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Follia e psichiatria




Oggi è spontaneo collegare l’espressione «follia» a «psichiatria», come se si trattasse di un nesso causa-effetto. In realtà non è così. Per molto tempo della follia si sono occupate la religione o la filosofia, quindi, per paradosso, ambiti che semmai appartenevano alla cosiddetta normalità.

   Sulla base di questa considerazione, possiamo perciò dire che la lettura del comportamento umano (che sia folle o meno) è fortemente cambiata nel corso del tempo all’interno della medesima cultura, e ha avuto interpretazioni perfino opposte in culture diverse. Ciò significa che se in un luogo la cosiddetta «follia» era curata, in un altro era addirittura considerata come un modello esistenziale. In altre parole, i due termini, «follia» e «psichiatria», potrebbero essere raccontati in maniera separata, come se non esistesse alcun rapporto tra loro.

   Michel Foucault, nella sua Storia della follia nell’età classica (1963), sostiene che l’origine della psichiatria vada fatta risalire alla fine del Seicento. Tra i poveri, riuniti a partire dal 1657 nell’Hôpital général (l’etimologia di hôpital è la stessa sia di «ospite» sia di «hotel»), vengono identificati gli alienati, individui che richiedono un’attenzione particolare, e per i quali è necessaria una cura specifica, attuata all’Hôtel-Dieu e, più tardi, a La Salpêtrière, che sarà diretta da Philippe Pinel, ritenuto oggi il primo psichiatra della storia. È a lui che si deve la classificazione più antica delle malattie mentali e l’invenzione del traitement moral, che arricchisce il traitement phisique, per lo più limitato alle contenzioni e alle restrizioni della libertà dei folli.

   Se questo evento è certamente importante per la psichiatria, non si può dimenticare che una delle categorie della follia, l’epilessia, molti secoli prima, in Grecia, era definita «morbo sacro». Un quadro patologico era cioè interpretato come un evento divino.

   Anche le Pizie di Delfi, sacerdotesse del Tempio, che andavano incontro a crisi convulsive, si riteneva che esprimessero con le loro parole, all’apparenza incomprensibili, un messaggio divino.

   Per primo Ippocrate (V-IV secolo a.C.) si è opposto a questa visione, rifiutando il carattere sovrannaturale dell’epilessia: «Riguardo al cosiddetto “male sacro”, le cose stanno così: a me non sembra affatto che esso sia più divino o più sacro delle altre malattie, anzi esso ha una struttura naturale e le sue cause sono razionali». In un altro passo ribadisce: «L’insorgenza di questo male è da imputarsi al cervello, così come per le altre malattie più significative».*

   L’affermazione di Ippocrate, poiché attribuisce al cervello la causa di questa malattia, ha un chiaro contenuto psichiatrico.

   Questo accenno prova che i disturbi che adesso chiamiamo psichiatrici sono stati valutati nella storia secondo vari criteri, inclusi quelli che attualmente sono propri della psichiatria, ma adottati ben prima che questa esistesse come disciplina, e soprattutto prima della creazione di luoghi in cui curare i folli.

   Per lungo tempo la follia è stata considerata l’effetto di una possessione degli spiriti del male, che andavano quindi trattati con gli esorcismi, pratiche destinate a tirar fuori e a cacciare i demoni dal corpo del malato-indemoniato.

   La stessa origine demoniaca era attribuita ad altre forme di malattia (la parola «malattia» deriva del resto da «male») e la cura consisteva sempre nell’estrazione del «maligno», dello spirito del male, realizzata attraverso salassi, o l’uso di purganti o di emetici e persino con la chirurgia (tecnica per tirar fuori).

   È stato sostenuto a lungo che il folle fosse portatore della «pietra della follia»: l’opera di Hieronymus Bosch, conservata al Prado, intitolata per l’appunto L’estrazione della pietra della follia (o La cura della follia, 1494), ce ne offre una splendida rappresentazione, perché ha come soggetto un intervento chirurgico al cervello.

   La Storia della follia di Foucault va dunque intesa come la descrizione della nascita di una visione della psichiatria, che è quella arrivata ai giorni nostri.

   Lo stesso percorso che si attiva in Francia alla fine del Seicento si diffonde ben presto in tutta Europa: se in Inghilterra, già nel 1547, il Bethlem Royal Hospital di Londra era stato destinato specificamente ai folli, in Italia, nel Granducato di Toscana, è Vincenzio Chiarugi a riorganizzare la cura delle malattie mentali presso l’Ospedale Bonifazio, di cui diventa Primus Infirmarius, cioè primario, nel 1788. Nel 1793 Chiarugi pubblica Della pazzia in genere e in specie, dando anch’egli una descrizione e una classificazione per il trattamento psichiatrico.

