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Cristianesimo




Molti studiosi si son dichiarati sorpresi di non trovare nello storico Giuseppe alcuna traccia di Gesù Cristo, poiché oggi tutti convengono che il breve passo dove se ne fa menzione nella sua Storia, è un'interpolazione. Il padre di Giuseppe, tuttavia, doveva essere stato uno dei testimoni di tutti i miracoli di Gesù. Giuseppe era di stirpe sacerdotale,
parente della regina Mariamne, moglie di Erode; egli si diffonde in mille particolari su tutte le azioni di quel principe;
tuttavia non dice una parola né della vita né della morte di Gesù. E questo storico, che non dissimula nessuna delle
crudeltà di Erode, non parla affatto del massacro di tutti i bambini da lui ordinato subito dopo avere appreso la notizia
che era nato il re dei giudei. Il calendario greco parla di quattordicimila bambini sgozzati in tale occasione.
Questa, di tutte le azioni compiute da tutti i tiranni, è la più atroce. Non ne esistono di simili nella storia del mondo intero.
Eppure, il migliore scrittore che mai abbiano avuto gli ebrei, il solo stimato dai romani e dai greci, non fa menzione di questo avvenimento tanto singolare quanto spaventoso. Egli non parla nemmeno della nuova stella apparsa
in oriente dopo la nascita del Salvatore: fenomeno straordinario, che non poteva sfuggire a uno storico così bene
informato come Giuseppe. E tace anche delle tenebre che per tre ore, in pieno giorno, avvolsero la terra, alla morte del
Salvatore; e della grande quantità di tombe che si spalancarono in quel momento e della folla di giusti che risuscitarono.
Gli studiosi non finiscono di stupirsi nel vedere che nessuno storico romano ha parlato di questi prodigi, avvenuti sotto l'impero di Tiberio, sotto gli occhi di un governatore romano e di una guarnigione romana, che doveva avere inviato all'imperatore e al senato un rapporto circostanziato del più miracoloso evento di cui gli uomini abbiano
mai sentito parlare. Roma stessa doveva essere rimasta immersa per tre ore nelle tenebre più fitte; un tale prodigio
avrebbe dovuto essere registrato nei fasti di Roma e in quelli di tutte le nazioni. Dio non ha voluto che queste cose divine fossero scritte da mani profane.
Gli stessi studiosi trovano inoltre parecchie difficoltà nella storia dei Vangeli: osservano che, in quello di Matteo, Gesù Cristo dice agli scribi e ai farisei che tutto il sangue innocente versato sulla terra dovrà ricadere su di loro, dal sangue di Abele il giusto, fino a Zaccaria, figlio di Barac, che essi hanno ucciso tra il tempio e l'altare.
Nella storia degli ebrei, dicono, non v'è traccia di alcuno Zaccaria ucciso nel tempio prima della venuta del Messia, né ai suoi tempi; uno Zaccaria compare invece nella storia dell'assedio di Gerusalemme, scritta da Giuseppe (capitolo XIX, libro IV); si tratta di Zaccaria, figlio di Barac, ucciso nel tempio dalla fazione degli zeloti. Perciò costoro
sospettano che il Vangelo secondo Matteo sia stato scritto dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Tito. Ma tutti i
dubbi e tutte le obiezioni di questa specie svaniscono se si considera l'infinita differenza che deve intercorrere tra i libri
ispirati da Dio e i libri degli uomini. Dio ha voluto avvolgere la sua nascita, la sua vita e la sua morte in una nube tanto
venerabile quanto oscura. Le sue vie sono del tutto diverse dalle nostre.
Gli studiosi si sono anche molto agitati sulla differenza fra le due genealogie di Gesù: san Matteo dà come padre a Giuseppe, Giacobbe; a Giacobbe, Mathan; a Mathan, Eleazaro. San Luca, invece, dichiara che Giuseppe era
figlio di Eli; Eli, di Mattat; Mattat, di Levi; Levi di Jannai ecc... Essi non sanno conciliare i cinquantasei antenati che
Luca attribuisce a Gesù, da Abramo in poi, con i quarantadue antenati diversi da quelli che Matteo gli attribuisce, sempre da Abramo in poi. E sono scandalizzati che Matteo, pur parlando di quarantadue generazioni, ne elenchi poi soltanto quarantuno.
Trovano inoltre altre difficoltà nel fatto che Gesù non è figlio di Giuseppe, ma di Maria. Cosi pure avanzano dubbi sui miracoli del nostro Salvatore, citando sant'Agostino, sant'Ilario e altri i quali attribuiscono ai racconti di questi miracoli un senso mistico, un senso allegorico: come a quello del fico maledetto e inaridito perché non aveva frutti, non essendo la stagione dei fichi; dei demoni inviati nei corpi dei maiali, in un paese dove non si allevavano maiali;
dell'acqua mutata in vino alla fine di un banchetto, quando i convitati dovevano averne già bevuto anche troppo. Ma
tutte queste critiche degli studiosi sono confuse dalla fede, la quale proprio per questo ne acquista in purezza. Lo scopo
di questo articolo è soltanto quello di seguire il filo storico, e di dare un'idea precisa dei fatti sui quali nessuno disputa.
Anzitutto, Gesù nacque sotto la legge giudaica, fu circonciso secondo questa legge, ne seguì tutti i precetti, ne celebrò tutte le feste, e predicò soltanto la morale; non rivelò il mistero della sua incarnazione; non disse mai agli ebrei di essere nato da una vergine; ricevette la benedizione di Giovanni nell'acqua del Giordano (cerimonia cui si
sottoponevano molti ebrei), ma non battezzò mai nessuno; non parlò mai dei sette sacramenti, e, finché visse, non istituì nessuna gerarchia ecclesiastica. Nascose ai suoi contemporanei di essere figlio di Dio, generato ab aeterno, consustanziale a Dio, e che lo Spirito Santo procedeva dal Padre e dal Figlio. Non disse mai che la sua persona era
composta di due nature e di due volontà; volle che questi grandi misteri fossero annunciati agli uomini nel corso dei
tempi, da coloro che sarebbero stati illuminati dalla luce dello Spirito Santo. Finché visse, non si discostò in nulla dalla
religione dei suoi padri: si manifestò agli uomini come un giusto, caro a Dio, perseguitato dagli invidiosi e condannato a morte da magistrati ottusi. Volle che la sua Santa Chiesa, istituita da lui, facesse tutto il resto.
Giuseppe, nel capitolo XII della sua Storia, parla di una setta di ebrei rigoristi da poco fondata da un certo Giuda galileo: «Essi disprezzano i mali della terra; trionfano dei tormenti con la loro costanza; preferiscono la morte alla vita, quando la causa è onorevole. Hanno sofferto il ferro e il fuoco, si son fatti spezzare le ossa, piuttosto di
pronunziare la minima parola contro il loro legislatore, o di mangiare carni vietate.»
