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1. Introduzione

Il termine 'istinto' - come indica l'etimologia stessa (il termine latino instinctus deriva da instinguere, incitare) - è usato nel linguaggio ordinario per indicare un'azione o un comportamento posti in atto da un animale o da una persona in modo automatico, senza esserne consapevoli, a causa di una forza interna all'organismo. La definizione di Carlo Cattaneo sintetizza i significati che ancora oggi vengono comunemente attribuiti al termine: "Istinto [...] è una facultà delli esseri sensibili di compiere, senza previa esperienza o cognizione, certa serie di atti con ordine, costanza ed efficacia, come se fossero stimolati da una secreta forza" (v. Cattaneo, 1960, p. 127). Secondo la psicologia del senso comune il comportamento animale è basato essenzialmente sugli istinti che consentono la sopravvivenza dei singoli animali e dell'intera specie cui appartengono attraverso la soddisfazione dei bisogni primari della fame, della sete, del sonno e del sesso. Il comportamento umano sarebbe invece solo in minima parte istintivo, perché anche le azioni finalizzate alla soddisfazione dei bisogni primari sarebbero guidate dalla coscienza e modellate da fattori sociali e culturali. La nozione di istinto è presente quindi nelle 'teorie implicite' (v. Schneider, 1973) che ogni individuo si forma sulla vita psichica propria e altrui, su ciò che spinge in modo automatico e involontario oppure volontario a un certo comportamento, sulla differenza tra vita psichica istintiva e non consapevole degli animali da una parte e vita psichica consapevole della specie umana dall'altra. Se l'istinto è tuttora uno dei concetti più forti delle 'teorie implicite' della personalità e della psicologia del senso comune, esso ha perso invece la rilevanza esplicativa che aveva avuto nella prima metà del Novecento in varie teorie del comportamento animale e umano. La tematica dell'istinto è ormai scomparsa dai manuali di psicologia animale e comparata, mentre un tempo costituiva l'introduzione obbligata per tutta la trattazione successiva sul comportamento animale. Un'esposizione del concetto di istinto è dunque necessariamente una disamina storica del ruolo che esso ha avuto nella caratterizzazione delle teorie psicologiche elaborate dall'inizio del secolo fino agli anni sessanta circa, allorché si diffuse l'uso di indicare con nuovi concetti e termini tutto l'ambito dei fenomeni e processi comportamentali precedentemente ricondotti agli istinti. In una tradizione più propriamente psicologica il concetto di istinto ha avuto spesso un impiego molto generalizzato, che deve essere distinto da quello della tradizione protoetologica ed etologica, dove ha invece indicato una gamma più specifica di comportamenti osservati in primo luogo nel mondo animale.

2. La tradizione psicologica

Nella riformulazione 'scientifica' della psicologia avanzata nella seconda metà dell'Ottocento da Wilhelm Wundt, l'istinto appare come un concetto fondamentale per spiegare il comportamento animale e parte del comportamento umano. Per Wundt non vi sono solo gli istinti fondamentali, comuni agli animali e alla specie umana, della nutrizione e della riproduzione; egli ipotizza anche che alcuni comportamenti divenuti abitudinari di generazione in generazione si fissino e, mediante meccanismi ereditari, rimangano propri di un'intera specie animale: "Gli istinti complessi si possono quindi spiegare come prodotti dell'evoluzione di impulsi originariamente semplici, i quali si sono sempre più differenziati nel corso di numerose generazioni mediante abitudini individuali che a poco a poco s'aggiungono, si consolidano e si trasmettono per eredità" (v. Wundt, 1896; tr. it., p. 227). Wundt e gli altri esponenti della 'nuova' psicologia scientifica avevano assimilato una nozione di istinto che era penetrata nella cultura filosofica e scientifica vari secoli prima. Ad esempio, nel Seicento lo scrittore M. La Chambre aveva notato che gli animali hanno delle sensibilità speciali e specifiche per gli odori e altre forme di stimoli, alle quali si associano comportamenti non appresi di accettazione o di rifiuto; che il ridere o il piangere non sono soltanto forme espressive, ma rappresentano comportamenti innati di comunicazione per l'interazione sociale; e che infine questi comportamenti innati hanno una sede nel cervello. La tesi che gli istinti siano localizzati nel cervello si ritroverà nella frenologia tra Settecento e Ottocento, secondo cui ogni istinto (come quello della cura dei piccoli) ha una localizzazione cerebrale, talché un eccesso in un comportamento istintivo può essere rilevato dalla maggiore protuberanza esterna del cranio. Il filosofo H. Reimarus nel Settecento elencò una serie di 47 istinti che comprendevano i comportamenti più disparati (dall'evitamento del pericolo alla ricerca di cibo, dalla cura dei piccoli alla cooperazione con i conspecifici). Reimarus impiegò la parola Trieb per indicare l'istinto, termine che avrà un'accezione ben diversa nella teoria di Freud (v. § 2d).

