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La cocaina non rende famosi




Abbiamo riflettuto sulle caratteristiche della psicoanalisi cercando di evidenziarne i tratti salienti per offrirne un identikit attendibile, un ritratto fedele. Abbiamo compreso che questo identikit della psicoanalisi non tiene conto dei parametri delle discipline scientifiche e che, di conseguenza, sarebbe un grave errore cercare di incastonare la psicoanalisi all’interno del rispettato "mosaico delle scienze esatte".

     Ma ciò che soprattutto del nostro discorso è bene ricordare è il fatto che siamo giunti a identificare la psicoanalisi come una particolare forma d’arte, l’"arte della relazione".

     Cercheremo ora di comprendere i parametri di questa particolare forma di espressione creativa, mettendone non solo in evidenza le insidie, le problematiche e le implicazioni di ordine teorico-pratico, ma soprattutto cercando di ripercorrere le tappe che hanno condotto alla sua nascita e al suo sviluppo.

     La psicoanalisi è chiamata a confrontarsi con una serie di fenomeni psichici che sollecitano il suo interesse per la loro apparente illogicità: comportamenti inusuali, strane paure, rituali ossessivi che consentono a chi li pratica di continuare a vivere, angosce profonde che impediscono la normale vita di relazione. Dinanzi a queste manifestazioni, la ricerca psicologica si è posta delle domande e degli obiettivi: quale è l’origine e la causa di tali fenomeni? È possibile, sulla base di un’attenta diagnosi, stabilire delle strategie di intervento e ridurre il disagio di chi soffre? È possibile, insomma, un approccio terapeutico? Sono domande a cui fino a ieri la psichiatria ufficiale non dava risposta, ammesso che se le ponesse. È legittimo chiederci perché.

     Se osserviamo lo sviluppo della psichiatria dinamica notiamo che la sua evoluzione è andata progredendo da una visione anatomo-patologica, tipica degli studiosi di fisiologia organica cerebrale, a una visione psicodinamica della cosiddetta malattia psichica, sulla base di anni e anni di attente ricerche e di osservazioni cliniche. Prima di arrivare a una comprensione di tipo psicodinamico del disagio mentale, i tentativi di curare i sintomi, dai più lievi ai più eclatanti e sorprendenti – per esempio i casi di sdoppiamento della personalità – erano rivolti all’organo malato – il cervello – e agli organi coinvolti. In nome della scienza psichiatrica sono stati compiuti degli esperimenti da considerare alla stregua di barbari supplizi, dalle immersioni nelle vasche di acqua gelida al coma insulinico, alle lobotomie.

     Occorreva debellare un male incistato nell’organismo, un nucleo impazzito del cervello, e poiché non si riusciva a curarlo non restava che estirparlo: come se, dinanzi al guasto di un meccanismo del motore, un meccanico pensasse di poter riparare il danno eliminando il pezzo non funzionante.

     Però, accanto agli studiosi da laboratorio, per i quali l’ammalato era né più né meno che una cavia, sono esistiti i grandi ricercatori, i pionieri del progresso della medicina (una medicina che oggi noi definiremmo, secondo un nome d’uso, "alternativa"). Queste personalità, dinanzi al potere occulto della malattia, alla sua resistenza alle terapie dell’epoca, hanno acuito il loro ingegno e, mettendo in crisi il sapere costituito, accademico, hanno cercato di indagare sui fenomeni patologici senza pregiudizi di sorta, come si conviene appunto ai pionieri.

     Uno di questi innovatori è stato Jean-Martin Charcot (1825-93), che intorno alla fine del 1800 dirigeva l’Ospedale
     parigino della Salpetrière, una struttura che ospitava i casi più singolari e difficili, casi di cui il neurologo si occupò indicando per ciascuno di essi non soltanto una denominazione specifica – la scienza del suo tempo era ancora soprattutto classificatoria e nomenclatoria – ma enunciandone anche una precisa sintomatologia e, soprattutto, una specifica strategia terapeutica.

     Le patologie riguardavano l’ambito delle paralisi traumatiche, dell’isteria, dell’epilessia. Fenomeni particolari che lo studioso cercò prima di tutto di definire secondo una modalità di lavoro che oggi considereremmo tipica delle diagnosi differenziali. I casi di epilessia sembravano essere ricorrenti, e a essi Charcot rivolse la maggior parte delle sue risorse ed energie. Il suo lavoro, con il trascorrere del tempo, gli permise di individuare all’interno della moltitudine dei soggetti considerati epilettici un considerevole numero di personalità ’isteriche’, identificabili poiché ’capaci’ di simulare gli attacchi epilettici.

