Disturbi del comportamento
Con disturbo del c. ci si riferisce a un costrutto che ha subito una continua trasformazione concettuale nella storia della neuropsichiatria. Tra i disturbi del c. vengono annoverati i disordini alimentari (anoressia, bulimia); le condizioni di dipendenza da sostanze (quali l'alcol, il tabacco) o da stimoli comportamentali (gioco d'azzardo, lavoro, Internet); alterazioni dell'umore (per es., gli stati depressivi); condizioni di sofferenza soggettiva variamente classificabili come nervosismo, stress o ansia. Un quadro di riferimento teorico, di cui la moderna psichiatria si avvale per l'interpretazione e il trattamento dei disturbi del c., è la prospettiva evoluzionistica. L'evoluzionismo si pone come una teoria generale del c. in grado di spiegare eziologia, patogenesi, diagnosi e terapia dei disturbi del c., aspetti adattivi e maladattivi dei sintomi e delle sindromi, tramite integrazione di una pluralità di orientamenti teorici. L'approccio innovativo della moderna psichiatria evoluzionistica o darwiniana consiste nel focalizzarsi sulle capacità funzionali del malato oltre che sui sintomi, e l'intervento terapeutico mira ad aiutare la persona a raggiungere gli scopi biologici. La teoria evoluzionistica, dalle sue origini, ha subito rilevanti sviluppi. Inizialmente, fin dalla prima esposizione nel 1859, l'applicazione dei concetti evoluzionistici al c. umano fu accolta con notevole scetticismo. Negli anni Trenta del 20° sec., a partire dai lavori di tre dei padri fondatori del moderno pensiero evoluzionistico (R. Fisher, J.B.S Haldane e S. Wright), ai quali si deve il primo tentativo di integrare la teoria della selezione naturale con la genetica, che segnò l'inizio della corrente del neodarwinismo, si svilupparono un gran numero di ricerche che condizionarono lo sviluppo della teoria medesima. Negli anni Sessanta la teoria evoluzionistica consisteva in un complesso sistema teorico che si avvaleva di formulazioni matematiche, di ipotesi verificabili e dell'integrazione dei contributi di diverse discipline, quali, per es., l'antropologia, l'etologia e le scienze naturali. A partire da questo periodo, la possibilità di applicare la teoria dell'evoluzione al c. umano si concretizzò, dando origine a molteplici studi sperimentali. Gli studi psichiatrici di orientamento evoluzionistico condotti tra gli anni Sessanta e Ottanta possono essere sintetizzati in due filoni. Nella prima categoria rientrano gli studi che ponevano l'enfasi sull'osservazione diretta del c., tramite il metodo etologico, in soggetti ospedalizzati per comprendere funzioni e cause dei disturbi fondamentali. Tali ricerche sono andate incontro a una serie di limiti e difficoltà metodologiche che ne hanno limitato l'applicazione. Il secondo filone di studi poneva l'enfasi sull'uso dei concetti evoluzionistici, come selezione naturale, adattamento, funzione, altruismo reciproco, tratti, apprendimento e cultura, per spiegare condizioni e disturbi psichici. Gli strumenti della scienza moderna erano sempre più frequentemente applicati allo studio dei disturbi mentali, e in un clima di generale ottimismo, nasceva la convinzione che i disturbi del c. potessero essere addirittura debellati. Nonostante tali ottimistiche previsioni siano state smentite, le ipotesi con le quali la teoria evoluzionistica spiega il c. umano si sono nel tempo perfezionate, sono state sviluppate nuove tecniche terapeutiche e di ricerca e modelli teorici continuano a proliferare. Secondo la teoria evoluzionistica del c. di McGuire e Troisi (1998), l'idea che l'evoluzione avrebbe dovuto condurre alla scomparsa dei disturbi mentali, in quanto non adattivi, si basa su un'erronea interpretazione del concetto di evoluzione come processo che mira inevitabilmente alla perfezione; di conseguenza l'assunto secondo cui il processo evolutivo avrebbe dovuto necessariamente garantire all'Homo sapiens la condizione di sanità mentale non sembra accettabile. Mentre la spiegazione dell'origine dei disturbi del c. secondo la psichiatria evoluzionistica classica è che le malattie mentali sarebbero il prodotto del conflitto tra condizioni di vita ed eredità filogenetiche, riproponendo il tema classico del contrasto tra natura e cultura e dell'effetto patogeno dell'organizzazione innaturale del vivere contemporaneo, la psichiatria darwiniana di McGuire e Troisi spiega l'esistenza dei disturbi del c. attraverso una varietà di ipotesi. In particolare, sulla base della constatazione che l'evoluzione non è un processo che necessariamente conduce alla totale armonia tra organismi e ambiente, i disturbi del c. non possono essere concepiti come una caratteristica esclusiva dell'uomo. La teoria evoluzionistica del c. rappresenta un quadro di riferimento che consente l'integrazione di molti aspetti dei modelli psichiatrici dominanti, superando il pluralismo concettuale, e appare in grado di interpretare gli stati normali