a) Riflessi e istinti
William James definì l'istinto come "la facoltà di agire in modo tale da produrre certi fini, senza preveggenza dei fini, e senza una educazione precedente sulla prestazione" (v. James, 1890, vol. II, p. 383). In questa definizione sono messe in evidenza alcune caratteristiche fondamentali dell'istinto (è un processo finalizzato, non acquisito attraverso l'esperienza, ma innato) che rendono subito problematica la sua distinzione da altri meccanismi impiegati dagli organismi animali per l'adattamento all'ambiente. Infatti anche i riflessi sono processi finalizzati e innati di cui è dotato l'animale per rispondere alle stimolazioni ambientali e soddisfare i propri bisogni. La differenza tra i riflessi e gli istinti sarebbe solo quantitativa, nel senso che vi sarebbe una maggiore complessità delle azioni istintive rispetto a quelle riflesse, ma una sostanziale somiglianza dal punto di vista strutturale. Varie teorie della seconda metà dell'Ottocento proposero che gli istinti fossero catene o insiemi integrati di riflessi fondati, al pari dei riflessi semplici spinali, sul meccanismo dell'arco riflesso. La struttura dell'arco riflesso era concepita come l'insieme coordinato dei seguenti elementi: a) recettori degli organi di senso che ricevono la stimolazione dall'ambiente esterno all'organismo; b) vie nervose afferenti che trasmettono l'informazione sensoriale ai centri nervosi 'inferiori' del midollo spinale e/o a quelli 'superiori' del cervello; c) centri nervosi 'superiori' che analizzano l'informazione sensoriale e programmano la risposta da produrre; d) vie efferenti che trasmettono alla periferia la risposta da emettere; infine, e) organi periferici (muscoli, organi viscerali) che emettono la risposta. Nella formulazione di Secenov (v., 1863), ad esempio, gli istinti si differenziano dai riflessi non tanto nella struttura anatomo-funzionale, quanto nella complessità delle fonti di stimolazione e delle risposte motorie e vegetative. Ciò che l'animale eredita ai fini della sua sopravvivenza è appunto un'organizzazione di riflessi che si attiva di fronte a una specifica configurazione di stimoli che hanno un valore adattativo: il cibo, il partner per l'accoppiamento, ecc. sono infatti un insieme integrato di stimoli visivi, olfattivi, ecc. che fanno emettere automaticamente le risposte motorie e vegetative opportune. Anche P. Pavlov affermerà che "gli istinti sono la stessa cosa dei riflessi, ma sono più complessi nella loro composizione" (v. Pavlov, 1923; tr. it., pp. 94-95). In questa concezione riflessologica gli istinti hanno una struttura molto rigida, ricalcata sul modello dell'arco riflesso (a un dato stimolo corrisponde una risposta determinata). Tuttavia altri studiosi della fine dell'Ottocento, interessati più al comportamento animale che alla fisiologia del sistema nervoso, notarono che il comportamento 'istintivo' presenta, sia sul versante delle risposte emesse che su quello degli stimoli attivanti tale comportamento, una varietà di manifestazioni che non può essere ridotta a una sequenza fissa di stimoli-risposte. Le critiche alla teoria riflessologica si concentrarono quindi soprattutto sul problema di come conciliare la schematicità e rigidità dell'istinto concepito come riflesso con l'eterogeneità del comportamento istintivo dei singoli animali. Prendendo in considerazione la dimensione individuale, la questione del rapporto tra 'innato' e 'acquisito' negli istinti si poneva nei termini di una relazione tra fattori innati, specie-specifici, e fattori individuali acquisiti nel corso dell'ontogenesi. Secondo alcuni ambientalisti i comportamenti individuali, cioè le modalità di risposta a determinati stimoli adottate da singoli animali (abitudini, habits), si trasmettono attraverso meccanismi ereditari di tipo lamarckiano e divengono patrimonio di tutta la specie. In questo modo, tra il riflesso e l'istinto si poneva la tappa intermedia dell'abitudine, un comportamento ripetuto più volte perché rivelatosi adattativo nella vita individuale. La problematica dei rapporti tra abitudini e istinti, tra comportamenti individuali e comportamenti specie-specifici (v. ad esempio l'opera di Conwy L. Morgan Habit and instinct, del 1896), fu ripresa secondo una nuova prospettiva nelle ricerche etologiche (v. cap. 3).

b) La teoria ormica di McDougall
Una teoria sistematica degli istinti fu esposta da William McDougall (v., 1908) nel libro An introduction to social psychology. È una delle prime teorie, assieme a quella psicanalitica (v. § 2d), a porre il problema in chiave strettamente psicologica, senza ridurre completamente l'istinto a un processo biologico o fisiologico. Per McDougall (la cui concezione è stata denominata anche 'psicologia ormica', dal greco ὁϱμή, 'spinta', tradotto in latino con instinctus) il comportamento è causato da impulsi, da forze interne all'organismo. L'istinto è l'integrazione tra varie forze componenti: l'impulso a porre attenzione a un determinato stimolo (componente cognitiva), l'impulso a provare una specifica esperienza emozionale rispetto a tale stimolo (componente emotiva) e l'impulso a produrre un'azione in relazione a esso (componente conativa). Un aspetto importante della teoria ormica è la corrispondenza tra stati emotivi e istinti: l'emozione è il versante soggettivo, accessibile alla coscienza individuale, di una forza che spinge a una risposta comportamentale, ma rimane inaccessibile nella sua oggettività biologica. Il comportamento manifesto, il movimento e le azioni prodotti in risposta agli stimoli, sono visibili all'esterno, ma tutto l'insieme delle forze componenti l'attività istintiva è noto solo attraverso l'esperienza emozionale soggettiva. A ogni istinto descritto nel comportamento animale corrisponde un'emozione provata dagli esseri umani. Per McDougall gli istinti principali e le emozioni primarie corrispondenti erano i seguenti: l'istinto di fuga e l'emozione della paura, l'istinto della repulsione e l'emozione del disgusto, l'istinto della curiosità e l'emozione della meraviglia, l'istinto del combattimento e l'emozione della rabbia, l'istinto della sottomissione e l'emozione della soggezione, l'istinto dell'autoaffermazione e l'emozione del benessere, l'istinto genitoriale e l'emozione della tenerezza. McDougall denominò 'emozioni' (o emozioni primarie) i vissuti soggettivi corrispondenti agli istinti e quindi presenti in tutti gli individui, differenziandoli dai 'sentimenti' che erano sistemi integrati di risposte emozionali, formatisi nei singoli individui in relazione a specifici stimoli e alla loro storia personale. Si riproponeva così il problema dell'acquisizione di comportamenti individuali, in questo caso i sentimenti, sulla base di comportamenti specie-specifici.