     Allo stesso modo, tra le paralisi traumatiche per le quali era stata diagnosticata un’eziologia di origine organica, egli ne rintracciò moltissime di natura isterica. Nonostante la sintomatologia fosse simile, tanto nel caso delle crisi epilettiche quanto in quello delle paralisi, la causa era tuttavia diversa: di natura organica le une, di natura ’dinamica’ quelle isteriche. Per queste ultime non si riscontrava alcuna traumatologia organica né lesione cerebrale, e per di più sotto ipnosi tali manifestazioni tendevano a scomparire. Secondo Charcot, l’origine di simili disturbi era da ricercare nelle "idee fisse", qualcosa paragonabile a dei nuclei complessuali inconsci: questa scoperta sarà poi il fondamento delle successive ricerche da quelle di Janet sull’attività psichica inconscia, fino a quelle di Freud.

     È ormai trascorso più di mezzo secolo dalla morte di Sigmund Freud: il suo pensiero, le sue idee, il suo lavoro sono stati presi in considerazione e analizzati da psicologi, filosofi, antropologi, storici e scienziati di ogni tipo e genere ma
     tutta questa profusione di studi ancora non sembra sufficiente. Freud e le sue suggestive idee, le sue geniali esemplificazioni del funzionamento della psiche continuano a popolare l’immaginario della gente, solleticando l’intelletto dei più colti e seducendo la fantasia di coloro che "non vogliono ammettere di non sapere". Doveroso dunque, oltre che necessario, dedicare ampio spazio in questa nostra Breve storia della psicoanalisi all’uomo che ne ha scandito i passi.

     Prima di incamminarci verso la comprensione del pensiero freudiano – e quindi prima di ripercorrere le tappe della nascita della psicoanalisi – ritengo importante osservare che la storia che vogliamo qui tratteggiare è costituita da una pluralità di tasselli pressoché illimitata e che pertanto, per ragioni ’logistiche’, anche in questo caso si è resa necessaria una selezione.

     Includere nelle fila di un discorso un argomento piuttosto che un altro non significa disprezzare o "bocciare" il secondo, né significa ritenerlo meno importante del primo. Come ho già osservato più volte, aderire a una determinata corrente di pensiero o – come in questo caso – selezionare le teorie di alcuni autori mettendo per così dire "in secondo piano" quelle di altri, significa voler prestare ascolto alla propria eco dinanzi alla musicalità di una determinata teoria. Credo sia determinante non scadere mai nella mediocre banalità del dogmatismo poiché, come osservai diversi anni or sono, soprattutto per quanto concerne il raggio d’azione della psicoanalisi:

    
       "quanto più si è insicuri di ciò che si fa, tanto più ci si aggrappa a dettami autoritari, si considerano ipotesi teoriche alla stregua di dogmi, e si difendono con animosità concezioni che sarebbe necessario vagliare criticamente. [...] È la paura dell’incertezza il solo cemento di tante ’certezze granitiche’. [...] Oltre tutto nell’ambito della psicoterapia il dogmatismo risulta dannoso più che in altri campi. Esiste infatti una problematicità tipica del lavoro dello psicologo, e solo stimolandola sarà possibile fare dei passi avanti nella comprensione di quello che accade in un setting analitico" (Carotenuto 1982, 14).
   

     Premesso questo, possiamo ora ritornare alla teoria di Freud, alla quale spetta il posto d’onore. Sia chiaro però: porre la teoria freudiana sul "podio" della storia della psicoanalisi, non significa – in virtù di quanto abbiamo affermato poc’anzi – aderire ad essa ma significa riconoscerle il ruolo fondante all’interno del corso della storia della psicoanalisi. Ho già sostenuto che "anche se, come sempre, è impossibile stabilire se la formulazione freudiana sia ’vera’ o ’falsa’, essa è comunque il primo tentativo nella storia del pensiero psicologico, di dar vita a un quadro completo e coerente. Come dalla lingua latina ebbero origine tutte le lingue romanze, così sui fondamentali concetti del pensiero freudiano si baseranno tutte le elaborazioni teoriche successive a Freud" (Carotenuto 1991, 59).