e patologici, di guidare la ricerca fornendo ipotesi eziologiche verificabili, e infine di orientare l'intervento clinico. Secondo la teoria di McGuire e Troisi i sistemi comportamentali assolvono tre funzioni critiche: a) rappresentano il mezzo principale per interpretare il c. sia negli individui sani sia negli individui con patologie; b) sono alla base delle classificazioni dei disturbi mentali al fine di operare un'analisi causale; c) orientano la pianificazione degli interventi terapeutici. Nell'uomo vi sono almeno quattro sistemi comportamentali risultanti dall'evoluzione della specie: sopravvivenza, riproduzione, aiuto tra consanguinei e altruismo reciproco. Tali sistemi hanno vinto la selezione naturale poiché idonei a reagire alle pressioni selettive presenti nell'ambiente. I sistemi comportamentali interagiscono tra loro in modo reciproco: per es., un c. finalizzato alla riproduzione viene interrotto se compare un pericolo per la sopravvivenza. Inoltre, i c. integrati in un dato sistema influenzano anche la funzionalità degli altri sistemi: per es., lo sviluppo di relazioni basate sull'altruismo reciproco aumenta le probabilità di sopravvivenza dell'individuo. Questa teoria si fonda sull'ipotesi che la selezione favorisca sistemi in grado di produrre pattern comportamentali integrati e che l'evoluzione abbia raffinato le capacità di analisi delle informazioni da parte del cervello umano, consentendo un'elaborazione complessa di simboli. Secondo McGuire e Troisi, la maggior parte dei c. umani può essere compresa nell'ambito di tali sistemi. Gli autori dividono ogni sistema comportamentale in quattro componenti, dette infrastrutture: motivazioni, sistemi automatici, algoritmi e capacità funzionali. Le motivazioni o scopi sono le condizioni essenziali perché si verifichi il comportamento. I sistemi automatici e gli algoritmi traducono le motivazioni in strategie comportamentali e mediano il c. attraverso le capacità funzionali che a loro volta permettono di attuarlo. Quest'ultimo avrà successo o meno nel conseguire gli scopi biologici in base alle capacità funzionali dell'individuo e alle contingenze ambientali, e il monitoraggio del processo e dei suoi esiti può comportare modifiche alle infrastrutture del sistema. Il c. manifesto è la risultante delle interazioni tra le infrastrutture e tra le infrastrutture e l'ambiente. Alcuni tratti comportamentali, selezionati in quanto adattativi nelle società umane ancestrali, vengono classificati come disturbi del c. nella società contemporanea in quanto predispongono a risposte disadattative nel contesto delle relazioni sociali. Quindi, l'approccio evolutivo implica che un criterio essenziale per distinguere tra salute e malattia mentale sia una valutazione della funzionalità di una particolare strategia comportamentale rispetto a un contesto. L'approccio evoluzionistico al disagio mentale considera i tratti fenotipici umani, inclusi quelli comportamentali, come plasmati da pressioni selettive e derive genetiche, quindi un disturbo psicopatologico può avere cause prossime e cause ancestrali. La teoria dell'evoluzione di McGuire e Troisi consiste in una teoria della motivazione, che postula l'esistenza di sistemi alla base dell'analisi delle informazioni e dell'esecuzione dei c. (infrastrutture); in una teoria delle capacità funzionali e delle interazioni tra geni, c. e ambiente; in una teoria dei tratti, della loro variabilità e dell'influenza delle informazioni genetiche sui tratti stessi. Per quanto riguarda i tratti comportamentali, è indubbio che un gran numero di c. socialmente rilevanti (per es., la riproduzione, ma anche la gestione delle relazioni sociali) sono geneticamente determinati. I fattori genetici, combinandosi con la definizione dei tratti operata dall'ambiente di appartenenza, determinano la variabilità individuale dei tratti. In alcuni casi, il ruolo dell'esperienza risulta prioritario, in altri casi secondario rispetto all'influenza dei tratti che sono frutto dell'evoluzione. Una comprensione approfondita del c. umano e dei sistemi che lo controllano richiede che i concetti di tratto, di variabilità dei tratti, di apprendimento e di contesto sociale siano parte dell'equazione esplicativa. Dunque, si tratta di un approccio multidimensionale allo studio dei disturbi del c.: la prima dimensione è rappresentata dai tratti geneticamente determinati; la seconda dalle differenze interindividuali; la terza dalle contingenze ontogenetiche che influenzano l'espressione, la definizione, la plasticità e l'utilizzo dei tratti; la quarta dall'ambiente fisico e sociale; la quinta dai c. degli altri individui. Secondo la teoria dell'evoluzione, il c. sia normale sia patologico, viene compreso alla luce di questa multidimensionalità, e le interpretazioni dei disturbi fornite dai modelli prevalenti della psichiatria contemporanea vengono concepite come limitate, in quanto unidimensionali.
