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Mascolinità




Il termine mascolinità (dal latino masculus, "maschio") indica il complesso delle caratteristiche (aspetto fisico esterno, psicologia, atteggiamento e comportamento, gusti ecc.) che sono proprie dell'uomo in quanto si differenzia dalla donna, o che a lui tradizionalmente si attribuiscono. Recenti indirizzi degli studi etnoantropologici permettono di cogliere gli aspetti culturali di una tematica che a prima vista sembra riguardare un ambito fondamentalmente biologico.

sommario: l. L'artificio della virilità e l'invenzione sociale della paternità. 2. Diventare uomini. 3. La trasformazione del corpo. 4. I valori e i lavori del maschio. □ Bibliografia.

l. L'artificio della virilità e l'invenzione sociale della paternità

L'attenzione che gli antropologi e gli etnologi rivolgono alle differenze sociali e culturali dei vari gruppi umani coinvolge anche alcuni aspetti comunemente riconducibili alla sfera biologica dell'essere umano, come per es. la distinzione uomo/donna. Varie ricerche hanno messo in luce la costruzione sociale della divisione sessuale e conseguentemente le differenti modalità e concezioni riguardanti il modellamento del corpo, da intendere non solo come sede di uno sviluppo biologico indifferente alle distinzioni culturali, ma anche come oggetto di manipolazioni di ordine sociale (v. genere). Le riflessioni antropologiche sul genere iniziano negli anni Settanta del 20° secolo nell'ambito della ricerca femminista angloamericana: all'origine vi furono la critica all'androcentrismo della maggior parte dei lavori etnografici e l'esigenza di valorizzare il punto di vista delle donne. La stretta connessione che si è venuta a creare fra la problematica del genere e l'attenzione su tematiche appartenenti al 'mondo delle donne' ha avuto come conseguenza la marginalizzazione o la trattazione unicamente implicita dell'ideologia della mascolinità e della dimensione sociale e culturale del maschile (Gilmore 1990).
Restando nell'ambito della contrapposizione uomo/donna, occorre sottolineare che nella maggior parte delle società umane risulta evidente la diseguaglianza fra le due categorie e più precisamente la diffusa ideologia della subordinazione femminile al ruolo esercitato dal maschio. In varie culture tale subordinazione è ricondotta alla divisione fra la sfera privata (l'universo femminile per eccellenza) e la sfera pubblica (luogo dove si esercita il potere e riservato di solito ai maschi). Questa contrapposizione viene sovente espressa nell'organizzazione dell'abitazione e del villaggio. Per es., nell'isola indonesiana di Timor la parte coperta dell'abitazione è divisa in due metà: la stanza interna connessa con la femminilità e la veranda esterna connessa con la mascolinità; inoltre tutta la parte destra della casa è associata alle attività maschili, mentre quella sinistra alle attività femminili. Il lato pubblico della casa è la veranda e quando gli uomini ricevono ospiti le donne devono ritirarsi nella parte posteriore dell'edificio (Scarduelli 1992). Anche fra i mangbetu del Congo, la mascolinità è legata alla parte pubblica del terreno riservato a ogni singola famiglia; le capanne sono disposte infatti intorno a un riparo coperto, denominato negbamu, deputato ad accogliere gli ospiti e riservato agli uomini. La valenza di genere del negbamu è confermata dalla vicinanza semantica dei termini négbama ("desiderio sessuale maschile") e négbámá ("uomo giovane").