     Proprio come l’egemonia del latino nel panorama culturale anteriore e posteriore all’anno Mille non impedì la nascita e lo sviluppo di nuove lingue e forme di espressione letteraria, la teoria freudiana, sebbene preponderante, fondamentale e imprescindibile, non solo non impedì il sorgere di nuovi e differenti punti di vista ma anzi ne sollecitò lo sviluppo. Allo stesso modo poi, proprio come le nascenti lingue romanze non si configurarono come un’ottusa opposizione al latino, né vollero tentare di esserne la degna alternativa, così le teorie degli autori che si affacciarono sul panorama culturale psicoanalitico dopo l’avvento di Freud non vennero alimentate dal desiderio di spazzare via "la teoria madre". Infine, completando con questa osservazione il nostro paragone tra la teoria freudiana e l’egemonia del latino, diremo che le lingue romanze non nacquero con lo scopo di opporsi al latino, proprio come le teorie dei vari autori che prenderemo in considerazione nell’ambito di questa nostra Breve storia non scaturirono dal bisogno di abbattere l’edificio freudiano. Solo nelle religioni, o meglio all’interno delle grandi religioni monoteiste, può accadere – ed è spesso accaduto – che una "lettura" dei testi sacri che si discosti da quella ufficiale sia considerata "eretica" e generi apostasie, diaspore, scismi, scomuniche, secessioni, riforme e controriforme; e magari guerre guerreggiate, che però rivelano ben presto – vedi la Lotta per le Investiture – la loro cruda natura di lotte per il potere. Per fortuna le dottrine psicoanalitiche non si considerano religioni – anche se all’interno delle rispettive ’associazioni’ non mancano i sagrestani e i Grandi Sacerdoti, i fondamentalisti e gli eterodossi, i tribunali dell’Inquisizione e le scomuniche – e nemmeno, per la verità, le Lotte per le Investiture; ma si tratta di fenomeni degenerativi.

     E torniamo alla nostra analogia tra la storia delle lingue e quella della psicoanalisi. Sia nell’uno che nell’altro caso, non si trattava di ’spedizioni punitive’. Le lingue romanze nacquero per colmare le lacune a cui il latino non aveva saputo porre rimedio, cercando anzitutto di soddisfare quella fetta di pubblico, di popolo, di studiosi e di scrittori che ricercavano una modalità espressiva "altra" rispetto al latino, diversa, ma non opposta a esso. Nell’ambito del panorama teorico-culturale della psicoanalisi, lo scenario è il medesimo: Freud è il leit-motiv di fondo, ma l’efficacia della sinfonia è data da tante melodie diverse, ispirate a quella freudiana, talvolta contrastanti con essa e talvolta combaciabili.

     Freud nacque il 6 maggio 1856 a Freiberg, una cittadina della Moravia, oggi Příbor. Il piccolo Sigmund venne al mondo in una camera al secondo piano del numero 117 della Schlossergasse, una camera angusta, che costituì per i primissimi anni della sua vita tutto il suo mondo. Spesso i critici del pensiero freudiano si sono interrogati circa l’eventualità – peraltro tutta da dimostrare – che le ristrettezze economiche e ambientali del piccolo Sigmund abbiano dato vita a quella che potremmo definire una "nevrosi esistenziale". In molti si sono chiesti se quell’inquietudine malsana, se
     quel bisogno di evadere dalle limitazioni non abbia poi ispirato – o forse inficiato – tutta la sua teoria. Ora, a prescindere dalla specifica essenza di queste congetture, esse introducono comunque un tema importante nell’ambito dello studio delle differenti teorie psicologiche: la problematicità dell’autore. Più volte negli anni ho avuto occasione di riflettere sull’argomento e sono tutt’oggi convinto del fatto che:

    
       "Uno degli elementi più importanti per comprendere la genesi delle singole teorie psicologiche è la conflittualità nevrotica dell’autore. Se indaghiamo con occhio clinico la vita intima delle personalità che hanno dato dei contributi fondamentali in campo psicologico – mi riferisco principal – mente a Freud, Adler e Jung – vediamo che la loro struttura intellettuale e, quindi, l’impalcatura delle loro opere, è legata a determinati, particolari, problemi. [...] Sia Jung che Adler e Freud hanno attraversato periodi di grave depressione. Ciò è indicativo del fatto che non riusciremo mai a esprimere nulla di valido in campo psicologico se, in un modo o nell’altro, non faremo un viaggio all’interno di noi stessi. Da questo viaggio qualcuno emerge, altri no" (Carotenuto 1982, 18-24).
   

