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Non anticiperemo qui quanto diciamo di Mosè nella voce a lui dedicata; seguiremo, per ordine, qualche passo principale del Genesi.

«Nel principio Iddio creò il cielo e la terra.»

Così è stato tradotto, ma la traduzione non è esatta. Non c'è uomo un po' istruito che non sappia che il testo porta:

«Nel principio, gli dei fecero» oppure «gli dei fece il cielo e la terra».

D'altronde, questa lezione è conforme
all'antica idea dei fenici, i quali avevano immaginato che Dio, avesse impiegato divinità inferiori per dare ordine al
caos, lo sciautereb. I fenici erano da molto tempo un popolo potente, che aveva già la sua teogonia pr ima che gli ebrei si
fossero impadroniti di qualche villaggio sui confini del loro paese. È ben naturale pensare che, quando gli ebrei ebbero
finalmente un piccolo insediamento presso la Fenicia, abbiano cominciato ad apprenderne la lingua, soprattutto quando
vi furono schiavi. Allora, coloro che impararono a scrivere, si misero bellamente a copiare qualcosa dell'antica teologia dei loro padroni: è così che avanza lo spirito umano.
Nei tempi in cui si crede che Mosè sia vissuto, i filosofi fenici ne sapevano probabilmente abbastanza per considerare la terra come un punto, a paragone della infinita moltitudine di mondi che Dio ha posti nell'immensità dello spazio chiamato «cielo». Ma quell'idea, così antica e così falsa che il cielo sia stato fatto per la terra, è sempre prevalsa nel volgo ignorante. È press'a poco come se si dicesse che Dio creò tutte le montagne e un granello di sabbia, e ci si immaginasse che le montagne siano state fatte per quel granello! Non è possibile che i fenici, così abili navigatori, non
avessero dei buoni astronomi; ma i vecchi pregiudizi prevalevano, e questi vecchi pregiudizi furono la sola scienza
degli ebrei.

«La terra era tohu-bohu e vuota; le tenebre erano sopra la faccia dell'abisso, e lo spirito di Dio era portato sulle
acque.»

Tohu-bohu significa precisamente caos, disordine; è uno di quei vocaboli imitativi che si trovano in tutte le lingue, come «sottosopra», «frastuono», «trictrac». La terra non aveva ancora la forma di adesso, la materia esisteva, ma la potenza divina non l'aveva ancora formata. Lo spirito di Dio significa il soffio, il vento, che agitava le acque.
Quest'idea è espressa nei frammenti dell'autore fenicio Sanchuniathon. I fenici, come tutti gli altri popoli, credevano
all'eternità della materia. Non c'è un solo autore, nell'antichità, che abbia mai detto che qualcosa sia stato tratto dal
nulla. In tutta la Bibbia non si trova nemmeno un passo in cui si dice che la materia venne creata dal nulla.
Gli uomini furono sempre divisi sulla questione dell'eternità del mondo, ma mai su quella dell'eternità della materia.
Ex nihilo nihil, in nihilum nil posse reverti.
Ecco l'opinione di tutta l'antichità.

«Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu; ed egli vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e Dio chiamò la luce "giorno" e le tenebre "notte": e la sera e il mattino furono un giorno. E Dio disse anche: Sia fatto il
firmamento in mezzo alle acque, ed esso separi le acque dalle acque. E Dio fece il firmamento e divise le acque al di
sopra del firmamento da quelle al di sotto del firmamento; e Dio chiamò il firmamento "cielo". E la sera e il mattino
furono il secondo giorno ecc. E Dio vide che ciò era buono.»

Cominciamo con l'esaminare se il vescovo di Avranches, Huet, e Leclerc non abbiano avuto veramente ragione contro coloro che pretendono di trovare in questo passo un tratto di eloquenza sublime.
Questo tipo di eloquenza non appartiene a nessuna storia scritta dagli ebrei. Lo stile è qui della massima semplicità, come nel resto dell'o pera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, si servisse di questa sola
espressione:

«Egli disse: Sia fatta luce, e la luce fu»,

sarebbe veramente sublime. Tale è quel passo di un salmo:

«Dixit, et facta sunt».