c) Il dibattito degli anni venti e il concetto di drive
L'istinto fu al centro di una intensa e vivace discussione tra gli psicologi nordamericani negli anni venti, la quale portò in sostanza alla messa in crisi del concetto stesso. Contemporaneamente lo sviluppo delle ricerche etologiche (v. cap. 3) fece nascere una nuova impostazione teorica in cui sia l'idea di istinto sia il termine stesso, nella sua formulazione fisiologica e psicologica, erano definitivamente abbandonati. Il dibattito divise i contrari e i favorevoli all'idea di istinto intorno a vari problemi, i più importanti dei quali riguardavano la natura e la varietà degli istinti e il rapporto tra innato e acquisito. Dunlap (v., 1919 e 1922) si chiese addirittura se gli istinti non fossero entità fittizie escogitate di volta in volta dal ricercatore per spiegare i comportamenti più svariati. Sia Dunlap che Bernard (v., 1924) ritenevano che il comportamento fosse essenzialmente acquisito, seppure costruito sulla base di elementari meccanismi fisiologici innati, ed escludevano quindi l'esistenza di comportamenti istintivi innati rilevabili nell'animale maturo. Lo psicologo comportamentista Kuo (v., 1921 e 1922) mise in evidenza che i vari membri di una stessa specie animale condividono sia una struttura anatomo-fisiologica comune (action system) sia condizioni ambientali comuni, con la conseguenza che il comportamento che deriva dall'interazione tra questi fattori risulta relativamente simile da un animale all'altro. Questo esito dell'interazione organismo-ambiente può essere interpretato erroneamente come un fenomeno innato, poiché si osservano comportamenti simili in animali diversi appartenenti alla stessa specie. Ciò di cui è dotato sin dalla nascita l'organismo animale è un insieme di reazioni fisiologiche elementari (units of reaction). Queste reazioni sono selezionate nel corso dell'ontogenesi in funzione delle pressioni ambientali fino a quando si costituiscono sistemi organizzati di reazioni o comportamenti che solo apparentemente possono apparire come schemi fissi e innati. Rispetto agli anti-istintivisti e a Kuo, che sosteneva una 'psicologia senza eredità', Woodworth (v., 1927) si schierò con i sostenitori del concetto di istinto ritenendo che esso conservasse ancora il suo carattere esplicativo per comportamenti che non potevano essere ricondotti completamente all'abitudine e all'esperienza. Nell'ambito della scuola comportamentistica, rigorosamente ambientalistica, Tolman (v., 1920) inquadrò l'istinto nell'ambito di una teoria che concepiva il comportamento come un insieme di reazioni guidate da progetti o da piani orientati verso un fine (purpose). In questa prospettiva l'istinto è un fenomeno comportamentale interessante perché mette in risalto una coordinazione di 'atti' vegetativi e motori altamente finalizzata.
In definitiva gli attacchi al concetto di istinto portarono a un ridimensionamento della teoria ottocentesca secondo la quale il comportamento era sostanzialmente fondato su meccanismi e processi innati, appunto gli istinti. In questa ottica anche i fenomeni apparentemente propri della specie umana potevano essere ricondotti a istinti presenti nel mondo animale (ad esempio, la guerra poteva essere interpretata come una manifestazione della lotta per la sopravvivenza). In effetti nel dibattito sull'istinto era stata sempre presente, in modo implicito o esplicito, una tematica ideologica sulla natura dei fenomeni umani più complessi. Il darwinismo sociale aveva chiaramente fatto ricorso al concetto di istinto, nella sua accezione più riduzionistica, per spiegare i fenomeni sociali della specie umana in termini di processi biologici. Accantonata l'idea di istinto come chiave interpretativa di tutti i fenomeni comportamentali, anche i più complessi, si accettò l'idea che in alcuni casi questi potessero essere considerati la manifestazione degli istinti. Lashley, nell'articolo con cui si chiuse il dibattito dei due decenni precedenti, sostenne che vi fossero effettivamente alcuni comportamenti istintivi (nei ratti la costruzione del nido, la pulizia dei piccoli e il riporto; nei piccioni il ritorno alla propria dimora; nei ragni la tessitura della tela; nei pesci il comportamento migratorio; in molte specie di uccelli la costruzione del nido; nelle api domestiche la danza durante il rientro all'alveare con il carico di nettare, ecc.), ma che questi comportamenti dovessero essere interpretati come complesse organizzazioni fisiologiche e neuromotorie da studiare sperimentalmente (v. Lashley, 1938).
Nel concetto di istinto vi erano due aspetti complementari che potevano essere separati e impiegati autonomamente nello studio del comportamento. Da una parte la nozione di sequenze fisse ed ereditarie di processi neurovegetativi e motori messe in atto per soddisfare un bisogno fondamentale come la fame, la sete o il sesso; dall'altra la 'spinta', la forza interna che attiva tali sequenze. Abbandonata l'idea di istinto come comportamento stereotipato e innato, rimase l'assunto che il comportamento fosse guidato (driven) da una forza interna, chiamata appunto drive nella letteratura psicologica nordamericana tra le due guerre mondiali. La 'psicologia dinamica' di R.S. Woodworth (v., 1918) era appunto fondata sul concetto di spinte o motivi del comportamento. Rispetto ai comportamentisti, che limitavano le loro indagini alla relazione stimoli-risposte, Woodworth mise in evidenza la dinamica interna all'organismo per spiegare come a determinati stimoli l'organismo reagisse con determinate risposte e non con altre. La modulazione del rapporto stimolirisposte dipendeva dal livello e dalla direzione del drive. Anche alcuni comportamentisti, come C.L. Hull, ricorsero al concetto di drive (traducibile con 'pulsione') nelle loro teorie dell'apprendimento. Ad esempio, i processi fisiologici relativi alla fame producono la pulsione - il 'desiderio di mangiare', in termini antropomorfici - che spinge l'organismo animale a ricercare il cibo. Se le risposte emesse dall'animale sono rinforzate positivamente con il cibo, esse sono fissate nella memoria e sono riemesse al nuovo insorgere della fame, altrimenti sono abbandonate a favore di comportamenti di maggiore successo. In breve, l'apprendimento si realizza se la pulsione è soddisfatta. In questo modo si legava l'apprendimento al vasto capitolo della motivazione del comportamento, senza però porsi il problema se quest'ultima avesse caratteristiche ereditarie e fisse come gli istinti. I bisogni primari della fame, della sete e del sesso potevano quindi essere studiati nei loro meccanismi fisiologici e psicologici indipendentemente dalla connotazione adattativa ed evolutiva che avevano all'interno delle passate concezioni degli istinti. Si sviluppò quindi una psicologia e psicofisiologia delle pulsioni e della motivazione 'da laboratorio', in cui l'animale era studiato al di fuori del contesto reale in cui l'organismo interagiva con l'ambiente e manifestava quella serie di comportamenti specie-specifici che erano stati definiti istintivi. Non si indagava la varietà inter-specifica del comportamento degli animali, bensì si indagavano le caratteristiche comuni alle varie specie nei processi di attivazione e soddisfazione delle pulsioni. In questo modo il problema dell'istinto era messo tra parentesi, ma non veniva eliminato del tutto. A ragione W.H. Thorpe scrisse che "questa situazione era così ovviamente falsa che non poteva durare, perché il rifiuto del termine significava che un'idea essenziale era stata lasciata fuori dal campo della biologia e della psicologia solo per rientrarvi dalla porta accanto sotto un altro nome" (v. Thorpe, 1963², p. 14).