Sembra che questo passo si riferisca ai giudaiti, e non agli esseni. Dice infatti lo stesso Giuseppe: «Giuda fu il
fondatore di una nuova setta, del tutto diversa dalle altre tre, cioè da quella dei sadducei, dei farisei e degli esseni.» E
ancora: «Essi sono stirpe ebrea: vivono uniti tra loro e considerano il piacere fisico come un vizio.» Il senso naturale di
questa frase dimostra che Giuseppe ci parla dei giudaiti.
Comunque sia, questi giudaiti erano già noti prima che i discepoli del Cristo cominciassero a costituire nel mondo un partito considerevole.
I terapeuti erano una comunità diversa dagli esseni e dai giudaiti: somigliavano ai gimnosofisti delle Indie e ai
brahmani. «Costoro,» dice Filone, «sentono un impulso d'amore celeste che li getta nell'entusiasmo delle baccanti e dei
coribanti, e che li mette nello stato di contemplazione cui aspirano. Questa setta ebbe origine in Alessandria, dove gli
ebrei erano numerosissimi, e si diffuse molto in Egitto.»
I discepoli di Giovanni Battista si diffusero anch'essi in Egitto, ma soprattutto in Siria e in Arabia; e ce ne furono anche nell'Asia minore. Negli Atti degli Apostoli (cap. XIX) è detto che Paolo ne incontrò parecchi a Efeso, e domandò loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo?» Essi risposero: «Ma non abbiamo neppur sentito dire che esista uno Spirito Santo.» Egli disse loro: «Con quale battesimo foste dunque battezzati?» Ed essi gli risposero: «Col battesimo di Giovanni.»
Nei primi anni dopo la morte di Gesù c'erano sette società o sètte diverse: i farisei, i sadducei, gli esseni, i giudaiti, i terapeuti, i discepoli di Giovanni e i discepoli di Cristo, di cui Dio guidava il piccolo gregge per sentieri
sconosciuti alla sapienza umana.
Colui che maggiormente contribuì a fortificare questa società nascente fu quello stesso Paolo che con tanta crudeltà l'aveva perseguitata. Era nato a Tarso, in Cilicia, educato dal famoso dottore fariseo, Gamaliele, discepolo di
Hillèl. Gli ebrei pretendono che egli ruppe con Gamaliele quando costui si rifiutò di dargli sua figlia in sposa. Si trova qualche traccia di questo aneddoto in fondo agli Atti di santa Tecla. Questi Atti riferiscono che egli aveva la fronte larga, la testa calva , le sopracciglia unite, il naso aquilino, il corpo corto e robusto, e le gambe storte. Luciano, nel suo
Dialogo di Filopatride, ne fa un ritratto abbastanza simile. È assai dubbio che Paolo fosse cittadino romano, perché a
quei tempi non si concedeva quel titolo a nessuno degli ebrei; essi erano stati cacciati da Roma da Tiberio, e Tarso divenne colonia romana solo cent'anni dopo sotto Caracalla, come riferiscono Cellario nella sua Geografia (libro III), e Grozio nei suoi Commentari sugli Atti.
I fedeli presero il nome di cristiani in Antiochia, verso l'anno 60 della nostra era, ma furono conosciuti nell'impero romano, come vedremo più in là, sotto altri appellativi. Prima si distinguevano solo con il nome di «fratelli», «santi» o «fedeli». Dio, che era sceso sulla terra per offrire un esempio di umiltà e di povertà, diede così alla sua Chiesa i più deboli inizi, e la diresse in quello stesso stato di umiliazione nel quale aveva voluto nascere. Tutti i primi fedeli furono uomini oscuri, tutti lavoravano con le loro mani. L'apostolo Paolo afferma che si guadagnava la vita fabbricando tende. San Pietro risuscitò una donna, Dorcas, che cuciva le vesti dei confratelli. L'assemblea dei fedeli a loppe (Giaffa) si teneva nella casa di un conciatore chiamato Simone, come è detto nel capitolo IX degli Atti degli
Apostoli.
I fedeli si diffusero in segreto attraverso la Grecia, e qualcuno di lì passò a Roma, fra i giudei, cui i romani permettevano di avere una sinagoga. Sulle prime, non si separarono dagli ebrei; conservarono la circoncisione e, come si è già osservato altrove, i primi quindici vescovi di Gerusalemme furono tutti circoncisi.
Quando l'apostolo Paolo prese con sé Timoteo, che era di padre pagano, lo circoncise lui stesso, nella piccola
città di Listra. Ma Tiro, alt ro suo discepolo, non volle sottomettersi alla circoncisione. I fratelli discepoli di Gesù restarono uniti agli ebrei sino al tempo in cui Paolo subì una persecuzione a Gerusalemme per aver condotto degli stranieri nel tempio. Era accusato dai giudei di voler distruggere la legge mosaica in nome di Gesù Cristo. Fu proprio perché fosse scagionato da questa accusa che l'apostolo Giacomo propose all'apostolo Paolo di farsi rasare il capo e di andare a purificarsi nel tempio con quattro giudei, che avevano fatto voto di radersi: «Prendili con te,» gli disse Giacomo (Atti degli Apostoli, cap. XXI), «e fatti purificare con loro. In tal modo tutti capiranno che nessuna delle
notizie apprese nei tuoi riguardi è vera, ma che anche tu cammini nell'osservanza della legge.»
Così Paolo, che da principio era stato il sanguinario persecutore della comunità fondata da Gesù, Paolo, che
volle poi governare quella stessa comunità nascente, Paolo, cristiano, giudaizza, perché tutti sappiamo che lo si
calunnia, quando si dice che è cristiano; Paolo fa ciò che è considerato, oggi, fra tutti i cristiani, un delitto abominevole,
un crimine che viene punito col rogo in Spagna, in Portogallo e in Italia; e fa questo per consiglio dell'apostolo
Giacomo; e dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, ossia dopo essere stato istruito da Dio della necessità di rinunciare a
tutti quei riti giudaici istituiti un tempo da Dio stesso!
Ciò nonostante Paolo fu accusato d'empietà e d'eresia e il suo processo durò a lungo; ma, dalle stesse accuse rivolte contro di lui, risulta chiaro che era venuto a Gerusalemme per osservare i riti giudaici.
Egli disse a Festo queste precise parole (cap. XXV degli Atti): «Non ho commesso alcun reato, né contro la
legge dei Giudei, né contro il tempio.»
Gli apostoli annunciavano Gesù come giudeo, osservante della legge ebraica, inviato da Dio per farla rispettare.
«La circoncisione è utile,» dice l'apostolo Paolo (cap. II, Epistola ai Romani), «Se voi osservate la legge; ma se
la trasgredite, la vostra circoncisione diventa incirconcisione. Se un incirconciso osserva la legge, sarà come circonciso.
Il vero giudeo è colui che è giudeo interiormente.»
Quando questo apostolo parla di Gesù nelle sue Epistole, non rivela affatto il mistero ineffabile della sua
consustanzialità con Dio: «Noi siamo liberati per mezzo suo,» dice (Epistola ai Romani, cap. V), «dalla collera di Dio.