Il progresso delle neuroscienze ha aperto nuove prospettive per lo studio del c. umano, permettendo di precisare la localizzazione anatomica e funzionale dei sistemi del c. a livello del sistema nervoso. La corteccia cerebrale umana può essere divisa in cinque aree funzionali che costituiscono uno spettro di differenziazione architettonica e specializzazione funzionale: l'area dorso-parieto-frontale per l'orientamento spaziale, il circuito limbico per la memoria e le emozioni, l'area perisilviana per il linguaggio, il circuito ventro-occipito-temporale per il riconoscimento di volti e di oggetti, l'area prefrontale per le funzioni esecutive e la coordinazione del c. (Mesulam 2000). Inoltre, gli studi dimostrano la presenza di un certo grado di specificità nei pattern delle alterazioni cerebrali associate con le maggiori sindromi psichiatriche, e hanno osservato che il substrato neuroanatomico può cambiare notevolmente in seguito all'evoluzione della malattia. Quindi, lo studio dei disturbi del c. e del loro decorso può essere considerato anche in riferimento alle modificazioni strutturali e funzionali che avvengono nel cervello. In psichiatria, l'espressione 'disturbo del c.' è stata inizialmente utilizzata per descrivere una varietà di fenomeni, in seguito ha lasciato spazio a terminologie e classificazioni nosografiche più precise, ed è stata infine utilizzata sempre più frequentemente per descrivere sintomi non cognitivi nelle malattie neurologiche. Infatti, l'interesse clinico e di ricerca nell'ambito delle neuroscienze si è concentrato non soltanto sui deficit cognitivi o motori delle sindromi neurologiche, ma anche sulle loro manifestazioni comportamentali e psicologiche. Nei pazienti con malattie neurologiche, infatti, si manifestano con estrema frequenza disturbi del c., in particolare depressione, apatia, ansia, aggressività, irritabilità e labilità dell'umore, disturbi del sonno e dell'appetito, sintomi psicotici (deliri e allucinazioni), disinibizione ed euforia. È documentato che queste manifestazioni comportamentali compromettono l'esito riabilitativo (Gainotti, Antonucci, Marra et al. 2001) e possono esacerbare il deficit cognitivo.
I disturbi comportamentali nelle sindromi neurologiche
Demenza. - Con il termine demenza ci si riferisce a una sindrome degenerativa che colpisce il Sistema Nervoso Centrale, che si manifesta in genere alle soglie della terza età e le cui cause sono multifattoriali e ancora in parte sconosciute. Tale disturbo neurodegenerativo presenta sia manifestazioni cognitive sia comportamentali. Tra le demenze primarie più diffuse vi sono la demenza di Alzheimer (AD), la demenza frontotemporale (FTD) e la demenza a corpi di Lewy (DLB). Ci si occuperà primariamente dell'AD poiché la sua prevalenza è nettamente superiore alle altre forme di demenza (80-90%, a seconda delle ricerche). I criteri diagnostici DSM-iv e NINCDS-ARDRA per la demenza di Alzheimer (v.), sono fondamentalmente basati sull'evidenza di un deterioramento che coinvolge diversi ambiti cognitivi, innanzitutto una compromissione della memoria, accompagnata da uno o più deficit delle funzioni corticali (afasia, agnosia, aprassia, funzioni esecutive). Tali deficit devono essere talmente gravi da interferire con l'autonomia funzionale del soggetto. L'interesse clinico degli studiosi delle demenze si è concentrato per molti anni soltanto sui deficit cognitivi, trascurando gli aspetti comportamentali. Soltanto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si è riacceso l'interesse per gli aspetti clinici non cognitivi della demenza, per cui sono stati messi a punto strumenti che sono idonei per la valutazione dei sintomi comportamentali, fino ad arrivare alla definizione di Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia (BPSD) da parte dell'International Psychogeriatric Association.
I principali sintomi riportati nelle diverse ricerche sono: depressione, apatia, ansia, c. motorio aberrante, irritabilità, ritiro sociale. Dalla metà degli anni Novanta, molti studi hanno esaminato la questione dei BPSD e dei loro aspetti epidemiologici con risultati non sempre consistenti. Esistono infatti ancora controversie sulla reale prevalenza dei BPSD, stimata intorno al 50-80% nei pazienti con AD; mentre, nei pazienti in fase avanzata della malattia, una percentuale superiore all'80% presenta tre o più sintomi comportamentali. Inoltre, non è stato ancora raggiunto un accordo sulla frequenza e severità dei BPSD in pazienti con diverso grado di gravità della malattia e nei pazienti affetti da diverse forme di demenza. Alla base di tale discordanza vi sono impostazioni metodologiche eterogenee, strumenti diagnostici differenti e popolazioni di riferimento diverse dalla popolazione reale, in quanto selezionate in reparti geriatrici o in centri di ricerca. I dati presenti in letteratura non consentono quindi di ricavare un quadro preciso sulla fenomenologia dei BPSD e la loro patogenesi. Secondo alcune classificazioni, i disturbi neuropsichiatrici propri della AD si manifestano nei seguenti clusters: depressione, psicosi, mancanza di autocontrollo, irritabilità/agitazione, sintomi vegetativi, aggressività, apatia e labilità affettiva. Attraverso un'analisi di correlazione tra i sintomi, uno studio (Lyketsos, Lopez, Jones et al. 2002) suggerisce che la popolazione demente possa essere classificata in tre gruppi: a) pazienti senza BPSD (40%); b) pazienti con un solo sintomo comportamentale (20%); c) pazienti con prevalente sintomatologia psicotica (28%). Questa