d) La teoria psicanalitica
L'ambiguità del concetto di pulsione, tra la sua vecchia connotazione di spinta biologica e la nuova accezione di spinta psicologica, ricompare nella teoria psicanalitica. Il problema era chiaro a Freud, che distinse tra Instinkt, istinto, e Trieb, pulsione: Instinkt indicava un "comportamento animale fissato ereditariamente, caratteristico della specie, preformato nel suo svolgimento e adattato al suo oggetto", mentre Trieb (da treiben, spingere) era propriamente un "processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica, fattore di motricità) che fa tendere l'organismo verso una meta" (v. Laplanche e Pontalis, 1967; tr. it., pp. 458-459). Mentre l'istinto ha un fine specifico che si realizza in una sequenza di azioni prefissate dirette verso una meta e un oggetto ben precisi, la pulsione ha un carattere molto più flessibile e variabile e le sue mete e i suoi oggetti sono molteplici e mutevoli. La sessualità, ad esempio, avrebbe nella concezione istintuale una dinamica vegetativa e motoria prefissata, con comportamenti di accoppiamento e riproduzione ben specificati. Nella teoria psicanalitica, al contrario, mediante il concetto di pulsione si può spiegare la varietà dei percorsi storici personali e l'eterogeneità degli oggetti verso cui si indirizza la sessualità nella vita individuale. Il passaggio dal concetto di istinto a quello di pulsione permise a Freud di spiegare la flessibilità dei processi psichici umani sganciandoli dalla rigidità del determinismo biologico degli istinti; tuttavia rimase ancora in sospeso il problema della reale natura delle pulsioni stesse. Per Freud la pulsione era "un concetto limite tra lo psichico e il somatico" (v. Freud, 1915; tr. it., p. 17) e in quanto tale conservava il suo carattere energetico: da una 'fonte' di eccitazione somatica scaturiva una spinta fisiologica che si manifestava nella vita psichica come pulsione, una pulsione da soddisfare secondo uno schema energetico (tensione-placamento della tensione) simile a quello impiegato nelle teorie degli istinti. In entrambi i casi, istinti e pulsioni, l'organismo si avvaleva di questi processi per "assoggettare gli stimoli", controllare l'ambiente esterno e ridurre la tensione, con la differenza che per gli istinti si poteva presupporre un meccanismo neurale sottostante basato sull'arco riflesso, mentre per le pulsioni si doveva ipotizzare una dinamica più complessa. Freud, pur individuando nella pulsione un'articolazione simile a quella degli istinti (la pulsione ha una 'fonte' o eccitamento somatico che produce uno stato di tensione, una 'meta' che è quella di sopprimere lo stato di tensione e un 'oggetto' tramite il quale si raggiunge la meta: v. Freud, 1915), collocava questo processo in un sistema di realtà psichica che non richiedeva necessariamente una spiegazione in termini biologici, o per lo meno questa rimaneva sullo sfondo. Le pulsioni potevano originarsi, svilupparsi e canalizzarsi all'interno di un sistema di forze psichiche di cui non si sottolineava la derivazione e rilevanza biologica nella stessa misura in cui ciò era stato sostenuto dalle teorie positivistiche precedenti. Tuttavia la differenziazione, in un primo periodo dell'opera freudiana, tra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io o di autoconservazione e, successivamente, tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, rifletteva pur sul piano psicologico le passate concezioni ottocentesche relative all'esistenza di principî biologici assoluti che governano la vita degli organismi. Questi principî avevano una forte connotazione metafisica, tipica di alcune teorie positivistiche, come di fatto riconosceva Freud stesso: "La dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia. Le pulsioni sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza" (v. Freud, 1933; tr. it., p. 204).
Uno degli aspetti più importanti della psicanalisi post-freudiana è rappresentato dal tentativo di superare la concezione energetica che sottostava al modello delle pulsioni, spostando l'attenzione dai 'destini' degli istinti a quello delle relazioni oggettuali, dai processi biologico-psicologici, interni all'organismo-psiche, ai processi interpersonali.

