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Fenomeni occulti all'ospedale psichiatrico




La psicoanalisi si occupa anzitutto dello studio di quei fattori, consci e inconsci, che determinano una particolare tipologia psicologica e che assumono nel tempo una strutturazione tale per cui possiamo parlare di continuità nell’esperienza di sé, di coesione e unitarietà. Però non è questo l’unico raggio d’azione della psicoanalisi, nel senso che – come ben sappiamo – essa rivolge la propria attenzione e il proprio impegno al mondo della patologia, della sofferenza e del disagio del paziente.

     Si rende pertanto necessario un approfondimento non solo dei parametri in virtù dei quali la psicoanalisi imposta il proprio lavoro e la direzione del proprio percorso, ma anche una esaustiva analisi di quelli che potremmo definire i suoi contenuti. Per procedere in questo senso, si rendono anzitutto opportune alcune precisazioni che, come vedremo, ineriscono soprattutto ai fondatori della psicoanalisi. Fra essi spicca il nome di Carl Gustav Jung.

     La psicologia analitica assume, sulla base delle formulazioni teoriche di Jung e delle elaborazioni dei suoi epigoni, una prospettiva molto differenziata, per la quale la personalità si sviluppa e si estende non già secondo un processo lineare di sviluppo ma secondo una dinamica a spirale che implica un’alternanza di fasi di integrazione e di deintegrazione.

     La prima difficoltà con la quale occorre confrontarsi, nasce dal fatto che non è possibile restringere il concetto di personalità al campo di coscienza del soggetto. Un assunto basilare dello psicologo del profondo è infatti quello secondo cui è impossibile pensare a un comportamento, e un’attività o a un atto cognitivo che non scaturiscano da motivazioni profonde e che non siano volti a un fine inconscio. Possiamo dunque affermare che il comportamento manifesto, in fondo, altro non è se non la risultante di forze interne che lo innescano e plasmano; ma ciò che appare ancor più interessante, è il fatto che tale comportamento sia finalizzato al conseguimento di risultati e al perseguimento di obiettivi che molto spesso non coincidono affatto con l’intenzione cosciente del soggetto e con gli scopi che quest’ultimo è convinto di perseguire.

     In verità, ciò non dovrebbe sorprendere, perché la coscienza non costituisce che una piccola parte della psiche considerata nella sua totalità, un astro nell’immensità dell’universo. In fondo, la storia dell’umanità ci insegna che ciò che noi denominiamo ’coscienza’ è in realtà il prodotto di un lungo processo di differenziazione psichica, di un cammino che spesso richiede all’individuo l’impiego di tutte le sue energie psicologiche. L’opera di Jung costituisce in questo senso una valida esemplificazione di cosa significhi vivere e lottare per percorrere questo cammino.

     Troppo spesso ricordato dal grande pubblico come "l’allievo di Freud", Carl Gustav Jung rappresenta uno dei più straordinari pionieri della psicoanalisi. Sebbene negli anni mi sia trovato nella condizione di approfondire, ampliare, esporre e chiarire il "tema-Jung", ritengo comunque opportuno – e doveroso – ritornare su di esso, cercando di metterne a fuoco le caratteristiche più essenziali, quegli aspetti che possono essere considerati come "le fondamenta della psicoanalisi".

     Purtroppo non è raro che ancora oggi ci si accosti al pensiero junghiano con grande circospezione, con diffidenza. Il pregiudizio che incentiva questo atteggiamento così diffidente, alimenta la diffusione di un’immagine di Jung
     artefatta, irreale, che lo dipinge come un uomo ’complicato’, un autore dal pensiero difficile, contorto, sibillino.

     In realtà ciò non corrisponde al vero e la psicoanalisi sa molto bene quanto debba a Jung e sa anche che il suo debito teorico e concettuale nei confronti di questo autore viene alimentato soprattutto dalla grande profondità e densità del suo pensiero. Assumendo queste considerazioni come preliminari del nostro discorso, sarà molto più facile compiere i primi passi del lungo viaggio attraverso il pensiero di Jung.

     Carl Gustav Jung nasce il 26 luglio 1875 a Kesswil, in Svizzera, nei pressi del lago di Costanza. Secondogenito del pastore evangelico Johann Paul Achilles Jung e di sua moglie Emilie Preiswerk, Jung trascorrerà nel luogo natio solo i primi sei mesi della sua infanzia perché ben presto i suoi genitori si trasferiranno a Laufen, sulla cascata del Reno. I primi ricordi di Jung risalgono al 1877-78:

    
       "[...] La canonica, il giardino, la lavanderia, la chiesa, il castello, le cascate, il piccolo castello di Worth e la fattoria del sagrestano: ricordi frammentari, slegati, senza un nesso apparente, fluttuanti in un mare di incertezza" (Jung 1961, 25).
   