Per la grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, il dono di Dio si è riversato su di noi... La morte ha regnato per colpa di uno
solo; i giusti regneranno nella vita in grazia di un solo uomo, che è Gesù Cristo.»
E, nel capitolo VIII: «Noi, eredi di Dio, e coeredi di Cristo.»
E nel capitolo XVI: «A Dio, che è il solo saggio, onore e gloria attraverso Gesù Cristo.» E: «Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (I Epistola ai Corinzi, cap. III).
E infine (I Corinzi, cap. XV, v. 27) «Tutto gli è sottoposto, salvo indubbiamente Dio, il quale ha assoggettato a lui ogni cosa.»
Si è provata qualche difficoltà nello spiegare questo passaggio della Epistola ai Filippesi: «Non fate nulla per rivalità, nulla per vanagloria; ma con umiltà ciascuno ritenga gli altri migliori di sé; abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù che pure avendo natura di Dio, non giudicò sua rapina l'eguagliarsi a Dio.» Questo passo
risulta perfettamente approfondito e messo in piena luce in una lettera delle chiese di Vienne e di Lione, scritta nel 117, prezioso monumento dell'antichità. In questa lettera è lodata la modestia di alcuni fedeli: «Essi non hanno voluto prendere, per qualche tribolazione patita, il gran titolo di martiri, sull'esempio di Gesù Cristo che, pur avendo natura di Dio, non reputò sua rapina la qualità di essere eguale a Dio.» Anche Origene dice, nel suo Commento a Giovanni, che la
grandezza di Gesù tanto più rifulse quando egli si umiliò, tanto più «che se avesse fatto sua rapina d'essere uguale a Dio». D'altra parte, la spiegazione contraria sarebbe un evidente controsenso. Che mai significherebbe: «Credete gli altri superiori a voi, imitate Gesù, il quale non reputò una rapina, un'usurpazione, l'eguagliarsi a Dio»? Sarebbe evidentemente una contraddizione voler presentare un esempio di superbia per un esempio di modestia: sarebbe peccare
contro il senso comune.
La saggezza degli apostoli fondava su tali basi la Chiesa nascente. E questa saggezza non venne alterata dalla disputa sopravvenuta poi tra gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, da un lato, e Paolo, dall'altro. Tale contrasto
avvenne in Antiochia. L'apostolo Pietro, detto altrimenti Cefa o Simone figlio di Giona, mangiava con i gentili convertiti, e non osservava con loro le cerimonie della legge, né la distinzione delle carni; lui, Barnaba e altri discepoli mangiavano indifferentemente carne di maiale o di animali strozzati o di animali che avevano l'unghia del piede fessa e
non ruminavano; ma essendo arrivati diversi ebrei cristiani, san Pietro tornò con loro all'astinenza delle carni proibite e
alle cerimonie della legge mosaica.
Questa azione sembrava molto prudente: non voleva scandalizzare gli ebrei cristiani suoi compagni; ma san Paolo insorse contro di lui con una certa durezza. «Io gli resistetti,» dice nella sua Epistola ai Galati (cap. II), «perché il suo comportamento era biasimevole.»
Questa disputa sembra tanto più straordinaria da parte di san Paolo, in quanto, essendo stato dapprima un persecutore dei cristiani, avrebbe dovuto essere più moderato, e in quanto lui stesso si era recato a sacrificare nel tempio a Gerusalemme, aveva circonciso il suo discepolo Timoteo, e aveva compiuto quei riti ebraici che ora rimproverava a
Cefa. San Girolamo sostiene che quella lite fra Paolo e Cefa era finita. Egli dice nella prima delle sue Omelie, tomo III, che essi fecero come due avvocati che si scaldano e si tirano stoccate in tribunale per avere maggiore autorità sui loro clienti; e che, Pietro Cefa essendo destinato a predicare agli ebrei e Paolo ai gentili, finsero di litigare, Paolo per
conquistare i gentili, e Pietro gli ebrei. Ma sant'Agostino non è affatto di questo avviso: «Mi dispiace,» scrive nella sua
Epistola a Gerolamo, «che un così grande uomo si faccia patrono della menzogna, patronum mendacii.»
Del resto, se Pietro era destinato agli ebrei giudaizzanti e Paolo agli stranieri, è assai probabile che Pietro non
sia mai venuto a Roma. Gli Atti degli Apostoli non fanno nessuna menzione del suo viaggio in Italia.
Comunque, fu verso l'anno 60 della nostra era che i cristiani cominciarono a separarsi dalla comunione giudaica; e questo attirò su di loro una quantità di dispute e persecuzioni da parte delle sinagoghe diffuse a Roma, in
Grecia, nell'Egitto e nell'Asia. Essi furono accusati d'empietà, di ateismo dai loro fratelli ebrei, che li scomunicavano
nelle loro sinagoghe tre volte ogni sabato. Ma Dio li sostenne sempre in mezzo alle persecuzioni.
A poco a poco, si costituirono molte Chiese e la separazione tra ebrei e cristiani divenne completa. Tale separazione era ignorata dal governo romano. Il senato di Roma e gli imperatori non si interessavano alle dispute di una piccola setta che Dio aveva finora guidato nell'oscurità e che andava elevando per gradi insensibili.
Bisogna vedere in quale stato era allora la religione dell'impero romano. I misteri e le pratiche espiatorie erano
accreditati in quasi tutto il mondo. Gli imperatori, è vero, i grandi e i filosofi non avevano nessuna fede in quei misteri;
ma il popolo che, in fatto di religione, detta legge ai grandi, imponeva loro la necessità di conformarsi in apparenza al
suo culto. Per incatenarlo, bisognava fingere di portare le sue stesse catene. Anche Cicerone fu iniziato ai misteri di
Eleusi. La conoscenza di un solo Dio era il principale dogma che si annunziava in quelle feste misteriose e magnifiche.
Va detto che le preghiere e gli inni di quei misteri, che ci sono pervenuti, sono quanto il paganesimo ha di più sentito e
di più ammirabile.
Ai cristiani, che adoravano anch'essi un solo Dio, fu assai più facile convertire molti gentili. Alcuni filosofi della setta di Platone si fecero cristiani. Ecco perché i Padri della Chiesa dei primi tre secoli furono tutti platonici.
Lo zelo sconsiderato di alcuni non nocque affatto alle verità fondamentali. Fu rimproverato a Giustino, uno dei
primi Padri, di avere scritto, nel suo Commento a Isaia, che i santi avrebbero goduto, in un regno di mille anni sulla
terra, di tutti i piaceri dei sensi. Fu giudicato delittuoso l'aver detto, nella sua Apologia dei cristianesimo, che Dio, creato il mondo, ne lasciò la cura agli angeli, i quali, essendosi innamorati delle donne, ebbero da loro dei figli, che sono i demoni.