     Sebbene Freud preferisse non avvalorare l’idea che lo sviluppo della psicoanalisi potesse essere stato influenzato dalle sue vicende personali, tuttavia esistono alcune peculiarità della sua biografia che potrebbero aver orientato addirittura tutta l’evoluzione del suo pensiero. Ecco allora un particolare che non dovremmo dimenticare: i genitori di Freud erano ebrei. Quando il piccolo Sigmund veniva al mondo, la persecuzione ufficiale nei confronti degli ebrei da parte dell’impero asburgico era cessata ormai da alcuni anni ma essere ebreo era ancora considerato sinonimo di "diversità", di una diversità che purtroppo presentava numerosi riscontri oggettivi.

     Quando Freud ebbe circa tre anni, una grave crisi economica costrinse la sua famiglia a lasciare Freiberg per trasferirsi a Vienna. La situazione socio-economica della grande
     città non era allora certo delle migliori, la miseria dilagava e Freud trascorrerà i primi quarant’anni della sua vita sempre attanagliato dall’angoscia per il futuro, un’angoscia che scaturiva dall’essere un "ebreo non agiato". Aggiungiamo che nella capitale austriaca l’antisemitismo non ammainerà mai le sue bandiere; fino alla Prima Guerra Mondiale, fino all’Anschluss e alla Seconda, sotto le finestre della casa di Freud continueranno a passare cortei imprecanti alla "razza dannata", al "popolo decida" con slogan cadenzati e simboliche forche, inneggianti al partito cristiano-sociale, all’Imperatore e alla musica di Wagner.

     Sigmund Freud sarà un fanciullo e un giovane spinto da un profondo e intenso bisogno di divincolarsi dalla miseria, dai pregiudizi sociali, dai limiti dell’ottusità umana e la sua teoria – come vedremo – rappresenterà la massima espressione dell’idea di libertà e di forza interiore. La sua straordinaria e precoce passione per la lettura appariranno agli occhi di tutti come il giusto complemento di una mente geniale, proiettata nel futuro, tesa alla conoscenza e, prima ancora, a porsi domande sulle quali mai nessuno si era azzardato a riflettere.

     L’origine delle specie di Darwin, apparso nel 1859, esercitò su di lui un grande fascino, appagando con le sue idee rivoluzionarie un bisogno che dominerà sempre l’intelletto di Freud: il bisogno di andare oltre le apparenze per "scoprire la verità".

     Intrapresa la facoltà di Medicina, Freud si dedicherà con passione allo studio delle scienze naturali e dell’anatomia comparata. Dal 1876 al 1882 sarà al fianco di Wilhelm Brücke per dedicarsi allo studio dell’anatomia e della fisiologia del sistema nervoso. L’esperienza all’interno del laboratorio di Brücke gli permetterà di sviluppare un atteggiamento e una forma mentis da vero scienziato, consentendogli tra l’altro di incontrare per la prima volta Josef Breuer.

     Durante questo periodo Freud non si occupava ancora di pazienti, e la sua era la figura tipica dello studioso, di un
     uomo dedito al proprio impegno tra le mura e gli strumenti di un laboratorio. Nel 1876 in particolare, lo scenario sarà la città di Trieste ove Freud, avendo vinto una borsa di studio, risiederà per un breve periodo dedicandosi a una ricerca sulle gonadi delle anguille. I dettagli, i particolari, il microcosmo, ecco il fulcro dell’attenzione di Freud in questa fase della sua vita, ma ecco anche il centro dell’universo attorno al quale costruirà tutta la sua opera.

     Un grande elemento interverrà però a mutare il raggio d’azione dello studioso: ben presto abbandonerà anguille, anfibi e altre piccole creature per dedicarsi all’uomo. Nel 1881 infatti si laurea in Medicina all’Università di Vienna e, divenuto assistente nella clinica psichiatrica di Theodor Meynert, comincia a occuparsi di neurologia. Freud conduce esperimenti, legge, studia, si documenta e, nel 1884, giunge a intuire le proprietà anestetiche della cocaina e i suoi effetti neurologici. I risultati dei suoi studi apparvero proprio nel 1884, veicolati dalla relazione Über Coca; non sarà però la cocaina a dare a Freud la celebrità. Durante gli studi e le ricerche sulla cocaina infatti, Freud, non volendo rinunciare alla possibilità di un viaggio per incontrare la sua amatissima Martha, permetterà al collega Koller di scavalcarlo e di accaparrarsi la paternità delle scoperte sulle proprietà analgesiche della cocaina.