È un tratto che, unico in quel passo e posto in modo da rendere una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma qui siamo davanti a una narrazione di una semplicità assoluta. L'autore ebreo non parla della luce
diversamente da come parla degli altri oggetti della creazione; ripete egualmente ad ogni versetto:

«E Dio vide che ciò era buono».

Tutto è sublime nella creazione, non c'è dubbio: ma quella della luce non lo è più di quella dell'erba dei campi. Sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, mentre qui lo stesso tono regna in tutto il capitolo.
Era anche opinione antichissima che la luce non venisse dal sole. Vedendola diffondersi prima del levarsi e dopo il tramontare del sole, gli uomini immaginavano che il sole servisse solo a darle maggior forza. Così l'autore del Genesi si conforma a questo errore popolare; e, per una singolare inversione dell'ordine delle cose, fa creare il sole e la luna addirittura quattro giorni dopo la luce. Non riusciamo a capire come ci possano essere un mattino e una sera prima che ci sia un sole: c'è qui una confusione che è impossibile sbrogliare. Quell'autore «ispirato» si conformava ai vaghi e rozzi pregiudizi del suo popolo. Dio non pretendeva di insegnare la filosofia agli ebrei; certo, avrebbe potuto innalzare il loro spirito fino alla verità, ma preferì abbassarsi fino a loro.
La separazione della luce e delle tenebre non appartiene a una fisica migliore; sembra che la notte e il giorno fossero mescolati assieme come grani di specie diversa che debbano venir separati. È abbastanza noto che le tenebre non sono altro che la privazione della luce, e che non c'è luce, in realtà, se non in quanto i nostri occhi ne ricevono la
sensazione; ma a quei tempi si era ben lontani dal conoscere queste verità.
Anche l'idea di un firmamento appartiene alla più remota antichità. Ci si immaginava che i cieli fossero del tutto solidi, perché vi si vedevano sempre gli stessi fenomeni. I cieli ruotavano sul nostro capo, e dunque dovevan essere fatti di una materia durissima. E il modo di calcolare come le esalazioni della terra e dei mari potevano fornire acqua alle nubi? Non c'era nessun Halley che potesse fare questo calcolo. Ci dovevan essere dunque dei serbatoi d'acqua, nel cielo.
Questi serbatoi non potevano essere sostenuti che da una volta molto solida: vi si vedeva attraverso, e dunque essa doveva essere di cristallo. Perché le acque superiori cadessero da questa volta sulla terra, era necessario che ci fossero porte, chiuse, cateratte, che s'aprissero e si chiudessero. Tale era l'astronomia ebraica; e poiché si scriveva per
gli ebrei, bisognava pur adottare le loro idee.

«E Dio fece due grandi luminari: uno per presiedere al giorno, l'altro alla notte; e fece anche le stelle.»

Sempre la stessa ignoranza della natura. Gli ebrei non sapevano che la luna illumina solo di luce riflessa. E l'autore parla qui delle stelle come di una bagattella, sebbene esse siano altrettanti soli ciascuno dei quali ha dei mondi
che ruotano attorno a lui. Lo Spirito Santo si proporzionava allo spirito dei tempi.

«Dio disse ancora: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, che sia padrone dei pesci del mare"...»

Che intendevano gli ebrei per «facciamo l'uomo a nostra immagine»? Quel che intendeva tutta l'antichità:

Finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.

Si fanno immagini solo di corpi. Nessun popolo immaginò un Dio senza corpo, ed è impossibile
rappresentarselo altrimenti. Si può ben dire:

«Dio non è nulla di tutto ciò che conosciamo»,

ma non si può avere alcuna idea di quello che egli è. Gli ebrei credettero sempre a un Dio corporeo, come tutti gli altri popoli. Tutti i primi Padri della Chiesa credettero anch'essi a un Dio corporeo, finché non ebbero abbracciato le idee di Platone.

«Egli li creò maschio e femmina.»