classificazione può sembrare semplicistica, ma può essere utile per il clinico al fine di attuare opportune strategie di intervento. Per quanto riguarda la depressione, la sua prevalenza varia enormemente tra i vari studi (0-86%) per i seguenti motivi: i sintomi depressivi spesso sono non persistenti, i familiari tendono a sovrastimare rispetto al paziente i sintomi depressivi, l'apatia viene spesso confusa con la depressione, non vengono soddisfatti i criteri DSM-iv per il disturbo depressivo maggiore e sia i sintomi sia il decorso clinico della depressione della AD differiscono da quanto proposto dai criteri DSM-iv. Inoltre, i pazienti con AD che presentano sintomi depressivi, hanno una maggiore incidenza di anomalie comportamentali rispetto ai soggetti con depressione primaria. Uno studio longitudinale della durata di sette anni, su un gruppo di soggetti oltre i 65 anni senza evidenza clinica di AD, suggerisce che il livello di gravità della depressione è associato a un maggiore rischio di sviluppare la demenza e a una maggiore gravità di declino cognitivo. Inoltre, la presenza di depressione incrementa il rischio di sviluppare una sintomatologia delirante nei soggetti con AD. L'utilizzo di criteri specifici per la depressione nelle demenze risolverebbe il problema della validità diagnostica e dell'ampia variabilità dei dati di prevalenza nei vari studi. Umore elevato ed euforia, seppur presenti in ridotta percentuale nei pazienti con AD, sono oggetto di indagine in quanto i soggetti con diagnosi di demenza sono a elevato rischio di manifestazioni depressive e maniacali, e spesso vengono ospedalizzati a causa di tali sintomi. Per quanto concerne i disturbi d'ansia, la loro incidenza è compresa tra il 40 e il 60% e sono particolarmente frequenti nelle fasi precoci di AD. Nella diagnosi differenziale bisogna tenere distinta la dimensione dell'agitazione psicomotoria. Nei pazienti con AD l'agitazione psicomotoria ha un tasso di prevalenza abbastanza elevato (fino al 77% dei casi). Nelle fasi iniziali della malattia può anche essere una manifestazione secondaria a sintomi d'ansia. La sua prevalenza dipende strettamente dalle modalità di definizione e valutazione. Possono essere c. particolarmente disturbanti e causa di disabilità severa l'aggressività fisica, quella verbale e il c. fisicamente non aggressivo, che è il più comune e può essere riscontrato in tutte le fasi della malattia. Inoltre, molto frequente è l'aggressione fisica descritta nel 16-34% dei casi. Vi sono alcuni fattori predittivi delle potenzialità aggressive dei pazienti con AD: storia premorbosa di aggressività, relazioni premorbose problematiche tra paziente e caregivers ed elevato numero di problematiche sociali e internistiche. Più controverso è il rapporto tra aggressività e manifestazioni psicotiche soprattutto di natura delirante, in quanto esistono studi che non mettono in luce alcuna relazione tra psicosi e c. aggressivo in soggetti con AD, mentre esistono evidenze che le allucinazioni possono favorire il c. aggressivo. Anche riguardo alla relazione tra aggressività e genere i risultati sono discordanti, mentre esiste concordanza tra aggressività e fasi della malattia. Usualmente, soggetti giovani all'esordio della malattia sono a maggior rischio di c. aggressivo. Alcuni studi, partendo dall'ipotesi che possa esistere un'alterazione serotoninergica nei soggetti con AD, suggeriscono che i livelli di aggressività e irritabilità in soggetti con AD e deficit cognitivo severo sono correlati con indici di attività serotoninergica centrale. L'agitazione psicomotoria, oltre a essere particolarmente frequente nei soggetti con AD, è abbastanza stabile e ciò suggerisce che il suo trattamento deve essere prolungato nel tempo. Secondo alcuni autori, l'agitazione potrebbe essere predittiva di un più rapido declino cognitivo e funzionale nella AD. Altra problematica sociale appartenente all'area dell'agitazione psicomotoria è il vagabondaggio o c. motorio aberrante, che è stato riscontrato nel 10-60% dei soggetti con AD, e rappresenta una delle problematiche più disturbanti per i caregivers e una delle più comuni cause di disabilità. La reazione catastrofica o aumentata reattività a eventi a contenuto emotivo, si manifesta con ansia, aggressività, ideazione paranoide e pianto eccessivo, ed è frequente nei pazienti con AD. Per quanto riguarda i sintomi psicotici, il tasso di prevalenza si attesta tra il 10% e il 73%, con maggiore presenza nei soggetti con demenza di gravità moderata. In realtà non esistono evidenze univoche che vi sia una relazione tra severità della sintomatologia psicotica e del deficit cognitivo. I disturbi del sonno si presentano nella AD con un tasso di incidenza fino al 70% e sono una delle cause maggiori di istituzionalizzazione e disabilità. Sul piano psicosociale vi è una diminuita risposta a stimoli ambientali e sociali e modificazioni dell'umore che possono essere la causa primaria dell'insonnia. Inoltre, è stata riportata una modificazione dei ritmi sonno-veglia. Riguardo ai disturbi dell'alimentazione, l'anoressia o una diminuzione meno grave di appetito sono frequenti, mentre l'iperfagia è stata descritta nel 10% circa dei pazienti con AD. Anche in questo caso bisogna tener presente che i disturbi dell'alimentazione possono essere secondari a disturbi concomitanti come la depressione. Per quanto concerne il c. sessuale, diminuzione del desiderio sessuale o ipersessualità sono stati descritti nei pazienti con AD. L'ipersessualità si manifesta in meno del 10% dei casi e