Questi esempi etnografici possono condurre a definire la femminilità come una questione privata e la mascolinità come una faccenda pubblica da mostrare e da rafforzare socialmente. In effetti, in molte società, così come in molte riflessioni antropologiche, la categoria del maschile sembrerebbe essere quella maggiormente soggetta a elaborazioni di ordine culturale e sociale. Come sottolinea D.D. Gilmore (1990), l'autenticazione della femminilità raramente richiede performance pubbliche con prove fisiche, competizioni e scontri come nei riti di iniziazione maschili o nei comportamenti, appunto pubblici, in cui si mostra la propria virilità e si richiede un riconoscimento della propria identità di uomo. Secondo Gilmore, la femminilità non va costruita culturalmente, ma rappresenta una condizione biologica che può essere tutt'al più affinata e perfezionata dalla cultura. La contrapposizione fra la femminilità (pensata come qualcosa già incluso nella dotazione biologica) e la mascolinità (pensata come condizione in gran parte da acquisire sulla base di un ideale culturale specifico al quale gli uomini devono conformarsi per essere riconosciuti come tali) è ricondotta nei classici studi di etnologia all'interno della più ampia dicotomia fra natura e cultura. Solo di recente si è cercato di analizzare in modo più critico le connessioni fra il genere e le categorie 'natura' e 'cultura', spesso utilizzate e applicate universalmente così come sono pensate nella cultura occidentale.
Un tema che si riconnette a questa problematica, e che permette inoltre di indagare ciò che in molte società è considerato un importante attributo del 'vero uomo', è quello della paternità. Per M. Mead (1949) la paternità è un'invenzione sociale. Probabilmente, ancor prima che gli uomini avessero la nozione di paternità fisica, essi cominciarono volontariamente a sostentare le femmine e i loro piccoli; per Mead, nulla dimostra che l'uomo si comporterebbe in tale modo senza la guida delle norme sociali, che variano notevolmente a seconda delle culture e stabiliscono quali siano le donne e i bambini che debbono essere mantenuti da un uomo. Per es. nelle isole Trobriand del Pacifico gli uomini sostentano i discendenti delle proprie sorelle e non delle mogli; nelle isole Mentawai (Indonesia) i figli, concepiti di nascosto, sono adottati dal nonno materno e mantenuti dai fratelli della madre, mentre il padre continua a lavorare nella famiglia di origine. La variabilità delle norme sociali e la facilità con cui l'istinto paterno può essere ridimensionato o distrutto dimostrano la debolezza dello stesso istinto di un maschio adulto nel provvedere ai propri figli. Di ben altra forza parrebbe il legame esistente fra madre e figlio, in quanto radicato nella realtà biologica del concepimento, della gestazione, del parto e dell'allattamento. Come si è già accennato, la paternità è sovente connessa con l'idea di vero uomo e in molti casi risulta un attributo imprescindibile della mascolinità. Gilmore, parafrasando Mead, sostiene che, a differenza della femminilità che si impone naturalmente attraverso la maturazione biologica, la mascolinità è acquisita e il suo conseguimento in molti casi è strettamente legato al fatto di diventare padre. Fra i sambia della Nuova Guinea gli uomini per diventare pienamente maschi devono non solo sposarsi, ma essere padri di molti figli: solo in questo modo danno prova della propria competenza nelle funzioni sociali e viene loro riconosciuto il ruolo di veri uomini. Per molti gruppi etnici della Nuova Guinea, la paternità è solo una tappa del complicato processo di conferimento dello status virile, concesso soltanto dopo successive prove e scrupoloso addestramento. Mascolinità, virilità e paternità sembrano rientrare quindi nella sfera dell'artificio; il vero uomo deve essere pazientemente e faticosamente costruito. Tale costruzione avviene non solo attraverso l'insegnamento di determinati valori, ma anche attraverso una trasformazione del corpo. La superficie corporea viene segnata seguendo modelli e ideali specifici di una società e, così facendo, la mascolinità e la virilità vengono 'incise', esattamente come succede per un tatuaggio.