Se Dio o gli dei secondari crearono l'uomo maschio e femmina, sembra, in questo caso, che gli ebrei credessero
Dio e gli dei maschi e femmine. D'altronde non si capisce se l'autore voglia dire che l'uomo aveva dapprima in sé i due
sessi, o se intende che Dio creò Adamo ed Eva lo stesso giorno. Il senso più naturale è che Dio formò Adamo ed Eva
contemporaneamente, ma questo sarebbe in contraddizione con la formazione della donna, fatta con una costola
dell'uomo molto tempo dopo i sette giorni.

«Ed egli il settimo giorno si riposò.»

I fenici, i caldei, gli indiani dicevano che Dio aveva creato il mondo in sei tempi, che l'antico Zoroastro chiama
i sei gâhânbâr, così celebri tra i persiani.
È incontestabile che tutti questi popoli avevano una teologia prima che l'orda ebraica abitasse i deserti di Horeb
e del Sinai, prima che potesse avere degli scrittori. È dunque assai verosimile che la storia dei sei giorni sia stata imitata
da quella dei sei tempi.

«Dal luogo di voluttà usciva un fiume che irrigava il giardino, e di lì si divideva in quattro fiumi; il primo si
chiama Pishon (Fison), che gira nel paese di Havila da cui viene l'oro... Il secondo si chiama Ghihon, che circonda
l'Etiopia... Il terzo è il Tigri e il quarto l'Eufrate.»

Secondo questa versione il paradiso terrestre avrebbe occupato quasi un terzo dell'Asia e dell'Africa. L'Eufrate e il Tigri hanno la loro sorgente a più di sessanta leghe l'una dall'altra, tra montagne orribili che non somigliano certo ad un giardino. Il fiume che costeggia l'Etiopia, e che non può essere che il Nilo o il Niger, comincia a più di settecento
leghe dalle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate; e, se il Fison è il Fasi, è ben strano che sia stata messa nello stesso luogo la sorgente di un fiume della Scizia e quella di un fiume dell'Africa.
Del resto, il giardino dell'Eden è chiaramente quello di Eden a Saana, nell'Arabia Felice, famosa in tutta l'antichità. Gli ebrei, popolo molto recente, erano un'orda araba. E menavano vanto di quel che c'era di più bello nel miglior cantone dell'Arabia. Essi si son sempre serviti delle antiche tradizioni delle grandi nazioni in cui si trovavano
incorporati.

«Il Signore prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di voluttà perché lo coltivasse.»

È una bellissima cosa «coltivare il proprio giardino», ma è molto improbabile che Adamo potesse coltivare un giardino di sette od ottocento leghe d'estensione. O forse gli furon dati degli aiutanti.

«Non mangiate il frutto della scienza del bene e del male.»

È difficile concepire che ci sia stato un albero che insegnasse il bene e il male, come ci sono peri e albicocchi.
E poi, perché Dio non vuole che l'uomo conosca il bene e il male? Il contrario non è molto più degno di Dio e molto più
necessario all'uomo? Secondo la nostra povera ragione parrebbe giusto che Dio ordinasse di mangiarne molto di quel frutto; ma bisogna che la nostra ragione si sottometta.

«Come ne avrete mangiato, morirete.»

Tuttavia Adamo ne mangiò e non morì. Molti Padri hanno considerato tutto ciò un'allegoria. In effetti, si potrebbe dire che gli animali non sanno di dover morire, mentre l'uomo lo sa per merito della sua ragione. Questa ragione è l'albero della scienza che gli fa prevedere la sua fine. Una spiegazione che potrebbe essere forse la più ragionevole.

«Il Signore disse anche: "Non è bene che l'uomo sia solo, facciamogli un aiuto simile a lui."»

Ci si aspetta che il Signore dia ad Adamo una donna. Nient'affatto: il Signore gli dà come compagni tutti gli animali.

«E il nome che Adamo diede a ciascuno degli animali è il loro vero nome.»

