta secoli, il culto più semplice è sembrato loro il migliore. I cinesi sono come noi pensiamo che fossero Seth, Enoch e Noè; s'accontentano d'adorare un Dio come tutti i saggi della terra, mentre noi, in Europa, ci dividiamo tra Tommaso e Bonaventura, fra Calvino e Lutero, fra Giansenio e Molina.







Bibliografia


Voltaire, F.-M. Dizionario filosofico

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