Furono condannati Lattanzio e altri Padri per avere accreditato certi oracoli delle Sibille. Lattanzio pretendeva
che la Sibilla eritrea avesse composto questi quattro versi greci, di cui ecco la traduzione letterale:

Con cinque pani e due pesci
Nutrirà cinquemila uomini nel deserto;
e, raccogliendone gli avanzi che resteranno, ne riempirà dodici panieri.

Ai primi cristiani venne anche rimproverato di essersi attribuiti alcuni versi acrostici di un'antica Sibilla, i quali cominciavano tutti con le lettere iniziali del nome di Gesù Cristo, ciascuna nel suo ordine. Si rimproverava loro di avere inventato l'esistenza di lettere di Gesù al re di Edessa nel tempo in cui non c'era nessun re ad Edessa, e lettere di Maria,
lettere di Seneca a Paolo, lettere e atti di Pilato, falsi vangeli, falsi miracoli e mille altre imposture.
Abbiamo ancora la storia o il Vangelo della natività e del matrimonio della Vergine Maria ove è detto che, condotta al tempio all'età di tre anni, ne salì la scala da sola; vi è riferito che una colomba scese dal cielo per annunziare che Giuseppe doveva sposare Maria. Abbiamo il protovangelo di Giacomo, fratello di Gesù, nato da un primo matrimonio di Giuseppe. Vi è detto che, quando Maria rimase incinta durante l'assenza del marito e questi se ne lamentò, i sacerdoti fecero bere all'uno e all'altra l'acqua della gelosia e che tutti e due furono dichiarati innocenti.
Abbiamo il Vangelo dell'infanzia, attribuito a san Tommaso. Secondo questo Vangelo, Gesù, all'età di cinque anni si divertiva con altri bambini della sua età a modellare l'argilla, con cui formava uccellini; ne fu rimproverato, ed egli allora diede vita a quegli uccellini, che volarono via. Un'altra volta Gesù, picchiato da un ragazzino, lo fece morire all'istante. Abbiamo inoltre, in arabo, un altro Vangelo dell'infanzia, che è più serio.
C'è, poi, un Vangelo di Nicodemo. Questo sembra meritare maggiore attenzione, perché vi si trovano i nomi di
coloro che accusarono Gesù davanti a Pilato; erano i capi della sinagoga: Anna, Caifa, Summas, Datam, Gamaliele,
Giuda, Nèftali. In questa storia ci sono cose che si conciliano abbastanza con i Vangeli canonici, e altre che non si
trovano altrove. Vi si legge che l'emorroissa si chiamava Veronica; vi si trova, inoltre, tutto quello che Gesù fece
nell'inferno, quando vi discese.
Possediamo poi le due lettere che Pilato avrebbe scritto a Tiberio a proposito del supplizio di Gesù; ma il cattivo latino in cui sono scritte ne rivela abbastanza chiaramente la falsità.
Si spinse il falso zelo fino a far circolare parecchie lettere di Gesù Cristo. È stata conservata la lettera che si
dice egli abbia scritto ad Abgara, re di Edessa: ma allora non c'erano più re di Edessa!
Vennero fabbricati cinquanta Vangeli che furono, in seguito, dichiarati apocrifi. Lo stesso san Luca ci dà notizia di molte persone che ne avevano composti. Si credette che ce ne fosse uno chiamato Vangelo eterno, sulla base
di quanto è detto nell'Apocalisse, capitolo XIV: «Ho visto un angelo che volando in mezzo al cielo, recava il Vangelo eterno.» I cordiglieri, travisando queste parole, composero nel XIII secolo un Vangelo eterno, secondo il quale il regno dello Spirito Santo doveva sostituire quello di Gesù Cristo; ma nei primi secoli della Chiesa, non comparve nessun libro
recante questo titolo.
Si diffusero anche false lettere della Vergine, scritte a sant'Ignazio martire, agli abitanti di Messina e ad altri.
Abdìa, che succedette immediatamente agli apostoli, scrisse la loro storia, alla quale mescolò delle favole così
assurde, che quelle storie finirono, col tempo, con l'essere interamente screditate; ma sulle prime esse ebbero grande diffusione. Fu Abdìa a riferire la lotta di san Pietro con Simone Mago. C'era infatti a Roma un meccanico abilissimo chiamato Simone, il quale non solo faceva eseguire voli agli attori nei teatri, come oggi, ma rinnovò lui stesso il
prodigio attribuito a Dedalo: si fabbricò delle ali, volò e cadde come Icaro; è quanto riferiscono Plinio e Svetonio.
Abdìa, che viveva in Asia e scriveva in ebraico, pretende che san Pietro e Simone si siano incontrati a Roma ai tempi di Nerone. Un giovane, parente stretto dell'imperatore, morì; tutta la corte pregò Simone di risuscitarlo. San
Pietro si presentò a sua volta per fare questa operazione. Simone impiegò tutte le regole della sua arte, e parve riuscire:
il morto mosse la testa. «Non è abbastanza,» gridò san Pietro; «bisogna che il morto parli; che Simone si allontani dal letto, e si vedrà se questo giovane è in vita.» Sim one si allontanò, il morto non si mosse più, e Pietro gli rese la vita con una sola parola.
Simone andò a lamentarsi dall'imperatore, che un miserabile galileo osava far prodigi più grandi dei suoi.
Pietro comparve con Simone, e insieme gareggiarono a chi fosse superiore, ognuno nell'arte sua. «Dimmi che cosa
penso,» disse Simone a Pietro. «Che l'imperatore mi dia un pane d'orzo,» replicò Pietro, «e vedrai se non so che cosa pensi.» Gli venne dato un pane. Subito Simone fece apparire due grossi cani che volevano divorare Pietro. Pietro gettò loro il pane, e mentre essi lo mangiavano, disse: «Ebbene, lo sapevo o no quel che stavi pensando? Tu volevi farmi divorare dai tuoi cani.»
Dopo questa prima prova, fu proposta a Simone e a Pietro la gara del volo, per vedere chi sarebbe salito più in
alto. Simone cominciò, san Pietro si fece il segno della croce e Simone si ruppe le gambe. Questo racconto era imitato
da quello che si trova nel Sepher toldos Jeschut, dove è detto che Gesù stesso volò e che Giuda, volendo fare altrettanto,
precipitò al suolo.
Nerone, infuriato al pensiero che Pietro avesse fatto rompere le gambe al suo favorito Simone, fece crocifiggere Pietro a testa in giù; è da qui che si stabilì la credenza del soggiorno di Pietro a Roma, del suo supplizio e del suo sepolcro.
Fu ancora Abdìa a diffondere la credenza che san Tommaso andò a predicare il cristianesimo nelle Indie,
presso il re Gondafer, e che vi andò in qualità di architetto.
La quantità di libri di questa specie scritti nei primi seco li del cristianesimo è prodigiosa. San Girolamo e lo stesso sant'Agostino pretendono che le lettere di Seneca a san Paolo siano assolutamente autentiche. Nella prima lettera, Seneca si augura che il suo fratello Paolo stia bene. «Bene te valere, frater, cupio.» Paolo non parla certo il bel latino di Seneca.
