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Introduzione alla favola antica
Introduzione alla favola antica
«La favola – spiegava Elio Teone, un retore del I-II secolo d.C. – è una storia fittizia che rappresenta una verità». Questa definizione – la più nota e la migliore possibile, secondo Perry (1959, 22), uno dei maggiori studiosi moderni della tradizione esopica – suggerisce la difficoltà di inquadrare con precisione un genere che si colloca al confine con il proverbio, il mito, la fiaba, la novella e altri tipi di narrazione. La favola, peraltro, ha sempre oscillato tra la sua originaria dimensione retorica e una dignità letteraria raggiunta a fatica. Essa si presenta generalmente come un breve e semplice racconto, che ha l’obiettivo di affermare una morale, per lo più esplicita. Le sue caratteristiche appaiono non rigorosamente definite, soggette a mutamenti nel corso della storia, sulla base del contesto nel quale, di volta in volta, è stata calata. I personaggi sono privi di una psicologia individuale e di una puntuale caratterizzazione, in quanto assumono quella tipica della categoria a cui appartengono, mentre l’ambientazione e la dimensione cronologica restano generiche e imprecisate. Anche la capacità di dilettare il pubblico rappresenta un elemento distintivo del genere esopico, al punto che esso giunge a essere concepito come un modo efficace per impartire insegnamenti filosofici piacevoli e divertenti: così, ad esempio, si esprimerà, nel II secolo d.C., Aulo Gellio (2,29) a proposito di Esopo. Nella Grecia antica, di là dell’inserimento di favole fin dall’VIII-VII secolo a.C. in contesti poetici di varia natura, la dimensione più comune della narrativa esopica pare quella popolare della prosa e dell’oralità. D’altra parte, in origine la favola è concepita soprattutto come genus dicendi, ossia come strumento retorico, e solo in un secondo momento si afferma come genere letterario autonomo. In particolare, nella classificazione di Aristotele (Retorica 1393a-1494b) relativa ai processi argomentativi, vengono distinti l’esempio e l’entimema. L’esempio può riferirsi a fatti reali o inventati: a quest’ultima categoria appartengono la parabola e la favola, di cui il filosofo non fornisce una definizione, ma soltanto due modelli: uno tratto dal poeta Stesicoro (il cavallo, il cervo e l’uomo: fr. 104a P.), l’altro centrato sulla figura di Esopo nella sua qualità di narratore (la volpe e il riccio). Sulla base di una tradizione scolastica probabilmente ellenistica, i retori greci di età imperiale discutono sull’origine delle favole, classificandole, secondo la provenienza, sibaritiche, ciprie, libiche, egizie, cilicie, carie, frigie. Ma – si chiedono – dove sta la differenza? Le risposte, del tutto congetturali, sono le più diverse e dipendono dal contenuto, dal tipo di personaggi o dall’inventore del genere. Spuntano così nomi esotici, che servono solo a giustificare una situazione piuttosto caotica e priva di certezze; ecco, dunque, Conni il Cilicio, Turo il Sibarita, Cibisso il Libico. In ambito latino, Isidoro di Siviglia (Etimologie 1,40) riconduce la favolistica a Esopo, che eccelse in Frigia in questo tipo di narrazione, ma considera inventore del genere Alcmeone di Crotone; inoltre, tenta una singolare classificazione, sostenendo che la favola esopica presenta animali o esseri inanimati che parlano, e la favola libica animali e uomini. Tuttavia, questa, come altre classificazioni, appare imprecisa, perché nella favola esopica a noi pervenuta può intervenire anche l’uomo. Non mancano interrogativi circa la figura di Esopo come inventore del genere: fu il primo o il più bravo tra i narratori di favole in Grecia? Del resto, favole si ritrovano in autori precedenti alla sua supposta esistenza e si registrano attribuzioni di paternità del genere a poeti come Esiodo e addirittura Omero, che però nei suoi poemi presenta soltanto similitudini, strutturalmente assai diverse dalle favole. Giuliano (Orazioni 7,266) riterrà addirittura infondata l’intera questione: sarebbe sensato chiedersi chi ha starnutito per primo? Nel tempo, la favola si impone sempre più nell’ambito della scuola, che finirà per diventarne una sorta di prigione: rinchiusa dietro le sbarre delle necessità pedagogiche, la narrativa esopica è spesso costretta a rinunciare all’aspirazione letteraria. Nel I secolo d.C., il professore di retorica Quintiliano consiglia di far esercitare i ragazzi a narrare in uno stile corretto, misurato, le favole di Esopo, immediatamente dopo le favole delle nutrici. L’esercizio consiste nel mantenere lo stesso livello stilistico, nello sciogliere i versi, nel trovare sinonimi e parafrasare il testo, con la possibilità di abbreviare e di ornare, nel rispetto però del pensiero del poeta. Anche Quintiliano considera la favola un exemplum, che ha un efficace influsso sulle persone rozze e ignoranti, grazie al diletto che facilita la persuasione. Così la favola si consolida quale utile strumento per bambini o per adulti poco istruiti, come aveva spiegato già Livio, narrando l’apologo del corpo e delle membra, con cui nel 495 a.C. Menenio Agrippa convinse i plebei a rinunciare alla secessione. Peraltro, anche nei secoli successivi, la favola ha larga fortuna in ambito scolastico, come testimoniano gli esercizi di traduzione dello Pseudo-Dositeo (v.) e i cosiddetti πρoγυμνάσματα (esercizi preparatori alla composizione) dei retori greci. Retrospettivamente, Isidoro (Etimologie 1,40-44), sulla base della sua cultura enciclopedica, tira le somme: «I poeti – osserva – ricavarono il nome di favole da fari [parlare], poiché non narrano cose accadute, ma solo immaginate e dette». Lo scopo è quello di offrire un’immagine della vita degli uomini attraverso le vicende inventate degli animali. La classificazione di Isidoro distingue tra historiae, vere e accadute; argumenta, racconti di fatti possibili, anche se non accaduti; fabulae, narrazioni di cose non accadute e impossibili, in quanto contrarie alla natura. Sintetizzando le definizioni degli antichi, Van Dijk (1997, 72 ss.) riconosce il carattere fittizio, metaforico e narrativo delle favole. Per il resto, come si è notato, il dibattito non riesce a tracciare confini certi.
Bibliografia
Stocchi, C., Dizionario della favola antica, BUR, MIlano, 2012