Per «vero nome» di un animale si può intendere un nome che designi tutte le proprietà della sua specie, o almeno le principali. Ma questo non si trova in nessuna lingua del mondo. In ognuna vi sono solo alcuni nomi imitativi, come «coq» in lingua celtica e «lupus» in latino. Ma questi nomi imitativi sono in numero minimo. E poi, se Adamo avesse conosciuto tutte le proprietà degli animali, o aveva già mangiato il frutto della scienza, o non c'era bisogno che
Dio gli vietasse di mangiarlo.
Osservate che questa è la prima volta che Adamo è nominato nel Genesi. Presso gli antichi brahmani, enormemente anteriori agli ebrei, il primo uomo si chiamava Adimo, «il figlio della terra», e sua moglie Procriti, «la vita»: è quel che dice il Veidam, che è forse il libro più antico del mondo. I nomi di Adamo e di Eva avevano lo stesso significato, nella lingua fenicia.

«Mentre Adamo era addormentato, Dio prese una delle sue costole, e mise della carne al suo posto, e, con la costola tolta ad Adamo, fece una donna e la condusse ad Adamo.»

Il Signore, nel capitolo precedente, aveva già creato il maschio e la femmina; perché dunque togliere una costola all'uomo per farne una donna che già esisteva? Si suol rispondere che l'autore annuncia in un luogo quel che spiega nell'altro.

«Ora il serpente era il più astuto degli animali della terra... Esso disse alla donna...»

In tutto questo passo non si fa nessuna menzione del diavolo; tutto qui è puramente fisico. Il serpente era considerato da tutti i popoli orientali non solo come l'animale più astuto di tutti, ma anche come immortale. In una favola dei caldei si narrava di una lite tra Dio e il serpente; questa favola era stata conservata da Ferecide. Origene la
cita nel suo sesto libro Contro Celso. Nelle feste di Bacco si portava in processione un serpente. A quanto dice Eusebio,
nella sua Praeparatio Evangelica, libro I, capitolo X, gli egiziani attribuivano al serpente un carattere divino. In Arabia
e nelle Indie e nella Cina stessa, il serpente era considerato come il simbolo della vita; è questa la ragione per cui gli
imperatori cinesi, anteriori a Mosè, portarono sempre sul petto l'immagine di un serpente.
Eva non è affatto stupita che il serpente le parli. Gli animali han sempre parlato, in tutte le antiche storie; è per questo che quando Pilpai e Loqman fecero parlare gli animali, nessuno ne restò sorpreso.
Tutta questa avventura è talmente fisica e spoglia d'ogni allegoria, che vi si spiega perché, da allora, il serpente
striscia sul ventre, perché noi cerchiamo sempre di schiacciarlo e perché esso cerca sempre di morderci; precisamente
come si spiegava nelle antiche storie di metamorfosi perché il corvo, che in altri tempi era bianco, oggi è nero; perché il
gufo esce dal suo buco solo di notte; perché il lupo ama la strage ecc.

«Io moltiplicherò le tue miserie e le tue gravidanze: partorirai nel dolore; sarai sotto il potere dell'uomo ed egli
ti dominerà.»

Non si capisce perché la moltiplicazione delle gravidanze sia una punizione. Era, al contrario, una grandissima
benedizione, soprattutto per gli ebrei. I dolori del parto sono forti solo nelle donne delicate: quelle che sono abituate al
lavoro partoriscono senza difficoltà, soprattutto nei climi caldi. E invece ci sono animali che soffrono molto durante il
parto, e ce ne sono anche che ne muoiono. Quanto poi alla superiorità dell'uomo sulla donna, è cosa assolutamente
naturale: è l'effetto della maggior forza fisica, e anche spirituale. Gli uomini in generale hanno organi più capaci di
un'applicazione continua e sono più adatti ai lavori della mente e del braccio. Ma quando una donna ha più polso e più
acume del marito, ella ne è in tutto la padrona: in questo caso il marito è soggetto alla moglie.

«Il Signore fece loro tuniche di pelle.»

Questo passo prova chiaramente che gli ebrei credevano in un Dio corporeo, dato che gli fanno esercitare il mestiere di sarto. Un rabbino chiamato Eliezer scrisse che Dio coprì Adamo ed Eva con la stessa pelle del serpente che li aveva tentati; e Origene pretende che questa tunica di pelle era una nuova carne, un nuovo corpo che Dio fece all'uomo.