     Le memorie di altri episodi andranno ad arricchire il patrimonio di cui oggi possiamo disporre sfogliando le pagine di Ricordi, sogni, riflessioni, patrimonio quanto mai ricco e suggestivo. Al di là della dovizia di informazioni infatti, questo testo offre la possibilità di accostarsi all’uomo Jung, di entrare in contatto con i suoi pensieri, con le sue sensazioni. Già dalle prime pagine dei Ricordi, si può evincere che Jung fu animato sin da piccolo da un forte bisogno conoscitivo e interpretativo, stimolato da un interesse profondo per tutto ciò che appariva strano, fuori dall’ordinario, proibito e misterioso. Il piccolo Carl Gustav aveva circa quattro anni quando assieme alla madre si recò da alcuni amici di famiglia per trascorrere con loro un piacevole soggiorno sul lago di Costanza. L’acqua suscitò su Gustav un’intensa attrazione:
   

    
       "[...] non potevo più staccarmi dalla vista dell’acqua, ero affascinato dalle onde che dal battello giungevano sino alla riva, dalla superficie dell’acqua scintillante al sole, dai piccoli solchi tracciati dalle onde sulla sabbia del fondo... Il lago si stendeva a perdita d’occhio, e l’ampia distesa dell’acqua, col suo incomparabile splendore, mi dava un piacere immenso. In quel momento decisi che avrei dovuto vivere vicino a un lago, e mi parve che nessuno avrebbe mai potuto vivere lontano dall’acqua" (Ibid., 26).
   

     Ebbene proprio l’acqua, così affascinante e seducente, offrirà a Jung il primo grande elemento "misterioso" e inquietante della sua vita. Risale infatti a quel periodo un singolare episodio: alcuni pescatori trovano un cadavere trasportato dalle acque impetuose della cascata e, portatolo a terra, chiedono al padre di Jung il consenso per deporlo nella lavanderia della casa parrocchiale. Al piccolo Gustav la madre proibisce di recarsi nella lavanderia, ma il desiderio di vedere quel cadavere è troppo intenso, irrefrenabile. Così Jung narra il suo comportamento in quella circostanza:

    
       "[...] io però aspetto che tutti si siano allontanati, poi di soppiatto esco in giardino e mi dirigo verso la lavanderia. La porta è chiusa, allora giro intorno alla casa, e dietro, dove c’è un canale di scolo che scorre in pendenza, vedo colare sangue e acqua. Tutto ciò mi sembra estremamente interessante" (ibidem).
   

     Ma quello che può apparire di estremo interesse per noi è il fatto che una serie di eventi risalenti ai primi anni della vita di Jung furono da lui considerati rivelatori di tendenze suicide inconsce:

    
       "Ci fu un ruzzolone giù per le scale [...], e una caduta contro lo spigolo di una stufa; ricordo il dolore, il sangue, [...] Mia madre mi raccontò anche che una volta, mentre attraversavo il ponte sulle cascate del Reno, a Neuhausen, avendo sporto una gamba sotto la ringhiera stavo per scivolare giù [...] Questi fatti provano che vi era in me un inconscio impulso al suicidio o, forse, un senso di opposizione alla vita" (Ibid., 1961, 28).
   

     L’infanzia, gli anni della scuola e la giovinezza testimoniano giorno per giorno, episodio dopo episodio, la crescita e l’evoluzione di un talento fuori dal comune non solo per una straordinaria intelligenza – che potrà esprimersi solo con il trascorrere del tempo – ma per una profonda e numinosa sensibilità e per una sorprendente capacità intuitiva.

     All’Università di Basilea, nella quale approda nel 1895, Jung studia dapprima scienze naturali e dopo medicina. Nel 1900, il 27 novembre, consegue la laurea in medicina e dopo due sole settimane gli viene conferito l’incarico di assistente medico presso il Burghölzli di Zurigo, rinomato a quel tempo soprattutto per le metodiche introdottevi dal direttore Eugene Bleuler.