2. Diventare uomini

Ogni gruppo umano sviluppa specifici progetti e meccanismi per plasmare i maschi in base a modelli socialmente condivisi. In ogni cultura, lo status di vero uomo è prodotto per mezzo di un lungo processo di educazione e di addestramento; in particolare - come appare evidente in molte società di interesse etnografico - durante il passaggio dall'adolescenza all'età adulta ogni singolo individuo maschio è invitato o addirittura obbligato a subire un processo iniziatico ritualizzato (v. iniziazione). Fra i gruppi che prevedono riti di passaggio collettivi, la transizione verso uno status di piena virilità e mascolinità viene emblematicamente drammatizzata; le varie fasi dei rituali mettono in scena gli attributi fondanti del vero uomo ed è per questo motivo che tali riti appaiono particolarmente interessanti quando si vuole cogliere l'idea di uomo in culture diverse. Nel corso di riti di iniziazione all'età adulta, il ragazzo muore simbolicamente per rinascere come uomo. Per es., fra i babudu del Congo i ragazzi devono sottoporsi a un impegnativo rituale denominato egonye. Durante il processo iniziatico, i candidati vengono isolati nella foresta e dopo esser stati circoncisi devono trascorrere un periodo di reclusione, nel corso del quale vengono sottoposti a dure prove e a fondamentali insegnamenti. A partire dal momento dell'operazione, i circoncisi devono dimostrare il loro coraggio e la loro virilità. In attesa della guarigione, i ragazzi sono sottoposti a ogni tipo di tortura; sono costretti a cantare in qualsiasi momento del giorno e della notte e al mattino vengono percossi violentemente. Quando le ferite sono cicatrizzate, allora inizia la fase dell'educazione che ha lo scopo di modellare la personalità degli iniziati e trasmettere l'eredità ancestrale e l'ideologia della società. Alla fine del percorso educativo si procede alla reintegrazione dei circoncisi nel villaggio; tale momento corrisponde a una rinascita simbolica ed è segnato da una grande festa organizzata in un giorno di pioggia, durante il quale ci sarà la consumazione di un pasto molto ricco e complesso.
Un caso particolarmente curioso di processo iniziatico di mascolinizzazione giunge dai già citati sambia della Nuova Guinea, presso i quali si pratica un rito di passaggio all'età adulta culminante nella fellatio omosessuale fra il neofita e un anziano. I sambia ritengono che lo status virile non sia insito naturalmente nel carattere del ragazzo e che quindi occorra introdurlo artificialmente per mezzo di azioni rituali. I giovani sambia devono adeguarsi all'ideale maschile del gruppo, ideale caratterizzato dalla tenacia, dalla resistenza al dolore, dalla forza fisica e dal coraggio, tutti valori che si collegano al passato guerriero e al presente venatorio del popolo. In questo quadro va inserito l'atto omoerotico a cui è costretto il giovane iniziato. Agli occhi dei sambia non si tratta di un agire genuinamente omosessuale in quanto il neofita non è ancora un vero uomo e, quindi, non si può considerare come una relazione fra maschi adulti. La centralità dell'atto omosessuale nel processo di costruzione di veri uomini si spiega attraverso la concezione fisiologica e ontologica di ciò che è maschile: per i sambia solo la femminilità è un dato biologico, mentre la mascolinità deve essere acquisita, o meglio trasmessa, in quanto ogni essere umano ha all'interno un organo di maturazione sessuale chiamato tingu; nella donna tale organo è forte e matura autonomamente, nell'uomo il tingu è debole e inattivo e ha bisogno di sperma per crescere. La fellatio rituale è in realtà un'inseminazione rituale della mascolinità; i ragazzi ingerendo sperma, l'essenza della mascolinità, stimolano i propri corpi a mascolinizzarsi. Il caso estremo dei sambia permette di relativizzare le concezioni riguardo ai processi di mascolinizzazione del corpo. Infatti, se è vero che, in Occidente come in Nuova Guinea, l'ideale maschile appare connesso con un corpo forte e resistente, i mezzi per modellarlo sono diversi e sicuramente, nel mondo mediterraneo del 'machismo' e dell'onore, un'azione rituale come la fellatio omosessuale verrebbe interpretata come il comportamento più distante che si possa immaginare dall'ideale di virilità.