3. La tradizione etologica

Nell'impostazione di Charles Darwin (v., 1859) gli istinti furono inquadrati in una concezione strettamente biologica, come processi fisiologici che servono alla selezione naturale e all'evoluzione. Nelle ricerche compiute dai biologi e dagli zoologi che seguivano l'impostazione darwiniana, il concetto di istinto fu accolto nella sua accezione più ristretta, di comportamento stereotipato e innato di cui è dotato l'organismo animale a fini adattativi, mentre venne generalmente esclusa ogni estrapolazione di tale concetto per spiegare comportamenti più complessi. Darwin definì così l'istinto: "Un atto che esige per parte nostra una certa abitudine, quando si compia da un animale molto giovane e non dotato di alcuna esperienza, e quando sia compiuto da molti animali individui nella stessa maniera, senza che i medesimi conoscano a quale scopo sia diretto, ordinariamente chiamasi istintivo" (v. Darwin, 1859; tr. it., p. 165). La definizione darwiniana era di fatto una osservazione-descrizione di determinati comportamenti, che non indicava specificatamente i processi e i meccanismi fisiologici sottostanti. Successivamente gli studiosi del comportamento animale che hanno aderito all'etologia hanno cercato di qualificare sul piano biologico e fisiologico ciò che era descritto all'epoca di Darwin come istinto o, in anni più recenti, come moduli d'azione specie-specifici. Fino ai primi anni sessanta, gli istinti erano considerati dagli etologi come: a) comportamenti 'innati', cioè non appresi durante l'ontogenesi; b) ereditari, geneticamente determinati e propri della specie; c) generati da forze interne ("è chiaro che l'energia in un qualche grado di specificità, canalizzata in un modo o in un altro, è fondamentale per il moderno concetto di istinto": v. Thorpe, 1963², p. 29); d) articolati nella sequenza seguente: cambiamento fisiologico all'interno dell'organismo, produzione di una forza o pulsione (drive) in cui si accumula energia, comportamento 'appetitivo' per la ricerca di quanto può ridurre la tensione, comportamento 'consumatorio' attraverso il quale si scarica l'energia e si riduce la tensione. Le concezioni di Lorenz, Tinbergen e altri etologi ebbero una importante premessa teorica nell'opera di altri studiosi, come Heinroth, Loeb e Uexküll (v. Mecacci, 1992). Lo zoologo O. Heinroth introdusse il termine 'etologia' per indicare lo studio osservativo, descrittivo e comparato del comportamento specie-specifico degli animali nel loro ambiente naturale. Oggetto principale dell'etologia doveva essere la compilazione dell'etogramma, una specie di inventario o repertorio dei comportamenti tipici di una specie, nel quale risaltavano gli schemi innati di comportamento e rispetto al quale si poneva il problema della relazione tra fattori innati e fattori acquisiti nel comportamento. L'istinto era quindi il concetto fondamentale intorno a cui si costruiva l'etogramma. Per il fisiologo J. Loeb l'istinto rientrava nel concetto più vasto di 'tropismo', inteso come un sistema innato di reazioni prodotte da un organismo, sia vegetale che animale, verso uno stimolo esterno (l'esempio classico era quello del fototropismo, per cui una pianta o un animale si rivolgono 'istintivamente' verso una fonte luminosa). Il concetto di tropismo, che si caratterizzava come un sistema organizzato e integrato alla nascita e non come una catena additiva e associativa di riflessi, fu considerato quindi come un meccanismo più adeguato del riflesso per spiegare la complessità del comportamento istintivo. Infine ebbe una notevole influenza l'articolo di W. Craig (v., 1918) Appetites and aversions as constituents of instincts. Craig distinse nell'istinto il comportamento consumatorio - relativamente prefissato e specie-specifico, che consente la soddisfazione del bisogno originatosi nell'organismo animale (ad esempio, la copula per il bisogno sessuale) - dal comportamento appetitivo - relativamente variabile da individuo a individuo, con una varietà di strategie e percorsi diversi. In questa distinzione si sarebbe inserita la differenziazione tra comportamento istintivo e comportamento intelligente, tra istinto e intelligenza. Infatti si affermava che la 'consumazione', o soddisfazione del bisogno, si doveva realizzare secondo schemi rigidi e 'istintivi' e allo stesso tempo che si arrivava a tale atto finale attraverso schemi comportamentali flessibili e 'intelligenti'.