     L’antico interesse per il misterioso e lo ctonio era in quegli anni vivo più che mai nel pensiero di Jung. Avido lettore, il giovane Gustav era già entrato in contatto con testi sullo spiritismo, sul mesmerismo e con argomenti altrettanto inconsueti e inesplorati, ma questo suo interesse si accrebbe proprio durante il periodo di permanenza al Burghölzli, che gli offrì la possibilità di osservare una notevole quantità e varietà di casi in questo senso ’interessanti’. Di queste osservazioni e riflessioni sarà alimentato il suo primo importante scritto, la tesi Psicologia e psicopatologia dei cosiddetti fenomeni occulti discussa nel 1902.

     Nel 1907 avverrà il primo incontro con Freud, del quale Jung già conosceva e stimava le opere e il pensiero.

     Chiunque abbia tentato di ripercorrere le fasi dell’evoluzione del pensiero junghiano sa molto bene che una tappa "obbligata" è costituita dal rapporto tra Jung e Freud. Problematica, movimentata, a volte oscura, la vicenda Freud-Jung costituisce un nodo importante nell’ambito della fitta rete di relazioni interpersonali e delle esperienze che hanno condotto Jung a formulare in un determinato modo il suo pensiero.

     Fino a quando non venne pubblicato l’illuminante epistolario Freud-Jung, il rapporto fra i due fu letto alla luce di un unico – e pertanto limitante – elemento, ossia quello che individuava in Freud "il maestro" di Jung. Relegato così nell’angusto ruolo di discepolo, per moltissimo tempo Jung non ebbe la possibilità di essere "ascoltato" in qualità di studioso animato dal bisogno di divulgare idee personali, originali, innovative. Tuttavia, egli seppe affrancarsi da quell’angusto ruolo manifestando con coraggio le proprie idee nonostante lo stridente attrito che queste procuravano a contatto con quelle freudiane. La psicologia dell’inconscio, a esempio, già nel 1912, esprime con fermezza le critiche di Jung nei confronti del pensiero di Freud.

     L’elemento che più di altri costituì "la pietra dello scandalo" nella teoria junghiana e che contribuì ai dissapori con Freud fu senza dubbio il concetto di libido. Nel suo Simboli della trasformazione (1912/1915), Jung affronta – fra gli altri – anche il concetto di libido. L’impresa qui portata a termine da Jung rispetto a questo tema è quella di spogliare questo termine di un’accezione sessuale per conferirgli un nuovo significato, più ampio e perciò più proficuo. Da questo momento la libido non dovrà più essere considerata come "pulsione sessuale", ma godrà di più ampio respiro, permettendoci di considerarla come "energia" in senso lato. Jung poi, essendosi reso conto che il concetto libido era avvolto ancora da molte incertezze, avvertirà il bisogno di ritornare su questa tematica. Risale infatti al 1928 un saggio intitolato Energetica psichica in cui Jung propone un’attenta lettura della dinamica posta alla base del rapporto fra l’Io e l’inconscio, cercando di chiarire a quale fonte la vita psichica attinga per ricavare l’energia necessaria al proprio funzionamento. In questo saggio, quindi, Jung cerca di comprendere da dove provenga l’energia che innesca le dinamiche della vita psichica.

     Anche Freud si interrogò su questi aspetti, trovando però per essi un’unica interpretazione: la libido come energia che deriva dalla sessualità.

     La prospettiva interpretativa della libido offertaci da Jung permette altresì di riflettere sull’enorme potenzialità del nostro inconscio, nel quale è racchiuso un fertile insieme di contenuti che attendono di trovare il proprio canale espressivo. In particolare, Jung ha utilizzato il termine complesso per riferirsi all’insieme di elementi psichici che risiedono nell’inconscio e, a differenza di quanto aveva detto Freud, evidenzierà che:

    
       "La via regia per l’inconscio non sono però i sogni, [...], bensì i complessi, che sono la causa dei sogni e dei sintomi" (Jung 1934, 118).
   

     Sebbene abbia sempre enfatizzato il divario tra il suo pensiero e quello freudiano, Jung non ha mai nascosto la grande seduzione esercitata su di lui dalla teoria di Freud, in particolare riguardo la malattia mentale. Per un divario concettuale di fondo – che presto si andrà a sommare a motivazioni personali palesi e inconsce – e nonostante Jung avesse trovato in Freud il "padre spirituale", i due giungeranno nel 1913 a un contrasto insanabile cui farà seguito l’abbandono – da parte di Jung – della Società psicoanalitica.