spesso nelle fasi iniziali della malattia; è un sintomo fortemente disturbante per i caregivers e una delle principali cause di disabilità. Uno dei disturbi del c. più frequente è l'apatia, presente in un'elevata percentuale di pazienti e in tutti gli stadi della malattia, dall'esordio alle fasi terminali. L'apatia in realtà si configura più come sindrome che come sintomo e la diagnosi differenziale tra apatia e sintomatologia depressiva è difficile, essendo frequente la possibilità di confusione diagnostica, con ripercussioni sul trattamento e quindi sulla prognosi. I caregivers dei pazienti con AD descrivono l'apatia come il sintomo comportamentale più disturbante, inoltre è stato dimostrato che i pazienti con AD che mostrano apatia hanno una compromissione cognitiva maggiore dei pazienti senza apatia, e tale differenza è specifica per le funzioni esecutive. Uno studio, condotto, tra gli altri, da G. Spalletta, L. Serra, R. Perri, ha evidenziato che nei pazienti con AD l'apatia è il principale predittore di disabilità. In particolare, in un gruppo di 91 soggetti con diagnosi di AD probabile è stata effettuata una analisi della regressione stepwise con il punteggio del Barthel Index (BI) come variabile dipendente e una serie di variabili sociodemografiche, comportamentali e cognitive come variabili indipendenti. In tale studio il punteggio del BI ha una capacità di predire la disabilità nettamente superiore rispetto sia alle variabili cognitive sia ad altre variabili comportamentali e sociodemografiche. Questo risultato rafforza l'ipotesi che la dimensione comportamentale, e in particolare l'apatia, sia la causa principale di disabilità nei soggetti con AD e sia l'unico sintomo che appare in associazione con la progressione della malattia. Mentre i sintomi cognitivi presentano un progressivo peggioramento durante il corso del processo dementigeno, i sintomi psicologici e comportamentali hanno un andamento fluttuante, per cui possono apparire in una fase sia precoce sia tardiva (Spalletta, Baldinetti, Buccione et al. 2004). Infatti, i sintomi comportamentali propri dell'AD si differenziano da quelli dei pazienti psichiatrici e con pesudo-demenza in quanto vi è un'estrema fluttuazione dei sintomi, i quali sono meno frequenti e, nel caso dei sintomi psicotici, i deliri sono instabili e non strutturati, con prevalenza di deliri di persecuzione e misidentificazioni. Poiché le manifestazioni cliniche dei BPSD nei pazienti AD sono eterogenee e indipendenti dai sintomi cognitivi, la loro individuazione in gruppi correlati e una corretta valutazione è estremamente importante per avere indicazioni prognostiche e stabilire il trattamento farmacologico. Farmaci come gli inibitori dell'acetil-colinesterasi o la rivastigmina, per es., alleviano in maniera più o meno selettiva alcuni di questi sintomi. Poiché sintomi cognitivi e comportamentali sono dimensioni indipendenti, verosimilmente nelle loro patogenesi saranno implicati diversi sistemi neurobiologici e dovranno essere usati diversi approcci terapeutici. I sintomi comportamentali si manifestano in maniera clinicamente polimorfa nelle varie fasi della malattia e possono essere presenti già nella fase preclinica della demenza. In generale, per 'fase preclinica della demenza' si intende un periodo di malattia che precede l'insorgenza di sintomi e segni clinici. Esistono in letteratura numerose categorie utilizzate per definire questa fase di transizione, ma l'espressione più utilizzata per descrivere la fase preclinica della demenza è Mild Cognitive Impairment (MCI). I criteri per la diagnosi di MCI sono i seguenti: a) disturbo soggettivo di memoria (preferibilmente confermato da un familiare); b) presenza di deficit di memoria documentato da un test di memoria episodica; c) assenza di altri deficit cognitivi; d) normale abilità nelle attività della vita quotidiana; e) assenza di demenza; f) assenza di altre condizioni morbose che possano spiegare il disturbo di memoria. L'inclusione dei disturbi del c. come dimensione associata al MCI è stata un passo allo stesso tempo difficile e fondamentale in quanto alcuni studi non prendevano affatto in considerazione tale dimensione, o soltanto come fattore confondente la diagnosi di MCI. Studi successivi hanno migliorato la comprensione dei disturbi psichici e comportamentali nei pazienti con MCI; alcuni suggeriscono che i sintomi depressivi nei soggetti con MCI possono essere un fattore di rischio per lo sviluppo della demenza. Lo studio di Lyketsos e dei suoi colleghi (2002) conferma che la prevalenza dei sintomi non cognitivi in soggetti con MCI è particolarmente elevata: il 50% dei soggetti valutati presenta almeno un sintomo non cognitivo all'esordio dei sintomi cognitivi. Al momento della valutazione, i sintomi più frequenti sono la depressione (20%), l'apatia (15%) e l'irritabilità (15%). In tale studio di popolazione, gli autori concludono che anche nella fase preclinica della demenza, i sintomi comportamentali compromettono il funzionamento dell'individuo e ipotizzano che un trattamento di sintomi dovrebbe essere preso in considerazione quando necessario. Dunque, i disturbi del c. sono presenti frequentemente in soggetti con diagnosi di MCI, la loro manifestazione può precedere il deficit cognitivo e possono essere un fattore di rischio per il suo sviluppo. Concludendo, nei pazienti con AD le modificazioni di personalità esistono quasi invariabilmente e spesso sono un indice precoce della malattia; inoltre possono peggiorare con l'aumento del declino cognitivo.