     L’anno seguente – il 1885 – ottenuta una borsa di studio, Freud si reca a Parigi. Qui frequenta la Salpêtrière, seguendo da vicino le ricerche di Charcot sull’isteria. L’influsso che quest’ultimo eserciterà su Freud sarà enorme ma ancor più grande sarà il fascino della follia che Freud scorgerà negli occhi delle "isteriche" pazienti di Charcot.

     Per chiunque abbia mai tentato di ripercorrere le tappe essenziali del pensiero freudiano, l’influsso di Charcot rappresenta davvero un passaggio obbligato:

    
       "Questo nuovo campo di ricerca attirò enormemente Freud. Abbandonò il laboratorio e passò tutto il suo tempo in mezzo alla folla degli studenti che ascoltavano le lezioni di Charcot, presenziavano alle sue dimostrazioni pratiche e lo accompagnavano in giro per le corsie. [...] Charcot spostò in modo decisivo e duraturo il punto focale dei suoi [di Freud] interessi. Lo affascinò quel potere della mente sopra la materia che si riusciva a ottenere mediante l’ipnosi. Per la prima volta lo attirava la prospettiva di avere a che fare coi pazienti, perché il loro trattamento poteva al tempo stesso aiutare lui a trovare quelle risposte di cui sentiva il bisogno" (McGlashan e Reeve 1970, 60-61).
   

     Ciò che ora comincia ad attrarre l’interesse di Freud è la possibilità di individuare il rapporto fra manifestazioni somatiche della malattia e la sua origine "psicologica". Le nevrosi rappresentano ora per Freud il campo privilegiato al quale rivolgere la propria attenzione e l’isteria allora sembrava davvero essere la "patologia per antonomasia". Charcot rinveniva alla base dell’insorgere dell’isteria due elementi distinti ma comunque indispensabili per lo scatenarsi di un attacco: anzitutto un trauma psichico a monte e poi una componente per così dire "ereditaria" di degenerazione del cervello. Il lavoro di Charcot costituì per Freud il "la" di tutto il suo successivo impegno, dei suoi studi, delle sue ricerche.

     Saranno proprio le ricerche sull’isteria infatti, a spingerlo a una stretta collaborazione con Josef Breuer, dalla quale scaturiranno nel 1893 la Comunicazione preliminare e, nel 1895, gli Studi sull’isteria. Il rapporto con Breuer sarà determinante per la nascita della psicoanalisi, nel senso che farà scoccare nella mente di Freud la scintilla che lo condurrà a elaborare la sua "teoria dell’inconscio". Affermare che il loro rapporto – nato anzitutto come amicizia – sarà determinante per la nascita della psicoanalisi, significa dover ricordare il celebre caso di Anna O., pseudonimo che celava la figura di Bertha Pappenheim. Questo grave caso di isteria aveva creato a Breuer – che si era cimentato nel trattamento di questa giovane fanciulla dai lunghi capelli corvini utilizzando il metodo dell’ipnosi – non pochi problemi. La malattia di Anna si snodò attraverso una serie di fasi, di passaggi che condussero ben presto la giovane ad aggravarsi in maniera preoccupante. Breuer si rese conto di non poter gestire le implicazioni del caso e così decise di rivolgersi a Freud.

     Ebbene, le osservazioni e le riflessioni di Freud in merito a questo caso possono essere considerate l’humus nel quale la psicoanalisi ha affondato le sue radici per crescere e svilupparsi. Un’attenta riflessione sul caso di Anna O. infatti, permetterà a Freud di individuare ed elaborare un nuovo metodo, una valida alternativa all’ipnosi e una positiva evoluzione del "metodo catartico" messo a punto da Breuer. La psicoanalisi comincia da qui, dal complesso caso di Anna O.:

    
       "Nel corso della sua malattia, protrattasi per oltre due anni, la paziente del dottor Breuer, una ragazza di ventun anni di elevate doti intellettuali, sviluppò una serie di disturbi somatici e psichici che ben meritavano di essere presi sul serio" (Freud 1909, 130).
   