a) Il 'ciclo funzionale' e gli istinti nella teoria di Uexküll
Un importante indirizzo di ricerca in campo etologico fu aperto da un articolo del 1899 degli zoologi Beer, Bethe e Uexküll. In quel lavoro si denunciava la connotazione soggettivistica e antropomorfica della terminologia impiegata comunemente nella descrizione del comportamento animale e si esprimeva l'esigenza di una descrizione oggettiva fondata su concetti neurofisiologici. Uexküll (v., 1909 e 1934) precisò poi che il soggettivismo doveva essere rifiutato per la sua valenza psicologistica, che rimandava a un mondo interiore inafferrabile con metodi oggettivi, ma doveva invece essere considerato opportunamente il ruolo dell'organismo come 'soggetto attivo', il cui mondo privato o interno (Innenwelt) interagisce con il mondo esterno (Umwelt). Determinati stimoli provenienti da un oggetto esterno attivano i recettori sensoriali dell'animale, i quali sono 'predisposti' a recepire quegli stimoli e non altri. Nei termini della neurofisiologia attuale, l'organismo è dotato di 'finestre sensoriali' attraverso le quali 'vede' solo una porzione del mondo esterno, mentre le altre parti gli rimangono ignote. Questa corrispondenza tra mondo organico e mondo ambientale si è formata nell'evoluzione naturale attraverso un processo circolare di continuo aggiustamento tra le fonti di stimolazione, la percezione che l'organismo ha di questi stimoli e le azioni che esso produce in risposta. Il 'ciclo funzionale' stimoli ambientali-percezione-azione è un sistema chiuso, circolare, che diviene operante ogni volta che si ripropongono quei determinati stimoli ambientali che attivano i relativi recettori sensoriali e quindi determinano l'emissione delle relative risposte; queste risposte a loro volta producono una variazione nell'oggetto ambientale, a sua volta percepita nel suo carattere di nuovo stimolo, innescando una nuova sequenza circolare. I 'cicli funzionali' sono un'organizzazione integrata anatomo-funzionale attraverso la quale l'animale soddisfa i propri bisogni primari. Sono dunque comportamenti istintivi, ma non nel senso di comportamenti rigidi eseguiti passivamente dall'animale in risposta agli stimoli esterni. Al contrario l'animale ricerca attivamente nell'ambiente gli stimoli che inneschino i suoi cicli funzionali. Questi stimoli hanno un 'significato' per l'animale proprio ai fini dell'avvio del ciclo funzionale e quindi della soddisfazione del bisogno.

b) La posizione dell'etologia classica (Lorenz, Tinbergen)
Nel saggio del 1935 Der Kumpan in der Umwelt des Vogels [Il compagno nell'ambiente dell'uccello], Konrad Lorenz pose il problema dell'istinto in una prospettiva nella quale si precisavano definitivamente alcuni concetti fondamentali dell'etologia degli anni trenta: Umwelt, come ambiente naturale e proprio ('soggettivo') dell'animale, 'schema di scatenamento', 'imprinting', ecc. Lo schema di scatenamento (o meccanismo scatenante innato, innate releasing mechanism) indica una combinazione di stimoli che nel loro insieme integrato avviano, come la chiave di accensione di una macchina, una risposta istintiva specifica. L'imprinting è considerato il processo per cui un animale, nelle prime ore dopo la nascita, mette in atto un determinato comportamento verso un conspecifico (v. Lorenz, 1935). In un saggio successivo Lorenz (v., 1937) criticò estesamente le concezioni psicologiche di McDougall e di altri studiosi dell'istinto sostenendo che gli istinti dovevano essere intesi come una 'coordinazione ereditaria' (Erbkoordination) di atti (o 'modulo d'azione fisso', fixed action pattern) propria di una specie, e non come generici comportamenti innati. Nel comportamento si succedono e si integrano 'anelli' innati e 'anelli' acquisiti e l'istinto è appunto il meccanismo per cui tali sequenze comportamentali si integrano. Ciò che è ereditato non è quindi una sequenza rigida di atti, ma uno schema di coordinazione finalizzato alla soddisfazione dei bisogni. L'attivazione dei moduli d'azione ha origine grazie a un 'potenziale d'azione specifico' (specific action potential), che a sua volta è attivato da una configurazione di stimoli appropriata, il 'meccanismo scatenante innato'. Molte ricerche furono dedicate all'impiego di 'sagome' per simulare le configurazioni-stimolo scatenanti e determinare quali attributi fossero fondamentali per attivare i moduli d'azione. L'esempio classico di queste ricerche è quello dello spinarello maschio (v. Tinbergen, 1951) che risponde in modo aggressivo a sagome di pesce di forma varia purché siano colorate di rosso nel ventre, mentre un'imitazione perfetta di un altro spinarello senza l'attributo rosso nel ventre non attiva le reazioni di combattimento.
Nella prospettiva etologica rimaneva comunque l'idea di un'energia che si accumula e si scarica attraverso l'istinto. Niko Tinbergen nel suo libro fondamentale del 1951, The study of instinct, sostenne che l'energia è depositata in centri specifici per ciascun istinto e che questi centri sono organizzati nell'organismo animale secondo una gerarchia ben precisa. In questo modo l'energia accumulatasi in un centro, ad esempio quello dell'istinto della riproduzione, attiverebbe anche altri centri, responsabili di altri comportamenti istintuali, come il corteggiamento, la costruzione del nido e le cure parentali.