Morbo di Parkinson. - Le malattie del sistema extrapiramidale sono spesso associate a disturbi cognitivi e neuropsichiatrici. Tra le principali patologie associate a disfunzione extrapiramidale vi sono il morbo di Parkinson, la demenza a corpi di Lewy e la paralisi sopranucleare progressiva. Tali sindromi, caratterizzate da prevalenti disturbi del movimento che, a seconda della malattia, possono essere di natura ipercinetica, ipocinetica o atassica, colpiscono prevalentemente le strutture sottocorticali come i gangli della base, il talamo e i nuclei rostrali del tronco encefalico, e le proiezioni di questi nuclei a livello del lobo frontale. Le principali caratteristiche neuropsichiatriche comprendono rallentamento psicomotorio o bradifrenia, compromissione delle funzioni esecutive, deficit di recupero mnestico, alterazioni visuospaziali, disturbi dell'umore e della motivazione e talora sintomi psicotici. In questa sede ci si occuperà principalmente del morbo di Parkinson, malattia degenerativa a eziologia ignota che colpisce primariamente i nuclei pigmentati del tronco encefalo determinando una sintomatologia caratterizzata da bradicinesia, rigidità e tremore a riposo. Esordisce generalmente tra i 50 e i 65 anni ed è maggiormente prevalente tra gli uomini che tra le donne. Nel 40% circa dei casi il morbo di Parkinson si associa a demenza conclamata, caratterizzata da: deficit di memoria, come richiamo spontaneo e acquisizione di nuove capacità (memoria procedurale); deficit visuospaziali; disturbi della funzione esecutiva come formazione di concetti, formulazione di strategie e flessibilità connessa al cambiamento di contesto (Cummings, Benson 19922). I disturbi del c. e neuropsichiatrici possono essere un sintomo integrante della malattia o una conseguenza del trattamento antiparkinsoniano. Sintomi depressivi sono presenti nel 40-60% dei casi e si configurano come intrinseci alla malattia e preesistenti all'esordio dei sintomi motori, indicando che il disturbo dell'umore non è soltanto una reazione alla disfunzione motoria né al trattamento farmacologico. Mentre la metà dei pazienti con morbo di Parkinson soddisfa i criteri per la diagnosi di un episodio depressivo maggiore, l'altra metà presenta sintomi di distimia più lievi. In particolare, sembra emergere un quadro di disforia priva di consapevolezza con autoaccusa, ansia e ideazione suicidaria; mentre vi è una bassa frequenza di sintomi psicotici. Dati di ricerca dimostrano che i sintomi depressivi sono predittori importanti di mortalità nella malattia di Parkinson. Inoltre, può emergere c. maniacale in seguito alla terapia con levo-dopa. Altre complicanze comportamentali legate alla terapia antiparkinsoniana comprendono allucinazioni, deliri, compromissione attentiva, disturbi dell'umore, ansia, alterazioni del c. sessuale.
Malattia cerebrovascolare. - La malattia cerebrovascolare può essere definita come un deterioramento anatomopatologico della parete dei vasi ematici che perfondono il Sistema Nervoso Centrale. Tra i meccanismi tramite i quali si verifica la sofferenza del parenchima cerebrale vi sono l'ischemia, la trombosi arterosclerotica, l'embolia cerebrale e l'emorragia. Il risultato è un improvviso deficit neurologico o un ictus (Adams, Victor 1983). Alcuni disturbi emozionali si associano a vasculopatie cerebrali. Tra queste forme, il quadro clinico che è stato oggetto di maggiori studi è la depressione poststroke (Robinson 2003). La depressione, infatti, si verifica nel 30-50% dei casi in seguito a un ictus acuto. I pazienti colpiti da stroke, con depressione più accentuata, presentano una maggiore durata di malattia e una prognosi più sfavorevole. Infatti, nei pazienti con stroke la depressione rappresenta un ostacolo per la riabilitazione (Gainotti, Antonucci, Marra et al. 2001). Oltre a ciò, i soggetti depressi in generale presentano un'aumentata probabilità di essere colpiti da un ictus, in quanto la depressione si configura come uno specifico fattore di rischio di stroke, e ciò può valere anche per altre malattie neurologiche (Robinson 2003). Inoltre, il trattamento della depressione migliora notevolmente il recupero delle attività della vita quotidiana e la compromissione cognitiva, e diminuisce il tasso di mortalità. Sono stati identificati due fattori in relazione alla depressione poststroke: il trattamento con farmaci antidepressivi e la localizzazione della lesione. La depressione poststroke si associa significativamente a lesioni frontali sinistre e dei gangli della base a sinistra; presenta un decorso naturale di 9-10 mesi e la localizzazione della lesione e la gravità dei deterioramenti associati possono influenzare l'evoluzione longitudinale. Talvolta, seppure con ridotta frequenza, i disturbi maniacali possono essere associati a stroke. Tali sintomi rappresentano una complicanza rara dell'ictus e appaiono associati in maniera significativa a lesioni emisferiche destre che coinvolgono la corteccia orbito-frontale, temporo-basale, il talamo e i gangli della base. I disturbi bipolari si associano a lesioni sottocorticali dell'emisfero destro, mentre lesioni corticali destre inducono la comparsa di mania senza depressione. Più frequenti appaiono i disturbi d'ansia, nella maggior parte dei casi associati a depressione. I sintomi psicotici sono complicanze rare dello stroke. Le allucinazioni si associano a lesioni temporo-parietali destre, atrofia sottocorticale e crisi comiziali. La reazione catastrofica non è correlata alla gravità del deficit, ma può essere un sintomo della depressione maggiore poststroke, come alterazione del controllo delle manifestazioni affettive. Essa si associa a lesioni sottocorticali anteriori. La labilità affettiva è molto comune e può coesistere con la depressione (Robinson 2003). L'apatia, presente nel 20% circa dei pazienti con ictus, si associa in età avanzata a una maggiore compromissione delle attività della vita quotidiana e a lesioni che coinvolgono il braccio posteriore della capsula interna. Infine, si possono verificare anche anomalie della componente affettiva del linguaggio o aprosodia, associata a lesioni emisferiche destre, con coinvolgimento dei gangli basali e della corteccia temporo-parietale.