     Freud tornò spesso su questo caso, sottolineandone l’importanza e cercando di ricordare al grande pubblico i meriti e il ruolo di Breuer rispetto alla nascita della psicoanalisi. In particolare, in occasione della prima delle cinque conferenze tenute da Freud dal 6 al 10 settembre del 1909 presso la Clark University a Worcester, egli affermò:

    
       "Se è un merito l’aver dato vita alla psicoanalisi, il merito non è mio. Non ho preso parte al suo primo avvio. Ero studente, impegnato nel dare gli ultimi esami, quando un altro medico viennese, il dottor Josef Breuer, applicò per la prima volta questo procedimento (dal 1880 al 1882) per curare una ragazza malata d’isteria" (Ibid., 129).
   

     La ragazza in questione era, per l’appunto, Anna O. e il suo caso divenne celebre nella storia della psicoanalisi perché permise a Freud di formulare l’idea che i malati isterici soffrono di reminiscenze. I loro sintomi cioè sarebbero residui e simboli mnestici di determinate esperienze [traumatiche]" (Ibid., 135).

     Da allora tanta strada è stata fatta verso la comprensione delle radici della sofferenza umana, ma a tutt’oggi riconosciamo a Charcot il merito di avere attivato un meccanismo formidabile, orientato in direzione del "disvelamento dei misteri della mente".

     Alla sua morte, Charcot fu definito "l’uomo che aveva rivelato al mondo un campo sconosciuto della psiche" (Ellenberger 1970, 116). Egli aveva compreso la funzione della psiche nell’eziologia di malattie mentali allora conosciute, e sebbene i suoi metodi, dapprima osannati e poi criticati, fossero pionieristici, il suo grande merito fu di aver rivelato la natura psicologica, o meglio psicodinamica, dei disturbi mentali.

     Da allora in poi, accanto a una corrente di studi neurologici fedele alla spiegazione organicistica, ha preso vita una corrente di studi psichiatrici psicodinamica che, senza trascurare la neurologia e l’anatomia cerebrale, ha voluto indagare quelle aree dell’attività psichica che spesso vengono ritenute inaccessibili, sconosciute, misteriose perché "inconsce". È proprio in virtù della presenza di queste sfere enigmatiche e oscure della nostra personalità che la psicoanalisi ha potuto introdurre termini particolari, come quelli di vita psichica inconscia, di motivazioni inconsce, di rimozioni e di difese. La psicoanalisi, quindi, si occupa proprio di questo ambito di ricerca, ed è questa la matrice da cui trae nutrimento la nostra disamina delle caratteristiche dell’arte psicoanalitica e delle diverse correnti di pensiero che hanno contribuito al suo sviluppo. Una scelta precisa, dunque, una scelta di campo che rientra comunque all’interno di un panorama anch’esso molto differenziato.

     Vedremo come le differenti teorie della psicoanalisi sono tante quanti i singoli autori che si sono interessati di queste tematiche, e vedremo che, anche all’interno di una stessa corrente di pensiero, possono emergere notevoli divergenze, il che a nostro avviso rivela una fertile ricchezza di idee. Come ci ricorda Giovanni Jervis,

    
       "Freud non si valse di un metodo semplice, ma mise in movimento problemi epistemologici di cui egli stesso non conobbe la portata; non scoprì un mondo già fatto, ma fondò una dottrina; non costituì un sistema, ma dette una serie di indicazioni; fu un precursore ma anche, integralmente, uomo della sua epoca" (Jervis 1967, XII).
   

     La psicoanalisi nasce dunque anzitutto dal bisogno di comprendere quei fenomeni, più o meno gravi, che possono rendere la vita di alcune persone molto difficile, penosa, talvolta così drammatica da indurre l’individuo a pensare di non poterne sostenere il peso. In fondo, è in virtù del medesimo principio che la medicina esiste e che viene sollecitata nel proprio lavoro; nel senso che se qualcosa ha turbato l’equilibrio omeostatico del nostro organismo, così da renderci impossibile continuare a vivere e a fornire un certo tipo di prestazioni, si rende necessario un intervento atto a ristabilire una condizione di "vita normale", adeguata quindi alle richieste dell’ambiente esterno e alle pressioni dell’esistenza.