     L’atmosfera creatasi dopo la separazione renderà ancor più salde le fondamenta della teoria junghiana, accrescendone l’autonomia e la dignità teorica, tanto da renderla meritevole di una nuova, diversa denominazione: da questo momento, infatti, si parlerà di "psicologia analitica". In particolare, un ampio uso della mitologia come strumento interpretativo dei contenuti dell’inconscio permetterà a Jung di colorare la sua teoria di una preziosa nuance di originalità, tanto da suscitare aspre critiche da parte di Freud.

     In ogni caso però "il distacco da Freud coincise con un periodo importantissimo per la vita di Jung. Esso rappresentò il suo momento decisivo, dal quale emerse rigenerato e pronto ad affrontare con nuove armi il mondo della psiche" (Carotenuto 1977, 25).

     Questa forma di rigenerazione sarà anche alimentata da numerosi viaggi all’estero, itinerari che toccheranno tappe come il Nord Africa, l’Arizona e il Nuovo Messico. Così, ben presto, il suo pensiero iniziò a diffondersi e ad ottenere ampi consensi, e la sua elaborazione teorica sarà sempre un crescendo di innovazioni fino al 1961, anno in cui Jung si spense.

     Ciò che rese Jung ’diverso’ da tutti gli altri pionieri della psicoanalisi fu l’ostinazione con la quale volle esaltare il concetto di libertà individuale, il bisogno per ogni individuo di realizzare la costruzione della propria personalità, di diventare un essere unico e inimitabile. Fu questo infatti lo spirito che animò l’idea del cosiddetto "processo di individuazione", un percorso psicologico che Jung delineò come la più importante sfida per ognuno di noi, indispensabile per la costruzione di una personalità ricca e integrata. Il processo di individuazione esprime la possibilità data a ognuno di noi di diventare esseri unici, speciali, inscindibili, esseri umani integri e non frammentati. Il termine "individuo" infatti, significa "non diviso", intero, e ciò ci permette di riflettere sul fatto che il percorso psicologico umano tende verso la libertà e l’espressione della soggettività individuale. Secondo Jung, quindi, lo sviluppo della personalità procede di pari passo con la conquista della totalità psicologica, dell’individualità, dell’integrazione di elementi consci e inconsci, maschili e femminili. La formazione del Sé rappresenta la tappa fondamentale del processo di individuazione, tappa che Jung metaforizzò accostandola alla ricerca della pietra filosofale. Come sappiamo, per elaborare la sua teoria e le sue riflessioni, Jung non si riferì solo alla propria esperienza clinica ma attinse anche agli antichi testi degli alchimisti. I loro tentativi di trasformare i metalli in oro – tradotti in chiave psicologica – indicano la grande impresa che ogni uomo si propone di compiere nei confronti della propria personalità. A questo punto è necessaria una precisazione che scaturisce dopo tanti anni di esperienza analitica. Sono sempre molto meravigliato dall’ottusità di molti colleghi che, quando leggono e studiano, lo fanno soltanto su testi freudiani se sono freudiani oppure su testi di Bion se sono bioniani e su testi della Klein se lavorano con le categorie psicologiche di queste studiose. Potrei continuare con altri esempi ma quelli citati sono sufficienti per comprendere come la psicoanalisi, nel suo significato più ampio, sia una specie di subcultura che reputa un titolo di merito non conoscere altro che se stessa nell’espressione incestuosa della propria scuola. Eppure basterebbe dare uno sguardo a quella che è stata la biblioteca di Freud per non parlare della cultura amplissima di Jung. Questo essersi rifugiati in un incesto conoscitivo è all’origine dell’assoluta povertà intellettuale della psicoanalisi attuali.

     Per riprendere il nostro discorso, non condivido il principio dell’ortodossia freudiana, secondo il quale l’assetto psicologico di un individuo si può modificare solo fino a una certa età, e di conseguenza è impossibile sperare in una guarigione una volta che quella sia già stata raggiunta. È un’affermazione viziata dall’ottica medica organicistica: l’organismo invecchiando degenera, e il tempo che passa non viene certo in soccorso. Malattie che nella giovinezza vengono superate, vanno verso una progressiva e rapida degenerazione quando il corpo è appesantito dall’età. Ma questo modello può essere trasferito alla psiche? Ha senso parlare di un invecchiamento della psiche? Accade semmai il contrario: l’esperienza le aggiunge valore, affina la comprensione ampliandone l’orizzonte di riferimento.