   La debolezza del legame tra follia e psichiatria è continuata a lungo ed è ancora evidente nel tempo presente; pensiamo per esempio all’omosessualità, che fino al 1991 era considerata una malattia psichiatrica, sovente curata in manicomio. Solo in quell’anno, infatti, è stata cancellata dall’elenco delle malattie e riconosciuta come una semplice caratteristica della personalità. Se oggi uno psichiatra pronunciasse una diagnosi di omosessualità, sarebbe accusato di malpractice.

   Nel Novecento la psichiatria ha curato anche i cosiddetti «dissidenti»: in Unione Sovietica chi non accettava la dittatura di Stalin era dichiarato affetto da disturbi del pensiero e rinchiuso in una sezione speciale dei manicomi. Non diversamente dai deliranti, che interpretavano in modo errato la realtà, e dagli schizofrenici che, come primo segno di follia, si dimostravano incapaci di applicare i princìpi della ragione.

   Un altro dittatore, Adolf Hitler, definì gli ebrei malati, e scelse cinque ospedali psichiatrici per la loro eliminazione: questa era la cura.

   Dai tempi di Hitler possiamo fare un salto indietro e passare, per similitudine, alla perfetta sintonia tra l’uso della psichiatria e l’uso del rogo durante l’Inquisizione sostenuta da papa Innocenzo III.

   Il braccio secolare della Chiesa scelse la soluzione estrema: eliminare gli eretici (nel significato originale, si trattava di chi prendeva sentieri diversi, distaccandosi dai princìpi della dottrina della Chiesa), in quanto folli, proprio nel senso di «posseduti dal demonio». In questo modo il rogo bruciava non propriamente un uomo, ma un «posseduto» dal male.

   La follia, nelle diverse fasi della storia, è dunque un’espressione ora contro Dio, ora contro il dittatore, e a «curarla» provvedono istituzioni lontane dalla medicina anche se rivestite dello stesso potere che sarebbe in seguito stato riservato agli psichiatri.

   La distanza tra follia e psichiatria è forse ancora più evidente quando si giunge a ritenere lo psichiatra uno strumento clinico a servizio del potere. «Poliziotto in camice bianco», questa è la definizione che ne dà per esempio la contestazione del Sessantotto.

   Questo trattamento del folle è lontano da ogni disciplina scientifica fondata sui princìpi della logica e sui dati di una sperimentazione che non è soggetta alle ideologie, ma porta a risultati che otterrebbe chiunque decidesse di ripeterla e che conducono a un’unica conclusione.

   Data una malattia, occorre cercarne la causa e a quel punto si progetta una sostanza in grado di toglierla. Così nasce un farmaco. Ma non sempre il percorso della scienza è «rispettato». Recentemente si è assistito all’invenzione di quadri clinici al servizio del potere degli imperi farmacologici che, in possesso di molecole genericamente attive nel cervello, avevano bisogno di un disturbo a cui applicarle e che la psichiatria doveva inventare: è il caso per esempio dei disturbi dell’attenzione e della irrequietezza motoria nel bambino.

   Come si può constatare, dunque, non stiamo parlando solo di un passato lontano, ma del presente, ed è per questa ragione che continuo ad affermare di far parte soltanto di una psichiatria scientifica. Il permanere di residui pseudoscientifici, che possono essere sottoposti a ogni tipo di strumentalizzazione, rende ancora necessario sottolinearlo.

   Che cosa intendo per psichiatria scientifica? Intendo una disciplina che si occupa dei disturbi mentali (delle follie) sulla base di valutazioni controllate, che seguono il sapere delle scienze. Solo in questa maniera si può sostenere il binomio disturbo-terapia: quel trattino tra i due termini simboleggia la presenza della scienza.

   Se guardiamo a una qualsiasi altra branca della medicina moderna, tra disturbo (per esempio, le cardiopatie) e interventi terapeutici esiste un nesso che lega il disturbo a una causa, sulla base della quale verrà organizzata razionalmente la terapia.

   La scienza stabilisce la causa (o le cause), e quanto più significativi saranno i risultati sperimentali, proporzionalmente più adeguati risulteranno i sistemi adottati per affrontarne gli effetti.



Bibliografia

Vittorino Andreoli, I princìpi della nuova psichiatria, Rizzoli, 2017

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