c) La dissoluzione del concetto di istinto
Le ricerche dell'etologia contemporanea, il cui sviluppo può esser fatto risalire agli anni sessanta, dopo aver abbandonato il termine stesso di istinto sottoposero a una critica serrata i nuovi principî esplicativi introdotti da capiscuola come Lorenz e Tinbergen, centrando la discussione sui seguenti temi: distinzione tra comportamento appetitivo e comportamento consumatorio, modello energetico lorenziano, comportamento di spostamento, moduli di azione fissi, meccanismi scatenanti innati, ontogenesi e ambiente (v. Barnett, 1981).I vari comportamenti istintuali erano stati articolati in due componenti principali, appetitiva e consumatoria, l'una preparatoria dell'altra. Tuttavia osservazioni più accurate hanno dimostrato che i movimenti appetitivi non portano conseguentemente a un atto consumatorio. Ad esempio, il comportamento predatorio dovrebbe essere generato dal bisogno di cibo e quindi dovrebbe cessare quando la fame è saziata. Al contrario, il comportamento predatorio può manifestarsi anche quando l'animale non ha fame, o quando l'animale ha appena ucciso la preda e l'ha mangiata, e ciò nonostante continua a esplorare il territorio e a cacciare altre prede. Tipico è il comportamento che si può osservare in un gatto domestico: mentre sta mangiando uno dei cibi preferiti, come il pesce, il gatto, alla comparsa di un topo vivo, si allontana dal cibo, rincorre il topo e lo uccide, lo trasporta presso la ciotola senza mangiarlo e riprende a mangiare il pesce. In questo caso il comportamento predatorio, cosiddetto appetitivo, non è chiaramente finalizzato all'atto consumatorio (v. Barnett, 1981, p. 540).
Nel modello energetico lorenziano si supponeva che una fonte interna di energia o drive attivasse un comportamento appetitivo e questo fosse seguito da un comportamento consumatorio. Allorché si mette in evidenza che esistono comportamenti definiti appetitivi che non sono preliminari all'atto consumatorio e non hanno origine da un bisogno che ha invece già attivato per conto suo altri comportamenti finalizzati alla sua soddisfazione, lo schema lineare pulsione-atto appetitivo-atto consumatorio risulta troppo semplicistico. Di fatto nelle spiegazioni classiche che consideravano l'istinto come un insieme coordinato e integrato di risposte, si supponeva che atti comportamentali diversi dipendessero da un'unica fonte energetica. Nel 1959 N.E. Miller analizzò la problematicità del concetto di drive come fonte unitaria del comportamento istintivo. La pulsione, fame, sete o sesso, dovrebbe manifestarsi sul piano comportamentale (risposte vegetative e motorie) in modo uniforme. All''aumento' della pulsione dovrebbe corrispondere un 'aumento' delle risposte comportamentali in misura coerente e coordinata, ma, come Miller dimostrò per la pulsione della sete, le risposte emesse non scaturiscono in modo coerente dalla stessa fonte energetica: alcune sono emesse prima, altre più tardi, altre sono inibite, ecc. La concezione idraulica dell'istinto, come un flusso energetico che scorre lungo canali diversi fino al suo esaurimento, rimane una metafora fisiologica che ricalca la vecchia concezione cartesiana del 'fluido nervoso' che scorre lungo i nervi. Come ha scritto Barnett (v., 1981, p. 542), "questo modello non ha di fatto alcun contenuto fisiologico".
Strettamente connesso al modello energetico, il concetto di 'comportamento di spostamento' ebbe una notevole diffusione tra coloro che si occupavano di ricerche etologiche. Un flusso di energia, che non trova sbocco lungo un canale del sistema, può essere scaricato attraverso un altro canale e dare luogo a un comportamento diverso da quello previsto nel caso in cui fosse stato scaricato nel canale consueto. In questo modo si spiegherebbe, ad esempio, perché un animale dapprima avvia il comportamento di corteggiamento e accoppiamento in presenza di un possibile partner e poi, se il partner non è più presente, trasferisce in un'altra attività l'energia mobilizzata. Il principio dello spostamento della pulsione, presente anche nella teoria freudiana (v. Laplanche e Pontalis, 1967; tr. it., p. 608), è stato criticato perché è basato sulla sostituzione di un comportamento con un altro, mentre di fatto - come è stato mostrato in molte situazioni - potrebbe trattarsi di due comportamenti, anche tra di loro apparentemente in conflitto, che si sviluppano simultaneamente, o che si susseguono l'uno dopo l'altro, oppure si sovrappongono. Di nuovo questa concezione dello spostamento riflette una concezione unidirezionale e lineare del flusso energetico troppo semplicistica per spiegare la complessità delle interazioni tra moduli comportamentali diversi (v. Hinde, 1960).
Anche la sequenza degli atti motori descritta per ciascun processo comportamentale considerato istintivo (corteggiamento di una femmina in estro, combattimento tra maschi conspecifici, costruzione del nido, ecc.) era considerata relativamente prefissata e rigida. Ricerche più accurate hanno invece precisato che queste sequenze sono altamente flessibili, adattate alle situazioni ambientali contingenti che si presentano nel corso del comportamento. Inoltre è stato proposto di distinguere vari tipi di schemi o moduli di comportamento. Nella classificazione di Barnett (v., 1981, p. 544) gli schemi di comportamento specie-specifici sono i seguenti: a) 'orientamenti' stereotipati (postura del corpo e direzione dei movimenti rispetto a stimoli ed eventi esterni); b) 'preferenze di habitat' (una specie preferisce un particolare tipo di habitat); c) 'ritmi' endogeni di comportamento (alcune attività sono attivate ciclicamente indipendentemente da fattori esterni); d) comportamenti di costruzione di strutture (nidi, tane, reti); e) schemi