     La psicologia analitica ipotizza l’esistenza di una tendenza direzionale e regolatrice della psiche che orienta la sua crescita verso l’integrazione di tutti gli aspetti meno consci e differenziati. Si tratta proprio di quel processo di sviluppo psicologico che Jung definì "processo di individuazione" e che a partire dal momento della nascita si dipana nel tempo facendo sì che emerga una personalità via via più ampia e matura che acquista spessore e si rivela agli altri. Espressioni del tipo "arresto dello sviluppo" – di cui tanto spesso si sente parlare – indicherebbero proprio il presupposto di un cammino evolutivo che si svolge nel tempo. Sappiamo bene come la psicoanalisi si sia sempre interessata di questa tematica, basti pensare all’opera di Freud e alla suddivisione dell’infanzia e dell’adolescenza in ben delimitati ’stadi’ successivi.

     Lo sviluppo psicologico si articola secondo Freud mediante un processo evolutivo che si esplica attraverso alcune fasi che anche se "superate", continuano comunque ad essere attive all’interno dell’universo psichico del soggetto. L’evoluzione psicologica del bambino procede di pari passo con l’evolversi delle tappe dello sviluppo sessuale. Per questa ragione è appropriato l’impiego dell’espressione "fase – o stadio – psicosessuale". Non dovremmo infine dimenticare che tutte le fasi dello sviluppo psicologico – eccezion fatta per la "fase di latenza" – sono secondo Freud caratterizzate da un fulcro, da un centro rappresentato da un specifica area corporea, da una singola zona erogena.

     La prima tappa dello sviluppo psicosessuale del bambino è denominata "stadio orale". Protagonista di questo stadio è la bocca, zona corporea attraverso la quale il bambino trae le sensazioni dal mondo circostante. Lo stadio orale permette al bambino di consolidare il proprio rapporto con la madre, dalla quale potrà ricevere soddisfacimento ma anche frustrazioni.

     Lo "stadio anale", situato tra il secondo e il quarto anno di vita, rappresenta la seconda tappa dello sviluppo. Ora il bambino ha nuove esigenze, nuove necessità che riflettono la sua embrionale personalità. Il "dare" o il "trattenere" sono gli estremi su cui si fondano le scelte del bambino e su cui inizia a strutturarsi il carattere.

     Lo "stadio fallico" insorge verso i cinque anni di vita e sposta l’attenzione sia del bambino che della bambina sugli organi genitali. Durante questa fase però, come osservano Laplanche e Pontalis,

    
       "a differenza dell’organizzazione genitale puberale, il bambino sia maschio che femmina conosce soltanto un organo genitale, l’organo maschile, e l’opposizione tra i sessi è equivalente all’opposizione fallico-castrato" (Laplanche e Pontalis 1967, 171).
   

     Nel caso delle bambine l’attenzione sarà convogliata sull’assenza del pene, ma per entrambi i sessi la problematica da fronteggiare durante questa fase è quella dell’interessamento erotico nei confronti del genitore di sesso opposto. Sarebbe proprio durante questo periodo, quindi tra i tre e i cinque anni di vita, che eromperebbe con tutte le sue più intense manifestazioni il cosiddetto "complesso di Edipo" il quale, secondo Laplanche e Pontalis, svolgerebbe "un ruolo fondamentale nella strutturazione della personalità e nell’orientamento del desiderio umano" (Ibid., 1967, 84).

     Farau e Schaffer hanno descritto con grande semplicità l’essenza di questo particolare momento dello sviluppo psicossesuale di ogni individuo:

    
       "Il ragazzo desidera avere la madre tutta per sé e considera il padre un nemico di cui occorre sbarazzarsi; la fanciulla, (attraverso un molto più complesso meccanismo) si trova in analoga situazione nei riguardi del padre. [...] In caso di soluzione «sana», vale a dire non nevrotica, il ragazzo s’identifica con il padre, e la fanciulla con la madre, prendendo a considerare i rispettivi genitori come alleati e non come nemici. In ogni caso, la formazione del carattere dipende dal modo in cui si attraversa questo periodo critico, orientatore di ogni ulteriore sviluppo dell’essere umano" (Farau e Schaffer 1960, 56).
   