«Ho ricevuto ieri le vostre belle lettere,» dice, «con gioia. Litteras tuas hilaris accepi; avrei risposto subito, se fosse stato presente il giovine che vi avrei inviato: si praesentiam juvenis habuissem.» Del resto, tali lettere, che
dovrebbero essere istruttive, contengono solo dei complimenti.
Tante menzogne fabbricate da cristiani male istruiti e animati da falso zelo non recarono nessun pregiudizio alla verità del cristianesimo, e non nocquero aff atto alla sua diffusione; al contrario, ci fan vedere che la comunità cristiana aumentava di giorno in giorno e che ogni membro voleva contribuire al suo sviluppo.
Gli Atti degli Apostoli non dicono ch'essi fossero d'accordo su un Simbolo. Se avessero effettivamente redatto il
Simbolo, il Credo, quale noi l'abbiamo, san Luca non avrebbe certo omesso nella sua storia questo fondamento
essenziale della religione cristiana; la sostanza del Credo è sparsa nei Vangeli, ma gli articoli non furono riuniti che
molto tempo dopo.
Il nostro Simbolo, in una parola, è incontestabilmente la credenza degli apostoli, ma non è un testo scritto da
loro. Il primo che ne parla è Rufino, un prete di Aquileia; e un'omelia attribuita a sant'Agostino è il primo monumento
che supponga il modo in cui fu composto questo Credo. Pietro dice nell'assemblea: Io credo in Dio padre onnipotente;
Andrea dice: e in Gesù Cristo; Giacomo aggiunge: che è stato concepito dallo Spirito Santo; e così di seguito.
Tale formula si chiama $óýìâï ëï í$in, greco, e collatio in latino. C'è solo da osservare che il greco dice: «Io credo in Dio padre onnipotente, che fece il cielo e la terra»; e che il latino traduce, «facieto»r, «formatore», con creatorem. Più tardi, al primo concilio di Nicea, si adottò factorem.
Il cristianesimo si stabilì dapprima in Grecia. Qui i cristiani ebbero da lottare contro una nuova setta di giudei,
diventati filosofi a forza di frequentare i greci, la setta della Gnosi, o degli gnostici; ad essa si mescolarono molti nuovi
cristiani. Tutte queste sette godevano allora della piena libertà di dogmatizzare, di parlare e di scrivere; però sotto
Domiziano la religione cristiana cominciò a dare qualche ombra al governo.
Ma lo zelo di qualche cristiano, che non era secondo scienza, non impedì alla Chiesa di compiere i progressi
che Dio le destinava. I cristiani celebrarono i loro misteri in case solitarie, in cantine, durante la notte; di qui (secondo Minucio Felice) fu dato loro il nome di lucifugaces. Filone li chiama gesseeni. I loro nomi più comuni nei primi quattro secoli, presso i gentili, erano quelli di galilei e di nazareni; ma il nome di cristiani prevalse su tutti gli altri.
Né la gerarchia né le pratiche rituali furono istituite tutte in una volta; i tempi apostolici furono differenti da
quelli che li seguirono. San Paolo, nella sua I Lettera ai Corinzi, ci informa che, quando i fratelli, circoncisi o
incirconcisi, erano riuniti, se parecchi profeti volevan parlare, solo due o tre potevano farlo; e che se qualcuno, nel
frattempo, aveva una rivelazione, il profeta che aveva preso la parola doveva tacere.
È su questa usanza della Chiesa primitiva che si fondano ancora oggi alcune comunioni cristiane, che tengono
assemblee senza gerarchia. Era permesso a tutti di parlare in chiesa, eccettuate le donne. È vero che Paolo proibisce loro
di parlare, nella I Lettera ai Corinzi, ma nella stessa lettera, al capitolo XI, v. 5, sembra anche autorizzarle a predicare o
profetizzare: «Ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, disonora il suo capo»; è come se essa fosse stata
rasata. Le donne credettero che fosse loro permesso parlare, purché si coprissero il capo con un velo.
Quel che è oggi la santa messa, che si celebra al mattino, era la cena, che si teneva la sera; queste usanze cambiarono, via via che la Chiesa si consolidò. Una società più estesa esigeva più regolamenti, e la prudenza dei pastori si conformò ai tempi e ai luoghi.
San Girolamo ed Eusebio riferiscono che, quando le chiese ricevettero una forma precisa, vi si distinsero a
poco a poco cinque ordini differenti: i sorveglianti, da cui sono venuti i nostri vescovi; gli anziani della società, i preti; i servi e i diaconi; i credenti, iniziati, vale a dire i
battezzati, che prendevano parte alle cene dette «agapi»; e i catecumeni ed energumeni, che erano in attesa del
battesimo. Nessuno, in questi cinque ordini, portava un abito diverso dagli altri; nessuno, come testimoniano il libro di
Tertulliano dedicato a sua moglie, o l'esempio degli apostoli, era costretto al celibato. Nessuna rappresentazione, sia in
pittura che in scultura, nelle loro assemblee durante i primi tre secoli. I cristiani nascondevano accuratamente i loro libri ai gentili; non li confidavano che agli iniziati, non era nemmeno permesso ai catecumeni di recitare l'orazione domenicale.
Quel che distingueva soprattutto i cristiani e che è durato sino al nostri tempi, era il potere di cacciare i demoni
con il segno della croce. Origene, nel suo trattato Contro Celso, al paragrafo 133, ammette che Antinoo, divinizzato dall'imperatore Adriano, faceva miracoli in Egitto, in virtù di incanti e sortilegi; ma dice che i diavoli uscivano dai corpi degli ossessi solo se si pronunziava il nome di Gesù.
Tertulliano va oltre e, dal fondo dell'Africa dove abitava, dice, nel suo Apologeticum, capitolo XXIII: «Se i vostri dei non confessano, davanti a un vero cristiano, di essere dei diavoli, noi consentiamo che voi spargiate il sangue di questo cristiano.» C'è una dimostrazione più chiara di questa?
Di fatto, Gesù Cristo inviò i suoi apostoli per cacciare i demoni. Anche gli ebrei avevano in quel tempo il dono di cacciarli, perché, quando Gesù ebbe liberato degli ossessi mandando i diavoli nei corpi di una mandria di porci, ed
ebbe operato altre guarigioni simili, i farisei dissero: «Egli caccia i demoni con la potenza di Belzebù.» «Ma se io li
caccio in nome di Belzebù,» replicò Gesù, «in nome di chi li cacciano i vostri figli?» È incontestabile che i giudei si
vantavano di questo potere; avevano esorcisti ed esorcismi. Si invocava il nome del Dio di Giacobbe e di Abramo; si mettevano nel naso degli indemoniati erbe consacrate (Giuseppe riferisce una parte di queste pratiche). Questo potere sui diavoli, che i giudei hanno perduto, fu trasmesso ai cristiani, i quali, da un po' di tempo in qua, sembrano averlo
anche loro.