Sclerosi multipla. - La sclerosi multipla è una delle malattie neurologiche più comuni che colpisce giovani e adulti. Essa è caratterizzata da aree multifocali di demielinizzazione del Sistema Nervoso Centrale. I processi infiammatori rallentano la trasmissione degli impulsi elettrici lungo le connessioni sinaptiche, preservandone comunque la struttura, per cui i sintomi dipendono dalla localizzazione dei focolai infiammatori: possono essere colpite tutte le regioni del Sistema Nervoso Centrale. Un frequente sintomo iniziale è una diminuzione più o meno transitoria del visus a carico di uno o di entrambi gli occhi (neurite del nervo ottico). Altri sintomi frequenti sono la visione sdoppiata (diplopia), disturbi dell'equilibrio e della coordinazione dei movimenti (atassia), tremore, disturbi dell'articolazione delle parole (disartria), paralisi e spasticità muscolari e disturbi della sensibilità, con un'alterazione della sensibilità cutanea spesso accompagnata da formicolio o sensazioni sgradevoli al tatto. Nei primi anni della malattia l'infiammazione spesso regredisce spontaneamente, con un conseguente miglioramento o una remissione completa dei sintomi. Per questa dinamica la forma clinica più frequente è quella a 'ricadute e remissioni'. Con un maggior numero di ricadute le remissioni sono meno complete, a causa di un danneggiamento anche strutturale del tessuto nervoso. In questo modo, in una parte dei pazienti si può manifestare un lento peggioramento anche senza nuove ricadute (decorso secondariamente cronico progressivo). Soltanto una minoranza dei pazienti presenta dalle prime fasi della malattia un peggioramento lento e continuo (decorso primariamente cronico progressivo). Quindi, mentre una parte dei pazienti ha poche ricadute e si stabilizza spontaneamente con scarsi sintomi o nessuno, in altri pazienti la malattia progredisce causando una graduale disabilità con la minaccia di una grave compromissione o perdita della capacità di camminare; si possono verificare, inoltre, difficoltà del controllo della vescica e disturbi della funzione sessuale. Gli studi si sono per lo più focalizzati sui sintomi sensorio-motori e sui deficit cognitivi, in quanto il 10% circa dei pazienti sviluppa nel tempo una forma di demenza sottocorticale e il 40% circa presenta in un qualche momento dell'evoluzione della malattia una compromissione cognitiva nelle aree relative ad apprendimento, memoria e controllo esecutivo. Oltre il 50% dei soggetti affetti da sclerosi multipla mostra evidenti segni di impoverimento cognitivo, ma non si conosce ancora una stima precisa relativa all'evoluzione di questi deficit durante il procedere della malattia. Il deterioramento cognitivo, rilevato dalle misurazioni neuropsicologiche, è in genere relativo alla memoria a lungo termine, all'attenzione, alla velocità dei processi di informazione, al ragionamento astratto, alle funzioni esecutive e alla percezione visuospaziale. Al contrario, l'intelligenza generale, il linguaggio e alcuni aspetti della memoria quali la memoria a breve termine e la memoria implicita, appaiono risparmiati. Un mutamento cognitivo si osserva anche nell'apprendimento uditivo-verbale, nella fluenza verbale, nell'abilità di calcolo. Il deterioramento cognitivo nei pazienti con sclerosi multipla, specialmente in pazienti con la forma recidivante-remittente, appare essere minimo, anche dopo un periodo di tempo molto lungo. Inoltre, un sintomo piuttosto comune è la fatica, che si associa a disturbi dell'attenzione, delle funzioni psicomotorie e del controllo esecutivo. I primi studi trasversali che hanno esaminato la prevalenza e la natura dei disturbi del c. in pazienti con sclerosi multipla sono stati condotti negli anni Venti del 20° secolo. I sintomi comportamentali caratterizzanti la sclerosi multipla appartengono alla sfera emozionale e affettiva, con una vasta gamma di disturbi emotivi, e sono costituiti da mutamenti nell'umore, nell'espressione e nel controllo emozionale. Alcuni studi riportano una prevalenza di euforia nel 63% dei casi, di depressione nel 10%, umore labile nel 23% e indifferenza nel 2% dei pazienti. Altri autori riportano percentuali di 'alterazioni mentali' nel 90% dei casi ed euforia e incontinenza emozionale nel 71%. L'euforia, spesso presente nelle fasi più avanzate del decorso di malattia, appare dissociata dalla consapevolezza della disabilità. Il primo studio longitudinale sui disturbi del c. nella sclerosi multipla risale agli anni Settanta, allo scopo di verificare se le modificazioni nello stato emozionale siano correlate ai mutamenti del decorso clinico. Il risultato innovativo di questi studi è stata la forte correlazione trovata tra euforia e deterioramento intellettuale. Secondo altri studi, al contrario, lo stato affettivo non sembra influire sulle prestazioni cognitive dei pazienti, e in particolare non emerge alcuna correlazione tra depressione misurata, per es., con il Beck