     Fu in "Le trasformazioni della pubertà" – il terzo dei Tre Saggi sulla teoria sessuale (1905) – che Freud illustrò con grande chiarezza il concetto di complesso edipico:
   

       "In tutti gli uomini [...] emergono le inclinazioni infantili, ora rafforzate dalla pressione somatica, e tra queste con frequenza regolare e in prima linea il moto sessuale – perlopiù già differenziato dall’attrazione sessuale – del bambino per i genitori, del figlio per la madre e della figlia per il padre" (Freud 1905, 530-531).
   

     Non dovremmo poi dimenticare che Freud considerò il complesso edipico secondo due differenti punti di vista. Come ricorda Silvia Vegetti Finzi infatti

    
       L’amore per il genitore del sesso opposto e la rivalità nei confronti di quello del proprio sesso è solo l’Edipo semplice, accanto al quale Freud porrà anche la forma inversa, che compare solitamente in modo più attenuato, consistente nell’amore per il genitore dello stesso sesso e nella rivalità con quello del sesso opposto (Vegetti Finzi 1986, 76).
   

     Quella del complesso edipico può essere annoverata tra le scoperte più sensazionali della psicoanalisi, una scoperta nella quale Freud continuò a nutrire fiducia per tutta la sua vita; in tal senso illuminanti appaiono le sue parole:

    
       "[...] se pure la psicoanalisi non potesse vantare nessun altro risultato oltre la scoperta del complesso edipico rimosso, questa scoperta sola le darebbe comunque il diritto di essere annoverata tra le preziose nuove acquisizioni dell’umanità" (Freud 1938, 619).
   

     Nonostante ciò, questo concetto verrà ridimensionato da Jung il quale, a differenza di Freud, non rinverrà nel complesso edipico il fulcro, l’origine della nevrosi. Su questi aspetti ci esorta a riflettere anche James Astor affermando che "la teoria junghiana degli archetipi avrebbe indotto lo stesso Jung a considerare il mito di Edipo non come il nucleo di sviluppo della nevrosi, bensì come una componente arcaica, universale della psiche infantile" (Astor 1998, 705).

     Il tramontare della fase fallica indica secondo Freud l’inizio della "fase di latenza", un periodo, di lunghezza variabile da individuo a individuo, durante il quale le emozioni intense, la conflittualità e gli impulsi istintuali sembrano chetarsi. In realtà si tratta del classico "fuoco sotto la cenere", una tempesta emotiva assopita ma pronta a erompere in tutto il suo fragore con l’avvento dello "stadio genitale".

     Tipica del periodo adolescenziale, la "fase genitale" vede riaffiorare tutti gli impulsi sessuali che durante il periodo di latenza sembravano essere stati repressi. Infine il giovane inizia a rivolgere l’attenzione non più alle proprie necessità ma anche agli altri. Una sorta di "altruismo psicologico" caratterizza questa fase, e le energie impiegate sino a questo momento solo in maniera narcisistica cominciano a essere convogliate su un altro oggetto distinto da sé.

     Ora, a prescindere dalla suddivisione proposta da Freud, non amo né mi ha mai sedotto l’idea di "incastonare" all’interno di caselle prefissate e ben delimitate l’evoluzione psicologica di ogni essere umano, e per questa ragione diffido di tutti quei tentativi tesi a quantificare l’età ’giusta’ per l’inizio e il termine di ogni fase. Tuttavia, è innegabile il fatto che la storia della psicoanalisi sia densa di questo tipo di tentativi, e pertanto non possiamo esimerci dal valutarli.

     Diverso dalla posizione freudiana sarà il punto di vista di Fairbairn in merito allo sviluppo psicologico del bambino. Come vedremo, infatti, la sua ’rivoluzionaria’ modalità di considerare il concetto di libido consentirà a questo autore anche di acquisire una diversa prospettiva per osservare e comprendere lo sviluppo psicologico. Secondo Fairbairn, infatti, ciò che in realtà appare determinante per lo sviluppo del bambino non è il soddisfacimento di impulsi libidici parziali, né la mera gratificazione istintuale: Fairbairn non considera la libido come ’desiderio sessuale’ ma come bisogno di instaurare soddisfacenti relazioni con gli altri. Come osserva Vegetti Finzi.

    
       "Fairbairn [...] considera l’oggetto non un mezzo ma un fine. La libido si definisce pertanto non come ricerca del piacere, ma dell’oggetto. In luogo dello sviluppo libidico basato sulla successione delle zone erotiche, Fairbairn propone una teoria evolutiva centrata sulla dipendenza dagli oggetti, ove uno stato originario di dipendenza infantile viene progressivamente sostituito da una fase finale di dipendenza adulta" (1986, 292).
   