Nel potere di cacciare i demoni era compreso quello di distruggere le operazioni di magia: perché la magia fu
sempre in vigore in tutte le nazioni. Tutti i Padri della Chiesa attestano l'esistenza della magia. San Giustino, nel libro
III della sua Apologia, conferma che spesso si evocano le anime dei morti, e ne trae un argomento in favore dell'immortalità dell'anima. Lattanzio, nel libro VII delle sue Divinae institutiones, dice che «se si osasse negare l'esistenza delle anime dopo la morte, il mago vi convincerebbe subito del contrario, facendole apparire». Ireneo,
Clemente Alessandrino, Tertulliano, il vescovo Cipriano, affermano tutti la medesima cosa. È vero che oggi tutto è cambiato, e che non ci sono più né maghi, né indemoniati; ma se ne troverà, quando piacerà a Dio.
Quando le comunità cristia ne divennero un po' numerose e parecchie si opposero al culto dell'impero romano, i magistrati infierirono contro di esse, e il popolo soprattutto le perseguitò. Non si perseguitavano i giudei, che avevano dei privilegi particolari e se ne stavano chiusi nelle loro sinagoghe; si permetteva loro l'esercizio della loro religione, come si fa ancora oggi a Roma; tutti i culti diffusi nell'impero erano consentiti, anche se il senato non li adottava.
Ma i cristiani, dichiarandosi nemici di tutti questi culti, e soprattutto di quello dell'impero, furono sottoposti più
volte a prove crudeli.
Uno dei primi e più noti martiri fu Ignazio, vescovo d'Antiochia, condannato dallo stesso imperatore Traiano, allora in Asia, e inviato per suo ordine a Roma per essere esposto alle belve, in un momento in cui non si massacravano a Roma altri cristiani. Non si sa di che cosa fosse accusato da quell'imperatore, rinomato d'altronde per la sua clemenza: è certo che sant'Ignazio ebbe nemici molto accaniti. Comunque sia, la storia del suo martirio riferisce che gli si trovò
inciso sul cuore, in caratteri d'oro, il nome di Gesù Cristo; per questo i cristiani presero in certi paesi il nome di «teofori», che Ignazio si era dato.
Ci è stata conservata una sua lettera, nella quale egli prega i vescovi e gli altri cristiani di non opporsi al suo martirio, sia che sin da allora i cristiani fossero abbastanza potenti per liberarlo, sia che qualcuno fra loro godesse di tanto credito da ottenergli la grazia. Va notato, in particolare che fu permesso ai cristiani di Roma di andargli incontro, quando fu condotto nella capitale: e questo prova chiaramente che in lui si puniva la persona, non la setta.
Le persecuzioni non furono continue. Origene, nel suo libro III Contro Celso, dice: «Si possono facilmente contare i cristiani morti per la loro religione, perché ne sono morti pochi e solo di tanto in tanto, a intervalli.»
Dio ebbe sì gran cura della sua Chiesa, che, malgrado i suoi nemici, fece in modo che essa potesse tenere cinque concili (vale a dire assemblee tollerate) nel primo secolo, sedici nel secondo e trenta nel terzo. Queste assemblee vennero qualche volta proibite, quando la falsa prudenza dei magistrati temette che dessero luogo a tumulti. Ci sono rimasti pochi processi verbali dei proconsoli e dei pretori che condannarono i cristiani a morte: sarebbero i soli atti che
permetterebbero di constatare le accuse mosse contro di loro, e i loro supplizi.
Abbiamo un frammento di Dionigi d'Alessandria, nel quale egli riporta l'estratto di un verbale di un proconsole
in Egitto, sotto l'imperatore Valeriano; eccolo:
Introdotti in udienza Dionigi, Fausto, Massimo, Marcello e Cheremone, il prefetto disse loro: «Voi avete potuto conoscere, dai colloqui che ho avuto con voi e da tutto quello che vi ho scritto, quanto i nostri governanti
abbiano mostrato bontà nei vostri riguardi; voglio ancora ripetervelo: essi fanno dipendere la vostra conservazione e la vostra salvezza da voi stessi e il vostro destino è nelle vostre mani. Da voi chiedono una sola cosa, che la ragione esige da ogni persona ragionevole: che voi adoriate gli dei protettori dell'impero, e che abbandoniate quest'altro culto così contrario alla natura e al buon senso.»
Dionigi rispose: «Non tutti hanno gli stessi dei, e ognuno adora quelli che crede veramente tali.»
Il prefetto Emiliano replicò: «Vedo bene che siete degli ingrati, che abusate della bontà che gli imperatori mostrano per voi. Ebbene! voi non potrete più rimanere in questa città, e io vi mando a Cefro, in fondo alla Libia : là
resterete in esilio, secondo l'ordine che ho ricevuto dai nostri imperatori; del resto, non pensare di tenerci le vostre
assemblee, né di andare a recitare le vostre preghiere in quei luoghi che chiamate cimiteri: questo vi è assolutamente proibito, e io non lo permetterò a nessuno.»
Niente presenta, come questo processo verbale, i caratteri della verità. Da esso si vede che vi furono tempi in cui le assemblee erano proibite. Così oggi, fra noi, è proibito ai calvinisti di riunirsi in Linguadoca; talvolta, anzi, abbiamo fatto impiccare o arrotare i loro ministri o predicatori che tenevano riunioni contro la legge. Così in Inghilterra
e in Irlanda le assemblee sono proibite ai cattolici romani; ci furono casi in cui i trasgressori furono condannati a morte.
Nonostante questi divieti imposti delle leggi romane, Dio ispirò a molti imperatori indulgenza verso i cristiani.
Lo stesso Diocleziano, che presso gli ignoranti passa per un persecutore, Diocleziano, il cui primo anno di regno segna il principio dell'era dei martiri, fu per più di diciotto anni protettore dichiarato del cristianesimo, al punto che molti cristiani ebbero cariche importanti presso la sua persona. Egli permise persino che a Nicomedia, sua residenza, vi fosse una superba chiesa innalzata di fronte al suo palazzo; inoltre, sposò una cristiana.
Il cesare Galerio, malauguratamente - e, a suo parere, giustamente - prevenuto verso i cristiani, esortò Diocleziano a far distrugger la cattedrale di Nicomedia. Un cristiano, più zelante che saggio, lacerò l'editto dell'imperatore; e di qui nacque quella persecuzione tanto famosa, nella quale più di duecento persone vennero messe a
morte in tutto l'impero romano, senza contare quelli che il furore del popolino, sempre fanatico e sempre barbaro, poté
far morire contro le forme giuridiche.
Vi fu, in tempi diversi, un così gran numero di martiri, che bisogna star bene attenti a non intaccare l'autorità
della storia di questi autentici confessori della nostra santa religione con un pericoloso miscuglio di favole e di falsi
martiri.