«E il Signore disse: "Ecco Adamo che è diventato come uno di noi."»

Bisogna rinunciare al senso comune per non convenire che gli ebrei ammisero da principio più dei. Più difficile
è sapere che cosa intendessero con la parola Dio, Elôhîm. Qualche commentatore ha preteso che questa parola, che
significa «uno di noi», alluda alla Trinità; ma nella Bibbia è certo che non si parla mai della Trinità. La Trinità non è un
insieme di più dei, è lo stesso Dio triplice; e gli ebrei non intesero mai parlare di un Dio in tre persone. Con queste parole «simili a noi», è molto probabile che gli ebrei intendessero gli angeli, Elôhîm, e quindi che questo libro fu scritto quando essi adottarono la credenza di queste divinità inferiori.

«Il Signore lo mandò via dal giardino di voluttà perché coltivasse la terra.»

Ma il Signore lo aveva messo in quel giardino perché lo «coltivasse». Se Adamo da giardiniere diventò agricoltore, bisogna riconoscere che il suo stato non peggiorò molto: un buon agricoltore val bene un buon giardiniere.
Tutta questa storia in generale si riferisce all'idea che ebbero tutti gli uomini e che hanno ancora: che i primi
tempi fossero migliori dei nuovi. Sempre ci siamo lamentati del presente e abbiamo rimpianto il passato. Gli uomini
sovraccarichi di lavoro posero la felicità nell'ozio, senza pensare che la peggiore delle condizioni è quella di non aver
niente da fare. E quando l'uomo si sentì infelice, si foggiò l'idea di un tempo in cui tutti erano stati felici. Su per giù è
come se si dicesse: «Ci fu un tempo in cui nessun albero moriva, nessuna bestia era né malata né debole, né divorata da
un'altra.» Di qui l'idea dell'età dell'oro, dell'uovo bucato da Arimane, del serpente che rubò all'asino la ricetta della vita
felice e immortale, che l'uomo aveva messo sul suo basto; di qui il combattimento di Tifone contro Osiride, di Ofioneo
contro gli dei, e quel famoso vaso di Pandora, e tutte quelle antiche favole delle quali qualcuna è divertente, ma nessuna è istruttiva.

«Ed egli mise nel giardino di voluttà un cherubino con una spada volteggiante e fiammeggiante per custodire
l'accesso all'albero della vita.»

La parola Kerub significa «bue». Un bue armato di una spada fiammeggiante fa una curiosa figura davanti a una porta. Ma gli ebrei rappresentarono più tardi degli angeli in figura di buoi e di sparvieri, sebbene fosse loro proibito fare qualsiasi immagine. Sicuramente essi presero quei buoi e quegli sparvieri dagli egiziani, da cui imitarono tante
cose. Gli egiziani venerarono dapprima il bue come simbolo dell'agricoltura, e lo sparviero come quello dei venti; ma
non fecero mai di un bue un portinaio.

«E i figli di Elôhîm, vedendo che le figlie degli uomini erano belle, presero per mogli quelle che scelsero.»

Anche quest'immaginazione fu comune a tutti i popoli: non c'è paese, esclusa la Cina, in cui qualche dio non sia sceso a fare figli con qualche ragazza. Questi dei corporei discendevano spesso sulla terra per visitare i loro domini; vedevano le nostre ragazze e sceglievano le più belle; i figli nati dal connubio di questi dei con donne mortali dovevano essere superiori agli altri uomini; così il Genesi non manca di dire che questi dei che si unirono alle nostre ragazze
misero al mondo dei giganti.

«E io farò scendere sulla terra le acque del diluvio.»

Osserverò soltanto che sant'Agostino, nel suo De civitate Dei, dice:
«Maximum illud diluvium graeca nec
latina novit historia»:

né la storia greca, né quella latina conoscono questo grande diluvio. Infatti, in Grecia, si sapeva solo di quelli di Deucalione e di Ogige, considerati come universali nelle favole raccolte da Ovidio, ma del tutto ignorati nell'Asia orientale.