motori (in particolare nel corteggiamento, nell'esplorazione e nel combattimento). Questi vari tipi di moduli comportamentali possono essere differenziati a livello descrittivo, ma si intrecciano nel manifestarsi dei comportamenti istintivi. Uno stesso modulo può essere presente in comportamenti diversi e uno stesso comportamento può essere attuato grazie a un insieme di moduli che non intervengono necessariamente sempre nella stessa misura e nella stessa sequenza. L'esempio del modulo di movimento nella cinciallegra chiarisce questo aspetto: "Un maschio di cinciallegra può saltellare sul terreno, raccogliendo foglie e gettandole di lato. Poi può raccogliere una nocciola, volar via con essa fino a una macchia, mettersi la nocciola sotto le zampe, aprirla con il becco e prelevarne il contenuto. In un'altra occasione può saltellare sul terreno, raccogliere un pezzetto di muschio, volare via con esso fino a una cavità di un albero ed eseguire qui certi speciali movimenti per incorporare il muschio nel proprio nido. In un'altra occasione ancora può alzarsi in volo per raggiungere una femmina, posarsi vicino a essa agitando le ali e poi volare sul suo dorso e copulare con essa. Descriviamo queste sequenze rispettivamente come comportamento di alimentazione, di nidificazione e sessuale, basando le nostre denominazioni soprattutto sulla conclusione a cui conduce ciascuna sequenza. È notevole che ogni sequenza contiene alcuni moduli di movimento che le sono peculiari (per esempio, ingestione del cibo, movimento circolare nella cavità del nido, movimenti del corpo che conducono al contatto cloacale) e altri che sono comuni anche ad altre sequenze (per esempio, saltellare, volare, beccare)" (v. Hinde, 1974; tr. it., pp. 7-9).
Anche il concetto di 'meccanismo scatenante innato', introdotto per indicare una configurazione di stimoli che attiva un comportamento istintivo, è stato criticato sotto vari aspetti. Da una parte la stessa configurazione può scatenare comportamenti diversi in uno stesso animale a seconda delle condizioni organiche e ambientali e non è quindi tipica di uno specifico comportamento; dall'altra la proprietà di scatenamento degli stimoli può essere stata acquisita dall'animale secondo un processo per cui esso apprende a discriminare gradualmente gli stimoli di maggiore rilevanza adattativa, invece di esserne in possesso fin dalla nascita come se fosse un meccanismo 'innato'.
Il concetto di istinto appartiene alle concezioni preformiste degli organismi biologici, secondo le quali ciò che divengono l'embrione prima della nascita e l'organismo dopo la nascita è essenzialmente prefissato nel corredo genetico dell'animale. Anche il comportamento sarebbe l'epifenomeno di una organizzazione innata. La posizione assunta dagli studiosi attuali del comportamento animale è invece a favore di una interpretazione epigenetica, per cui l'organismo si sviluppa in funzione di una stretta interrelazione con l'ambiente. Poiché le condizioni ambientali in cui crescono i membri di una stessa specie animale sono relativamente simili, gli schemi comportamentali attivati in risposta a tale ambiente omogeneo risultano simili e possono essere interpretati come la manifestazione di organizzazioni innate interne all'organismo invece che come l'esito dell'interazione organismo-ambiente.
Alla domanda perché il concetto di 'istinto' è caduto in discredito e non vi si faccia più ricorso nelle ricerche sul comportamento animale e umano, l'autorevole etologo inglese Hinde (v., 1974; tr. it., p. 18) rispondeva che essenzialmente in questo concetto si era voluto unire in modo saldo una osservazione a una spiegazione: da una parte si osserva che moduli comportamentali si possono sviluppare indipendentemente da fattori ambientali contingenti (come nel caso di uccelli che, seppure allevati da genitori adottivi in un nido di tipo diverso, costruiranno in età riproduttiva un nido simile a quello della propria specie e dissimile da quello in cui sono cresciuti); dall'altra si spiega il fatto osservato con una forza interna all'organismo. Questa spiegazione però non spiega effettivamente il fenomeno osservato, è solo una tautologia, un circolo vizioso (gli uccelli costruiscono il nido in un dato modo perché hanno l'istinto di costruire il nido in quel modo; affermazione che corrisponde alla seguente: poiché gli uccelli hanno l'istinto di costruire il nido in un dato modo, lo costruiscono in quel modo). L'istinto era stato dunque reificato, dalle teorie psicologiche e dalle teorie etologiche classiche, come una forza biologica misteriosa, un assunto indimostrabile. Come ha sempre osservato Hinde (v., 1974; tr. it., p. 20), la motivazione del comportamento "è un insieme di problemi, non una cosa". L'etologia contemporanea ha quindi sviluppato una serie sistematica di ricerche sui concreti meccanismi fisiologici e sulla varietà degli atti comportamentali implicati nei processi motivazionali per la soddisfazione dei bisogni primari (fame, sete, sonno, sesso). Barnett concludeva la sua analisi critica dei concetti di istinto e di drives affermando: "Quando il comportamento può essere interpretato fisiologicamente, il bisogno di parlare dei drives scompare: compaiono invece indicazioni sulla quantità di un ormone nel sangue, sull'output di certi neuroni o sull'attività di una parte del sistema nervoso centrale che regola l'attivazione generale. Nella letteratura continuano a esservi dei riferimenti ai drives in gran parte perché sappiamo ancora poco della fisiologia del comportamento" (v. Barnett, 1981, p. 576).
(V. anche Aggressivo, comportamento; Etologia; Psicanalisi).




Bibliografia


da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it

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