Depression Inventory, e deterioramento cognitivo. Permangono molti interrogativi sull'eziologia e l'evoluzione dei sintomi psichiatrici nei pazienti con sclerosi multipla, e sui cambiamenti comportamentali conseguenti all'evolversi della malattia. In particolare, resta aperta la questione se i disturbi della sfera affettivo-comportamentale siano una caratteristica intrinseca alla malattia o una reazione psicologica conseguente all'avanzare di quest'ultima. Sembra che la sintomatologia depressiva, per es., tenda ad aumentare durante le esacerbazioni o durante le fasi di incremento dei processi di demielinizzazione. Alcuni autori ipotizzano che ogni disturbo del Sistema Nervoso Centrale, specialmente cronico-infiammatorio e multilocalizzato, aumenti la probabilità di insorgenza dei sintomi psichiatrici. Per quanto riguarda i fattori che possono incidere sullo sviluppo dei disturbi psichiatrici nella sclerosi multipla, gli aspetti affettivo-comportamentali, in particolar modo la depressione, oltre a essere correlati con fattori organici, sembrano essere anche correlati a fattori sociali, in particolare al livello di stress sociale e di necessità di assistenza, percepito dai pazienti. Alcuni studi si sono occupati di esaminare lo stress psicologico in soggetti con sclerosi multipla, e di collegare fattori psicosociali come lo stress psicologico e la funzione immunitaria. In conclusione, gli aspetti comportamentali nella sclerosi multipla sembrano essere associati alle esacerbazioni e alla progressione della malattia. Una diagnosi preventiva dei mutamenti dello stato affettivo-emotivo che accompagnano le esacerbazioni e l'andamento della sclerosi multipla, effettuata seguendo nel tempo i mutamenti comportamentali parallelamente all'evolversi della malattia, potrebbe avere un notevole valore terapeutico.
Conclusioni
I progressi nell'ambito della neuropsichiatria e delle neuroscienze hanno permesso di pervenire a una visione più completa dei disturbi del c., fenomeni multidimensionali, che dovrebbero essere considerati parte integrante dell'espressione clinica delle malattie neurologiche. Si è sentita l'esigenza di studiare in maniera sempre più approfondita le manifestazioni comportamentali e psicologiche delle sindromi neurologiche più comuni, come demenza di Alzheimer, morbo di Parkinson, ictus e sclerosi multipla. Ciò è dovuto all'estrema frequenza e intensità con cui si manifestano i disturbi del c. nelle malattie neurologiche e ai loro effetti negativi sull'esito riabilitativo, sul deficit cognitivo, sulla compromissione funzionale del paziente. Ulteriore caratteristica associata è lo stress dei caregivers che spesso non permette una procedura diagnostica e terapeutica adeguata a causa delle continue urgenze. Poiché le manifestazioni cliniche dei disturbi del c. sembrano essere indipendenti dai sintomi cognitivi, come nel caso della demenza, essi possono apparire sia in una fase precoce del decorso clinico sia in fasi più tardive. La loro individuazione in gruppi correlati o cluster sintomatologici e una corretta valutazione diagnostica risultano estremamente importanti per migliorare il trattamento e la prognosi delle malattie neurologiche. Questi sono i motivi che permettono di poter affermare che, anche nei pazienti con malattie neurologiche, un'analisi clinica accurata e un trattamento specifico dei disturbi del c. devono essere sempre considerati un momento fondamentale. Un approccio multidimensionale allo studio dei disturbi del c. non può prescindere dalla considerazione dei fattori genetici coinvolti, dalle variabili inerenti all'ambiente fisico e sociale, dalle differenze individuali. L'approccio evoluzionistico ha permesso di concepire i sintomi comportamentali come una forma di adattamento all'ambiente. Allo stesso modo si potrebbero considerare i disturbi del c. propri delle malattie neurologiche come forme di adattamento dell'organismo ai cambiamenti strutturali e funzionali del sistema nervoso. Prospettive di ricerca future si potrebbero focalizzare sullo studio dei processi psicopatologici alla base dei sintomi comportamentali. In particolare, per quanto concerne le sindromi neurologiche, rimane ancora aperta la questione se i disturbi del c. siano intrinseci o reattivi alla malattia stessa, e in quale misura risentano dell'influenza di variabili come l'ambiente di appartenenza o le caratteristiche dei caregivers. In un'ottica evoluzionistica, si potrebbe infine indagare sulla funzione del disturbo per l'organismo affetto da una malattia neurologica. La nuova attenzione alle dimensioni comportamentali in neurologia può permettere di orientare la pianificazione degli interventi terapeutici in un modo più specifico e completo, seguendo il paziente nel tempo per monitorare l'andamento e la fluttuazione dei sintomi comportamentali in relazione al decorso clinico e alla compromissione cognitiva.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it