3. La trasformazione del corpo

È importante sottolineare che il rituale analizzato come evento fondamentale del processo di costruzione dell'uomo non segna soltanto il passaggio da uno status all'altro, ma ha senso in quanto possiede una forza trasformativa (Heald 1982). Il ragazzo per diventare uomo deve non soltanto spostare la sua collocazione sociale, ma anche trasformarsi nel corpo e nella psiche. La virilità, la mascolinità, la forza, il coraggio devono in primo luogo iscriversi sul corpo. Ancora una volta la letteratura etnologica fornisce esempi illuminanti. Per es., fra gli indiani guayaki, cacciatori nomadi del Paraguay, i kybuchu, cioè i ragazzi raggruppati in una classe d'età fra i 7 e i 15 anni, abbandonano lo status dell'infanzia per entrare nel mondo degli adulti quando i padri decidono sia giunta l'ora per i loro figli di 'conoscere le donne'. I kybuchu vengono considerati pronti a essere trasformati in uomini non solo sulla base dell'avvenuta maturazione sessuale, ma anche perché considerati yma, cioè grandi, vigorosi e buoni cacciatori. Fra i guayaki, la trasformazione in veri uomini è innanzitutto una trasformazione del proprio corpo attraverso particolari perforazioni e incisioni. Il primo atto modificatore è la perforazione del labbro (imbi mubu), che consente al giovane guayaki di diventare a pieno titolo cacciatore e di sfoggiare l'osso ornamentale. Attraverso la perforazione di una parte del proprio corpo il ragazzo perfora metaforicamente lo steccato che separa il mondo dell'infanzia da quello dell'adulto, e solamente da quel momento può accedere alle donne. Tuttavia, per diventare uomo a tutti gli effetti non è sufficiente la perforazione del labbro, occorre modificare ulteriormente il proprio corpo mediante le scarificazioni (jaycha bowo) praticate su tutta la superficie del dorso. Soltanto dopo questo ulteriore atto trasformativo, lo status di uomo è completamente raggiunto e solo a partire da questo momento sarà consentito al ragazzo di comportarsi come gli altri uomini del gruppo: non potrà più sedurre liberamente le donne ma sarà marito di colei con la quale avrà dei figli. In altre società la riflessione sulla virilità e la mascolinità risulta connessa con il corpo pur non prevedendo incisioni o modellamenti particolari. Il corpo dell'uomo deve rispondere agli stessi criteri di mascolinità del comportamento: deve essere forte, robusto, insensibile alle ferite e ai lividi ottenuti nel corso di combattimenti e di scontri. Fra gli andalusi del Sud della Spagna il termine dispregiativo flojo, che significa "molle, fiacco, debole", è utilizzato proprio per sottolineare la mancanza di virilità (Gilmore 1990).
Presso i pastori sarakatsani dell'Epiro (Campbell 1964) non è possibile essere considerato virile senza dimostrare la forza fisica del proprio corpo, e inoltre, il termine che connota la mascolinità, varvados, è strettamente connesso con l'aspetto del corpo in quanto significa "barbuto, villoso, dotato di peli sul viso e sul corpo". Tra i mehinaku del Brasile centrale l'uomo deve essere non soltanto atletico e muscoloso, ma anche alto e deve muoversi con grazia. Questi attributi sono importanti nella definizione del vero uomo, a tal punto che un individuo sgraziato e basso è disprezzato e considerato poco desiderabile sessualmente. L'uomo basso non è virile e non merita rispetto, spesso sua moglie viene corteggiata dagli altri uomini senza alcun problema e pudore. La connessione esistente tra virilità e statura rimanda direttamente all'immagine ideale del membro maschile, preferibilmente grosso e imponente. Differentemente dagli esempi riportati sopra, la statura e l'imponenza fisica non rivestono alcuna importanza nel mondo giapponese dove l'eroe è spesso un uomo piccolo, gracile e con un fisico per nulla prestante. Indipendentemente da come appare il proprio corpo, l'eroe giapponese (così come viene rappresentato nella letteratura, nei fumetti e nella produzione cinematografica) rispecchia una possente mascolinità per via della fedeltà, della devozione, del coraggio e dell'altruismo; al riguardo risultano curiosi il legame presente nella cultura del Sol Levante fra egoismo ed effeminatezza e la centralità del concetto di lealtà, emblematicamente incorporato nelle immagini del samurai e del kamikaze. Il corpo umano, oltre a esprimere i valori della virilità e della mascolinità, può suo malgrado diventare il luogo in cui si manifestano disturbi psicosomatici causati dall'ansia e dalla pressione cui si è soggetti per adeguarsi all'ideale di uomo. Il caso sicuramente più curioso è il koro, insieme di sintomi debilitanti tipico dei popoli orientali (cinesi, indiani, thailandesi ecc.). La sintomatologia, studiata da psichiatri orientali e da etnopsichiatri occidentali, contempla tremiti, ansia, palpitazioni, nonché timori di morte imminente, ma il sintomo più interessante è la sensazione di avvizzimento del pene e l'impressione che esso rientri gradatamente nel ventre. I casi studiati hanno messo in luce la relazione fra questa strana patologia e l'ansia di non adeguarsi all'ideale di mascolinità, che appare incentrato sulle responsabilità in seno alla famiglia e sul mantenimento di un'autostima come uomo capace ed efficace.