«Dio disse a Noè: "Io stringerò un patto di alleanza con te e con la tua progenie dopo di te e con tutti gli
animali."»

Dio che si allea con le bestie? Bella unione!, dicono gli increduli. Ma se egli si allea con l'uomo, perché non con la bestia? Anch'essa è dotata di sentimento, e nel sentimento c'è qualcosa di altrettanto divino che nel pensiero più metafisico. D'altronde gli animali sentono molto più di quanto non pensi la maggior parte degli uomini. Molto
probabilmente, proprio in virtù di quel patto, Francesco d'Assisi, fondatore dell'ordine serafico, diceva alle cicale e alle lepri:

«Canta, sorella cicala; bruca, fratello leprotto.»

Ma quali furono le condizioni del patto? Che tutti gli animali si sarebbero divorati l'un l'altro; che si sarebbero nutriti del nostro sangue, e noi del loro; che, oltre a mangiarli, li avremmo ferocemente sterminati; ci resta soltanto di mangiare i nostri simili scannati con le nostre mani. Se ci fosse stato un tale patto, sarebbe stato un patto col diavolo.
Probabilmente tutto questo passo non vuol dire altro che Dio è ugualmente padrone assoluto di tutto ciò che respira.

«E io metterò il mio arco nelle nubi e questo sarà un segno del mio patto...»

Notate che l'autore non dice: «Ho messo il mio arco nelle nubi», ma dice: «metterò»; il che evidentemente presuppone che era opinione comune che l'arcobaleno non fosse sempre esistito. È un fenomeno causato dalla pioggia; e qui lo si presenta come qualcosa di soprannaturale, per avvertire che la terra non sarà più inondata. È strano scegliere il segno della pioggia per rassicurare che non moriremo annegati. Ma si può anche rispondere che, nel pericolo
dell'inondazione, si è rassicurati dall'arcobaleno.

«E, verso sera, i due angeli arrivarono a Sodoma...»

Tutta la storia dei due angeli che i sodomiti volevano violentare è forse la più straordinaria che l'antichità abbia
inventato. Ma bisogna considerare che quasi tutta l'Asia credeva nei demoni, incubi e succubi; che per di più quei due
angeli erano creature più perfette degli uomini, e dovevan essere più belli e suscitare, in un popolo corrotto, desideri più violenti che non gli uomini ordinari.
Quanto a Lot, che propone ai sodomiti le sue due figlie al posto dei due angeli, e alla moglie di Lot, mutata in una statua di sale, e a tutto il resto di questa storia, che si può dire? L'antica favola araba di Ciniro e Mirra ha qualche
affinità con la storia dell'incesto di Lot con le sue figlie; e l'avventura di Filemone e Bauci non è priva di analogie con
quella dei due angeli che apparvero a Lot e a sua moglie. Quanto alla statua di sale, non sappiamo a che somigli: forse
alla storia di Orfeo e di Euridice?
Ci sono stati dei dotti che hanno preteso che si togliessero dai libri canonici tutte queste storie incredibili che
scandalizzano i deboli di spirito, ma si è risposto che questi dotti erano cuori corrotti, persone da mandare al rogo; e che è impossibile essere un onest'uomo se non si crede che i sodomiti vollero violentare due angeli. È così che ragiona una genìa di mostri che vorrebbero dominare le menti.
Alcuni celebri Padri della Chiesa hanno avuto la prudenza d'interpretare tutte queste storie come allegorie, secondo l'esempio degli ebrei, e soprattutto di Filone. Alcuni papi, più prudenti ancora, vollero impedire che si
traducessero in volgare questi libri, per timore che gli uomini fossero in grado di giudicare quel che si proponeva loro di
adorare.
Dobbiamo concludere che coloro che intendono perfettamente questo libro devono essere tolleranti verso
coloro che non lo intendono, infatti, se questi non ci capiscono niente, non è colpa loro; ma chi non ci capisce niente, deve a sua volta essere tollerante verso chi capisce tutto.






Bibliografia


Voltaire, F.-M. Dizionario filosofico

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