     Spesso accade – e, come ben sappiamo, oggi sempre di più – che i mezzi di comunicazione di massa ci facciano pervenire notizie sempre molto sorprendenti circa i progressi e le evoluzioni del mondo scientifico. Ebbene, a tal proposito è inevitabile osservare come ogni exploit della scienza sia accolto con un certo sospetto, con una pregiudizievole diffidenza e come esso generi allarme e preoccupazione da parte del collettivo. Il tema della clonazione, ad esempio, è ormai entrato nel linguaggio e nell’immaginario comune, ma non dovremmo sforzarci molto per ricordare quale fitta nube di mistero, inquietudine e indignazione esso abbia generato sul nascere. Ritengo pertanto fondamentale addurre alcune considerazioni di ordine sia logico che psicologico. Continuando a utilizzare come parametro del nostro discorso il tema della clonazione, diremo che se sorvoliamo sul problema etico che una simile tematica solleva – problema grave e reale – e prendiamo in considerazione soltanto l’affermazione secondo cui sarebbe possibile riprodurre all’infinito gemelli identici, la nostra fantasia mette in scena una folla interminabile di individui che non solo si assomigliano come gocce d’acqua, ma pensano, parlano, si muovono, desiderano e operano in maniera identica, proprio come manichini pilotati da uno scienziato pazzo.

     Che ci sia un grano di follia in alcune operazioni di laboratorio, è fuori di dubbio. Ciò che non è possibile sostenere è che uno stesso bagaglio genetico equivalga a una medesima conformazione psicologica, culminando quindi in uno stesso destino. La semplice osservazione delle differenze psicologiche, a volte persino molto accentuate, che esistono tra gemelli monozigoti ne è la prova. All’interno di uno stesso nucleo familiare, due gemelli possono sviluppare attitudini, comportamenti e abiti mentali diversi. Questo significa che la nostra conformazione psicologica non dipende dal bagaglio genetico che abbiamo ereditato.

     Quando per esempio asseriamo che un individuo si comporta in un determinato modo perché la sua storia infantile è stata di un certo tipo, ci stiamo riferendo a qualcosa di complicato. Questo individuo ha elaborato il proprio rapporto con le figure parentali secondo certe modalità, ha introiettato certi modelli di comportamento prevalenti nell’ambiente umano in cui si è formato e ha strutturato legami di identificazione con aspetti consci e inconsci delle figure significative, genitori o altri. Potremmo quindi supporre che egli – al di là delle normali strategie difensive – possa aver adottato risposte difensive talmente massicce e rigide da ostacolare il suo stesso sviluppo.

     Una serie multiforme di eventi e di elaborazioni, una rete intricata di nessi relazionali che emerge da uno sfondo di riferimenti culturali altrettanto complessi. L’interesse per la psicoanalisi e, soprattutto, lo stile e il taglio che ogni autore assume come proprio sguardo caratteristico sul mondo, nascono da interrogativi che differiscono da un ricercatore all’altro, ed è per questo che possiamo osservare la dimensione psicoanalitica da prospettive differenti. Per chi assume quale punto di vista ideale quello che considera la vita psicologica come un processo dinamico di maturazione di un destino unico, irripetibile, individuale e considera che a tessere questo destino concorrono varie forze psichiche – la cui natura cercheremo di analizzare in questo lavoro – ogni dimensione psicologica appare definibile attraverso determinanti che esulano dalla mera osservazione dei ’fatti’, dei comportamenti, così come delle norme sociali e delle regole del gioco collettivo.

     Sebbene sia indiscutibile il peso di questi fattori nel determinare una ’tipologia culturale’, la nostra ambizione ci induce a formulare quesiti più inquietanti: che cosa fa di me, individuo x, ciò che sono, e come io posso divenire ciò che sono in germe?