Il benedettino don Ruinart, per esempio, uomo d'altronde tanto istruito quanto stimabile e zelante, avrebbe dovuto scegliere con maggior discrezione i suoi Acta primorum martyrorum sincera et selecta. Non è sufficiente che un
manoscritto provenga dall'abbazia di Saint-Benôit-sur-Loire o da un convento dei celestini a Parigi, conforme a un
manoscritto dei foglianti, perché questo «atto» sia autentico: bisogna che sia antico, scritto da contemporanei, e che presenti inoltre tutti i caratteri della verità.
Don Ruinart avrebbe potuto fare a meno, per esempio, di riferire l'avventura del giovane Romano, accaduta nel 303. Il giovane in questione aveva ottenuto il perdono di Diocleziano in Antiochia; tuttavia Ruinart dice che il giudice Asclepiade lo condannò ad essere bruciato. Alcuni ebrei presenti a questo spettacolo schernirono il giovane san Romano e rinfacciarono ai cristiani che il loro dio li lasciava bruciare, mentre il dio degli ebrei aveva liberato Sidrac, Misac e
Abdenago dalla fornace; ma ecco levarsi, in pieno sole, un temporale che spense il fuoco. Allora il giudice ordinò che al
giovane Romano venisse tagliata la lingua. Il primo medico dell'imperatore, trovandosi là, assolse la funzione di boia, e
gli tagliò la lingua alla radice; subito il giovane, che prima era balbuziente, si mise a parlare normalmente: l'imperatore
restò sbalordito al sentir parlare così bene senza lingua; e il medico, per ripetere l'esperienza, tagliò in quattro e
quattr'otto la lingua a un passante che ne morì di colpo.
Eusebio, dal quale il benedettino Ruinart ha tratto questo racconto, avrebbe dovuto rispettare abbastanza i
miracoli dell'Antico e del Nuovo Testamento (dei quali nessuno dubiterà mai) e non associarli a storie così sospette che potrebbero scandalizzare le fedi deboli.
Quest'ultima persecuzione non si estese a tutto l'impero.
C'erano allora in Inghilterra manifestazioni di cristianesimo, che presto si spensero per riaccendersi poi sotto i
re sassoni. La Gallia meridionale e la Spagna pullulavano di cristiani. Il cesare Costanzo Cloro li protesse molto in tutte
queste province. Egli aveva una concubina che era cristiana: è la madre di Costantino, conosciuta sotto il nome di
sant'Elena. Non ci fu mai tra loro un regolare matrimonio; anzi, nel 292 egli la ripudiò e sposò la figlia di Massimiano
Ercole; ma Elena aveva conservato su di lui un forte ascendente e gli aveva ispirato un grande rispetto per la nostra santa religione.
La divina Provvidenza preparò, per vie che sembrano umane, il trionfo della sua Chiesa. Costanzo Cloro morì
nel 306 a York in Inghilterra, in un tempo in cui i figli che aveva avuto dalla figlia di un cesare erano ancora in tenera
età e non potevano quindi pretendere di governare l'impero. Costantino ebbe il cora ggio di farsi eleggere a York da
cinque o seimila soldati, per la maggior parte germanici, galli e inglesi. Sembrava poco probabile che una tale elezione,
fatta senza il consenso di Roma, del Senato e delle legioni, potesse essere valida; ma Dio gli diede la vittoria su Massenzio, eletto a Roma, e lo liberò poi da tutti i suoi colleghi. Non si può tacere che sulle prime Costantino si rese
indegno dei favori celesti; infatti assassinò tutti i suoi congiunti, sua moglie e suo figlio.
Si può dubitare di ciò che riferisce Zosimo in proposito. Egli dice che Costantino, agitato dai rimorsi dopo tanti delitti, domandò ai pontefici dell'impero se ci fossero espiazioni per lui, e quelli gli risposero che non ne conoscevano.
È ben vero che non ce n'erano state neanche per Nerone, il quale non aveva osato assistere ai sacri misteri in Grecia.
Eppure erano in uso i tauroboli, ed è assai difficile credere che un imperatore onnipotente non abbia potuto trovare un
sacerdote che volesse accordargli sacrifici espiatori. Forse è ancora meno credibile che Costantino, tutto preso dalla
guerra, dalla sua ambizione, dai suoi progetti, e circondato da adulatori, abbia trovato il tempo di provare rimorsi.
Zosimo aggiunge che un sacerdote egiziano, arrivato dalla Spagna, e che aveva accesso all'imperatore, gli promise
l'espiazione di tutti i suoi delitti nella religione cristiana. Si è pensato che questo sacerdote fosse Osio, vescovo di
Cordova.
Comunque sia, Costantino si tenne a contatto con i cristiani, pur continuando a restare semplice catecumeno, e
rimandando il battesimo al momento della morte. Egli fece costruire la città di Costantinopoli, che diventò il centro
dell'impero e della religione cristiana. Da allora la Chiesa prese una forma augusta.
È da notare che dall'anno 314, prima che Costantino si trasferisse nella nuova capitale, quelli che avevano perseguitato i cristiani furono da questi puniti per le loro crudeltà. I cristiani gettarono la moglie di Massimiano
nell'Oronte, e sgozzarono i suoi parenti; massacrarono in Egitto e in Palestina i magistrati che si erano dichiarati più
avversi al cristianesimo. La vedova e la figlia di Diocleziano, che si erano nascoste a Tessalonica, furono riconosciute e
i loro corpi vennero gettati in mare. Sarebbe stato augurabile che i cristiani avessero dato meno retta allo spirito di
vendetta; ma Dio, che punisce secondo giustizia, volle che le mani di cristiani si tingessero del sangue dei loro
persecutori, non appena essi si trovarono in libertà d'agire.
Costantino convocò e riunì in Nicea, di fronte a Costantinopoli, il primo concilio ecumenico, presieduto da Osio. Vi si decise la grande questione che agitava la Chiesa riguardo la divinità di Gesù Cristo. Gli uni si facevano forti
dell'opinione di Origene, che nel capitolo VI Contro Celso aveva scritto: «Noi presentiamo le nostre preghiere a Dio per
tramite di Gesù, che sta nel mezzo tra le nature create e la natura increata, che ci comunica la grazia del Padre suo, e
presenta le nostre preghiere al sommo Dio, in qualità di nostro ponte fice.» Essi si rifacevano anche ad alcuni passi di
san Paolo, che abbiamo in parte già citati. Soprattutto si basavano su queste parole di Gesù: «Mio padre è più grande di
me,» e consideravano Gesù come il primogenito della creazione, come la più pura emanazione dell'Essere supremo, ma
non precisamente come Dio.
Gli altri, che erano ortodossi, allegavano passi più conformi all'eterna divinità di Gesù. Questo, ad esempio:
«Mio padre ed io siamo una medesima cosa»; parole che i loro avversari interpretavano come significanti: «Mio padre ed io abbiamo lo stesso scopo, la stessa volontà; io non ho altri desideri che quelli di mio padre.» Alessandro, vescovo d'Alessandria, e, dopo di lui, Atanasio, erano a capo degli ortodossi; ed Eusebio, vescovo di Nicomedia, con diciassette
altri vescovi, il prete Ario, e parecchi altri preti, erano del partito opposto. Il dissidio si inasprì a tal punto che
sant'Alessandro trattò i suoi avversari da anticristi.