     La straordinaria novità introdotta da Fairbairn consente di considerare in maniera del tutto differente il comportamento del bambino – e come vedremo anche quello dell’adulto. Il bambino infatti non cerca l’Altro per ridurre le proprie tensioni istintuali – come invece la teoria freudiana sosteneva – ma per assecondare un bisogno relazionale connaturato alla specie umana, presente sin dalla nascita. La dimensione relazionale, pertanto, costellerà ogni momento del delicato processo di sviluppo psicologico.

     Ai fini del nostro discorso è però determinante soffermarci ancora un po’ su quella tematica che abbiamo poc’anzi accennato: l’arresto dello sviluppo. La possibilità di un blocco, di un intoppo lungo il cammino evolutivo è quanto mai concreta e reale. Termini come "fissazione o "regressione", introdotti da Freud, volevano in fondo indicare alcune delle problematiche che possono insorgere lungo il processo di sviluppo psicologico dell’uomo. Lo sviluppo implica per antonomasia la possibilità del cambiamento, della trasformazione di luoghi, fatti, persone e di noi stessi. Qualora però determinati eventi della vita, fatti e accadimenti, dovessero ostacolare o bloccare questa trasformazione e inibire nell’individuo la possibilità stessa di "immaginare" un cambiamento di tipo positivo, allora si correrebbe il serio rischio di andare incontro alla patologia.

     Una testimonianza valida non solo dell’esistenza di questo lungo processo evolutivo – quasi illimitato – ma soprattutto delle problematiche che possono intervenire a ostacolarlo è data dallo studio della nostra attività onirica. Jung esaminò con attenzione i sogni – si dice che ne interpretò circa 80.000 ma forse si tratta di una leggenda messa in giro da qualche fan – scoprendo che la nostra attività onirica segue una sua articolazione interna e si inserisce in una trama complessa di fattori psicologici. Se si osservano i sogni durante un lungo periodo di tempo e se ne esamina la successione, spesso essi si presentano ’in sequenza’. Si potrà allora notare che certe immagini si ripresentano nel tempo, quasi a indicare luoghi psichici, agglomerati di senso che a un certo punto iniziano un loro svolgimento e quindi si sviluppano fino a esaurirsi. Chi lavora con i sogni sa bene che l’interpretazione – soprattutto se ’centrata’ – potrà mutare l’atteggiamento del sognatore, e in questo modo influenzare e modificare la processualità onirica. D’altro canto si può ritenere che un’interpretazione inopportuna o scorretta blocchi per così dire la tematica inconscia, il nucleo complessuale, che infatti tornerà a presentarsi immutato e irrisolto nelle immagini oniriche. Ciò indica che non è stata possibile una elaborazione del contenuto cifrato, e che l’inconscio continua a sottoporre alla coscienza quelle rappresentazioni che risultano ancora investite di emozioni.

     Nei sogni si chiariscono le tendenze dello sviluppo individuale e i motivi di fondo della personalità. Di alcuni di essi si dice che abbiano significato profetico e in effetti anticipano una direzione evolutiva, prefigurano la soluzione che ancora sfugge alla coscienza ma che è già presente nell’inconscio. Il primo o i primi sogni che un paziente porta in analisi sono molto preziosi, proprio per il fatto che attraverso la condensazione simbolica, essi offrono una qualche indicazione sulle prospettive a venire. Questo sviluppo psichico non è prodotto da un atto intenzionale, e sebbene l’Io vi partecipi, esso sembra mosso da un centro regolatore che sovrasta l’Io e lo contiene. È il Sé, centro della totalità psichica e suo principio-guida, distinto dall’Io che rappresenta invece il centro della coscienza. Nei sogni il Sé è rappresentato in modo simbolico da una cospicua serie di immagini, l’albero o il mandala per esempio. Possiamo immaginarlo come la radice o il centro attorno al quale si dispongono come raggi le funzioni e i temi psichici universali. Essi assumono così una configurazione unitaria, l’immagine di una totalità disegnata da direttrici indipendenti che hanno una stessa matrice e si ricongiungono nella circonferenza. Immagine psichica del Sé è già testimoniata nella cultura antica. E una sorta di guida inconscia che regola lo sviluppo continuo e costante nel tempo della personalità. Se il corpo invecchia, non è così per lo sviluppo psichico, per la maturazione complessiva della personalità. Ogni fase della vita coincide con una fase dello sviluppo psicologico, persino la vecchiaia, a torto considerata una sorta di "anticamera della morte".