     Esiste una ’linea di destino’, come la definiva Jung, esiste una personalità in nuce che "prende corpo", definendosi via via che entra in risonanza con l’ambiente che la contiene? E ancora: siamo determinati a priori, siamo predeterminati o piuttosto esiste sempre la possibilità di autogenerarci, di trasformarci? I giochi sono già stati fatti "a monte" e noi non siamo che pedine o esiste la possibilità di attingere a una sorgente creativa profonda che alimenta il nostro divenire psicologico? Siamo, insomma, gli autori della nostra vita, o solo gli attori "scritturati" per metterla in scena? Siamo i "personaggi" inconsapevoli di un film che è già stato scritto, "sceneggiato", "girato", "montato", e magari già proiettato chissà quante volte, dalla prima alla ennesima visione che però credono di recitare ’a soggetto’, di "improvvisare"... Forse è questa, col permesso di Weiss, la sola, grande ’credenza patogena’ che zavorra e impastoia il libero corso della nostra maturazione. Se è scritto lassù o da qualche parte, se tutto è già stato deciso a mia insaputa, a che pro affannarsi e porsi traguardi, affrontare scelte dolorose e assumersi responsabilità? Ecco: soprattutto quest’ultimo argomento – la de-responsabilizzazione – spiega la facile presa sull’animo umano di tante ’credenze’ e teorie antiche e nuove, altrimenti non molto lusinghiere per il singolo, anzi "umilianti": dal Fato greco all’ereditarietà genetica, dalla Grazia Divina del Vecchio e del Nuovo Testamento che sceglie a sua discrezione gli ’eletti’, all’ambiente sociale che plasma i reprobi; e poi il segno zodiacale che ci ha "marchiato", i pianeti, gli aspetti, le case...

     Eppure queste rassicuranti ’credenze’ o teorie, diciamo convinzioni, non sempre penetrano in profondità, nel ’sottosuolo’del nostro essere, dove fantasmi e vaghi sensi di colpa continuano ad aggirarsi come ’ombre di Banco’: ci sono persone che non cessano di interrogarsi sul senso della propria esistenza, sul perché sia toccato proprio a loro quella sorte e non un’altra. E lo chiedono ai libri, ai Maestri, spesso a una psicoterapia, talvolta allo psicoanalista. Il quale pur navigato e ’creativo’ che sia, non può certo proporsi di intercedere per loro presso il Buon Dio, o di modificare il DNA del singolo paziente, né i suoi dati anagrafici, zodiacali o economico-sociali; non gli resta che scommettere sulla libertà del paziente, come a suo tempo ha scommesso sulla propria.

     Se poi ci sia un destino della Specie, o del nostro pianeta, o dell’intero universo, be’, questo è un interrogativo che riguarda la religione, o la scienza (la grande ricerca teorica alla Einstein o alla Planck, tesa anch’essa a carpire, per altre vie, i segreti primi e ultimi della materia vivente ossia del Creato); e poiché la psicoanalisi non è né l’una né l’altra, possiamo dire che ogni singolo – paziente o terapeuta – è libero di abbracciare o sposare questa o quella "soteriologia cosmica", libero persino di mantenersi neutrale e avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma le domande che riguardano il senso di una singola vita umana non possono essere respinte al mittente quando a porcele è il paziente. Non solo perché per lui sono vitali, ma anche perché sono quelle che stanno all’origine della nostra scelta di vita.

     La risposta in termini deterministici e meccanicistici che viene dalle scienze del comportamento ferisce la nostra sensibilità: ci sentiamo ridotti, limitati, sviliti. Sentiamo che la nostra dimensione umana non può riconoscersi in quel profilo d’automa che, se ben programmato, darà certe risposte piuttosto che altre, tutte comunque prevedibili, riproducibili.

     Vi è una ricerca di senso, che certo non ci dispensa dal chiederci che cosa sia una ’personalità’, giacché in primis l’individuo – e qui anticipiamo un argomento che verrà ripreso più oltre – è quell’essere che si interroga sul fondamento stesso della propria esistenza, un essere che deve prender posizione nei confronti di se stesso e del mondo. È per questo che la psicoanalisi, che basa i suoi assunti sullo studio del profondo, non è una psicologia delle ’cause’, ma si qualifica come una psicologia dei significati e del senso.

     Ma una volta definitosi come quell’essere che può pronunciarsi su se stesso ancor prima che sul mondo, non è impresa facile per l’uomo raggiungere una posizione stabile dalla quale guardare con serenità e fiducia a se stesso e alla propria esistenza: non è facile assicurarsi quel "centro di gravità permanente", come suona una nota canzone, raggiunto il quale l’esistenza si illumina di senso. È la massima aspirazione dell’uomo, quella che ci viene narrata da tutti i miti di ogni tempo, ed è la promessa di tutte le dottrine soteriologiche.



Bibliografia

Carotenuto, A., Breve storia della psicoanalisi, Bompiani, Milano, 2002

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