Infine, dopo moltissime dispute, lo Spirito Santo così decise nel concilio, per bocca di 299 vescovi contro 18:
«Gesù è figlio unico di Dio, generato dal Padre, ossia dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, consustanziale al Padre; e noi crediamo anche nello Spirito Santo ecc.» Questa la formula del concilio. Si
vede da questo esempio quanto i vescovi prevalessero sui semplici preti: stando al rapporto dei due patriarchi
d'Alessandria che scrissero la cronaca di Alessandria in arabo, duemila persone del secondo ordine erano del parere di
Ario.
Ario fu esiliato da Costantino; ma anche Atanasio fu esiliato quasi subito, e Ario venne richiamato a
Costantinopoli; ma san Macario pregò con tanto ardore Dio di far morire Ario prima che egli potesse entrare nella
cattedrale, che Dio esaudì la sua preghiera. Ario morì mentre si recava in chiesa, nel 330. L'imperatore Costantino chiuse la propria vita nel 337. Affidò il suo testamento a un prete ariano e morì tra le braccia del capo degli ariani Eusebio, vescovo di Nicomedia, dopo essersi fatto battezzare sul letto di morte, e lasciando la Chiesa trionfante ma
divisa.
I partigiani di Atanasio e quelli di Eusebio si fecero una guerra crudele, e quello che vien chiamato arianesimo fu per molto tempo in vigore in tutte le province dell'impero.
Giuliano, il filosofo, soprannominato l'Apostata, tentò di conciliare tali divisioni, ma non ci riuscì.
Il secondo concilio universale fu tenuto a Costantinopoli nel 381. Vi si precisò quello che il concilio di Nicea non aveva ritenuto opportuno dire sullo Spirito Santo, aggiungendo alla formula di Nicea che «lo Spirito Santo è Signore di vita, che procede dal Padre ed è adorato e glorificato con il Padre e con il Figlio».
Solo verso il IX secolo la Chiesa latina stabilì per gradi che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio.
Nel 431, il terzo concilio generale tenuto ad Efeso decise che Maria era veramente Madre di Dio e che Gesù aveva due nature e una sola persona. Nestorio, vescovo di Costantinopoli, che voleva che la Santa Vergine fosse chiamata solo Madre di Cristo, fu dichiarato Giuda dal concilio, e la duplice natura di Gesù fu ancora confermata dal concilio di Calcedonia.
Sorvolerò sui secoli successivi, che sono abbastanza noti. Purtroppo, non ce ne fu una di queste dispute che
non causasse guerre, e la Chiesa fu sempre obbligata a combattere. Dio permise ancora, per mettere alla prova la pazienza dei fedeli, che nel IX secolo, i greci e i latini rompessero tra loro per sempre; e permise pure che in occidente avvenissero ventinove sanguinosi scismi per la cattedra di Roma.
Intanto la Chiesa greca quasi per intero e tutta la Chiesa d'Africa caddero sotto il dominio degli arabi, e poi dei turchi, i quali elevarono la religione maomettana sulle rovine di quella cristiana. La Chiesa romana sopravvisse, ma sempre macchiata del sangue di più di sei secoli di discordie fra l'impero d'occidente e il papato. Tali discordie, d'altronde, la resero potentissima. I vescovi e gli abati, in Germania, divennero tutti principi, e i papi acquistarono poco a poco la sovranità assoluta su Roma e in un territorio di cento leghe. Così Dio provò la sua Chiesa con le umiliazioni, con i disordini e con lo splendore.
Questa Chiesa latina perdette nel secolo XVI metà della Germania, la Danimarca, la Svezia, l'Inghilterra, la Scozia, l'Irlanda, la Svizzera, l'Olanda; guadagnò in America, con le conquiste spagnole, più territori di quanti ne
perdette in Europa; ma, con un territorio più vasto, ha molto meno sudditi.
La Provvidenza divina sembrava destinasse il Giappone, il Siam, l'India e la Cina a schierarsi sotto l'autorità del papa, per ricompensarlo dell'Asia minore, della Siria, della Grecia, dell'Egitto, dell'Africa, della Russia e degli altri stati perduti di cui abbiamo parlato. San Francesco Saverio, che portò il santo Vangelo nelle Indie orientali e in Giappone, quando i portoghesi vi andarono a cercar mercanzie, fece un grandissimo numero di miracoli tutti attestati dai Revv. Padri Gesuiti: alcuni dicono che egli risuscitò nove morti; ma il Rev. P. Ribadeneira, nel suo Fiore dei Santi, si limitò a dire che ne risuscitò soltanto quattro: non sono pochi. La Provvidenza volle che in meno di cento anni ci fossero migliaia di cattolici romani nelle isole del Giappone; ma il diavolo seminò la zizzania in mezzo al buon grano.
Nel 1638, i cristiani ordinarono una congiura seguita da una guerra civile, nella quale furono tutti sterminati. Allora il paese chiuse i suoi porti a tutti gli stranieri, eccettuati gli olandesi, considerati alla stregua di semplici mercanti, e non di cristiani, e che sulle prime furono obbligati a calpestare la croce per ottenere il permesso di vendere le loro mercanzie nella prigione dove li si rinchiuse, quando sbarcarono a Nagasaki.
In Cina la religione cattolica, apostolica romana fu proscritta in epoca recente, ma in modo meno crudele. I Revv. Padri Gesuiti non avevano, a dire il vero, risuscitato dei morti alla corte di Pechino: si erano limitati a insegnare l'astronomia, a fondere cannoni e a diventare mandarini. Le loro sciagurate dispute con i domenicani e con altri
scandalizzarono a tal punto il grande imperatore Yong-Cing che quel sovrano, che era la giustizia e la bontà in persona,
fu tanto cieco da non volere più permettere che si insegnasse la nostra santa religione, sulla quale i nostri missionari non si trovavano d'accordo. Egli li cacciò con paterna bontà, fornendo loro viveri e veicoli fino ai confini del suo impero.
Tutta l'Asia, tutta l'Africa, metà dell'Europa, tutto ciò che appartiene agli inglesi e agli olandesi in America, tutte le tribù nomadi americane non sottomesse, tutte le terre australi, che sono la quinta parte del globo, sono rimaste preda del demonio, affinché si avverasse il santo detto: «Molti sono i chiamati, pochi gli eletti.»
Se è vero che sulla terra vivono circa 1600 milioni di uomini, come sostengono alcuni studiosi, la Santa chiesa romana cattolica universale ne possiede all'incirca sessanta milioni: ossia più della ventiseiesima parte degli abitanti del mondo conosciuto.







Bibliografia


Voltaire, F.-M. Dizionario filosofico

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