     Per quanto riguarda il compito individuativo cui è chiamato ogni singolo, Jung afferma che la dinamica del processo di crescita si diversifica nella prima e nella seconda metà della vita. Nella prima, che va dalla nascita della coscienza alla metà della vita, l’individuo è chiamato a rispondere alle esigenze del suo essere un agente collettivo e un rappresentante della specie, adempiendo ai suoi doveri di continuatore della specie. Il bambino, che ha iniziato la sua vita psicologica in un ambiente molto ristretto, amplia, con il passare degli anni, il suo orizzonte, mentre cresce il peso e la responsabilità delle sue azioni. La prima metà della vita è dunque caratterizzata da una tensione estrovertita, per la quale il soggetto cerca il proprio posto nel mondo, un compagno o una compagna, amici con cui dividere il cammino. Le sue energie e le sue intenzioni sono volte ad affermare e consolidare la propria influenza sul mondo circostante, "farsi una posizione" e raggiungere obiettivi concreti e legati al proprio ruolo professionale e sociale.

     La metà della vita corrisponde a un’importante fase di passaggio verso una nuova tappa dello sviluppo psicologico:

    
       "Le madri vengono eclissate dai loro figli, gli uomini dalle loro opere, ciò cui prima si era dato vita a stento, a prezzo magari di grandi sforzi, ora non può più essere fermato nel suo cammino [...] La mezza età è il periodo di massima fioritura, quello in cui l’uomo è ancora intento alle sue opere con tutte le sue forze e tutta la sua volontà. Ma in quel momento si annuncia anche il crepuscolo, inizia la seconda metà della vita. La passione cambia volto e ora si chiama dovere, il volere si trasforma inesorabilmente in obbligo, e le vicissitudini della vita, che prima erano sorprese e scoperte, diventano un’abitudine. Il vino è fermentato e comincia a farsi più limpido" (Jung 1925,186-7).
   

     È il tempo dei bilanci e della effettiva conoscenza della propria intima natura. Lungi dall’essere uno sterile ripiegamento su se stessi, un inaridirsi progressivo delle proprie capacità, è l’inizio di un lungo processo di concentrazione dell’energia libidica verso mete differenti; laddove nella prima metà della vita la tensione era rivolta all’adattamento, adesso si comincia a riflettere su come si è vissuto, sulle scelte compiute e sulle occasioni mancate, sul coraggio che non si è avuto, sui rischi che si è preferito evitare. Ciò determina una fase di introversione, e la possibilità di attingere alle risorse dell’inconscio una volta che, avendo compiuto le azioni necessarie nel mondo, ci si può volgere all’interno e accogliere le sollecitazioni a un ripiegamento sull’interiorità.

     La relazione della psiche con il mondo non conosce interruzioni, e ciascuna età della vita offre all’individuo la possibilità di accrescere la consapevolezza di sé come essere in divenire. Jung sostenne che la tecnica di indagine del profondo che aveva elaborato era più adatta a persone che avessero superato la soglia della prima metà della vita. Conoscenza per Jung è ampliamento della coscienza, che via via integra contenuti inconsci. Per questo cammino, che illumina di senso la propria vicenda esistenziale e che non a caso è il solo terapeutico, non esiste limite d’età.

     In verità, la possibilità di ampliare la propria coscienza non può mai ritenersi impossibile e persino là dove patologie come la depressione abbiano costretto l’individuo a uno sterile ripiegamento su se stesso, è comunque possibile pianificare una strategia di intervento. Lo sviluppo dell’individuo può dunque arrestarsi a un certo livello, incrinarsi e persino essere messo in discussione a causa delle circostanze esterne, tuttavia esso mai dovrebbe ritenersi concluso. Non c’è fase dell’esistenza che, per quanto drammatica possa apparire, debba essere considerata il preludio della fine: non dovrebbero esistere i vicoli ciechi fra i meandri della psiche umana. Certo, è inutile negarlo, prima o poi tutti attraversiamo fasi di sconforto o momenti paragonabili a una vera e propria morte. Tuttavia, anche in questi casi la rinascita è sempre possibile, oltreché auspicabile, soprattutto laddove lo sconforto sia alleviato da ciò che abbiamo denominato "arte della relazione".



Bibliografia

Carotenuto, A., Breve storia della psicoanalisi, Bompiani, Milano, 2002

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