4. I valori e i lavori del maschio

Parallelamente ai valori iscrivibili sul corpo come la forza o a quelli strettamente legati a dimostrazioni pubbliche, quali l'aggressività e il coraggio, in molte società il vero uomo è caratterizzato da un comportamento responsabile e dalla capacità nel saper gestire la propria famiglia e svolgere determinate attività lavorative. Al riguardo sono significative nel mondo mediterraneo le varie sfaccettature dei concetti di onore e di reputazione, i quali sintetizzano la virilità, la capacità riproduttiva, l'efficacia nel proteggere e sostenere la famiglia. Tradizionalmente, il lavoro può assumere le sembianze di un valore in sé tipico del genere maschile e in grado di conferire virilità, oppure può rappresentare soltanto un mezzo per ottenere denaro con il quale si può in effetti misurare la virilità di un individuo, cioè la capacità di procurare mezzi di sostentamento alla moglie e ai figli (Gilmore 1990). Fra i samburu, una popolazione di pastori del Kenya settentrionale, la liquidità è rappresentata dal bestiame e la virilità di un uomo viene valutata in base alla competenza nel gestire le mandrie. Un vero uomo samburu, oltre che la propria famiglia, deve saper accrescere la sua mandria e infatti, nella gran parte del periodo dedicato all'iniziazione alla vita adulta, il ragazzo è impegnato a imparare a governare la mandria e a incrementare il numero di capi di bestiame. Se è vero che raramente il lavoro è considerato esclusivo del mondo degli uomini, è altrettanto vero che nella maggior parte dei gruppi umani è prevista una divisione dei compiti lavorativi fra i sessi, divisione che può essere più o meno netta a seconda dei casi. Per es., è molto diffusa l'idea che l'uomo non debba svolgere lavori domestici e mutare i ruoli abituali.
Fra i gruppi insediati nella foresta e che praticano la coltivazione dei terreni, fra i quali i già citati mangbetu, esiste una netta distinzione dei compiti: gli uomini dissodano il terreno, tagliano arbusti e tronchi per poi dargli fuoco; le donne seminano, curano le piante e solitamente si dedicano alla raccolta. Anche fra i pigmei, gruppi di cacciatori nomadi della foresta equatoriale dell'Africa, le donne sono dedite alla raccolta, mentre gli uomini hanno l'esclusività della caccia. L'attività venatoria è considerata da essi un'imprescindibile componente della vita dell'uomo e la stessa iniziazione alla vita adulta testimonia tale centralità. I pigmei, infatti, pur facendo partecipare i propri ragazzi ai riti di circoncisione (riti di passaggio all'età adulta) non attribuiscono a questa azione rituale valore iniziatico poiché possiedono un loro esclusivo processo incentrato non tanto su un'operazione mascolinizzante, quanto su un'attività mascolinizzante, la caccia. Un ragazzo pigmeo, dal momento in cui uccide un animale considerato 'vera carne' (cioè tanto grande da poter essere diviso fra i membri del gruppo di caccia) può essere chiamato cacciatore e partecipare alle riunioni dell'assemblea di tutti i cacciatori del gruppo (Turnbull 1957). Gli individui che si rivelano incapaci nella caccia sono classificati all'interno di una categoria androgina, giacché la loro virilità è messa in dubbio. In alcune culture, l'identificazione del genere con l'attività lavorativa è talmente centrale che il solo contatto con lo strumento di lavoro dell'altro sesso porta sciagure e mette in dubbio l'identità sessuale. Fra i già citati guayaki esiste una netta divisione del lavoro fra gli uomini (cacciatori) e le donne (dedite alla raccolta, al trasporto e alla preparazione del cibo): gli uomini cacciano e le donne portano. Questa opposizione è simbolicamente espressa nella dicotomia arco/canestro, strumenti esclusivi dell'uno e dell'altro sesso. Quando un ragazzo diventa adulto attraverso la perforazione del labbro e le scarificazioni sul dorso, il primo lavoro che deve compiere consiste nel fabbricare il proprio arco, mentre la ragazza, poco dopo la prima mestruazione, deve fabbricare il proprio canestro. Nessun uomo-cacciatore si sognerebbe di maneggiare il canestro della moglie, terrorizzata a sua volta nel toccare l'arco del marito. Nella società guayaki non sono previste eccezioni e ambiguità rispetto all'opposizione arco/canestro (uomo/donna). Se un uomo fallisce ripetutamente nella caccia, non gli resta che abbandonare il suo inutile arco e con esso la sua virilità; così facendo smette di essere cacciatore e l'unica soluzione che gli si prospetta è quella di passare dall'arco al canestro e diventare così metaforicamente una donna. Un caso diametralmente opposto a quello dei guayaki è rappresentato dai tahitiani, già ammirati da P. Gauguin per l'indeterminatezza nei caratteri e nei ruoli sessuali. Fra i tahitiani non esiste una ferrea divisione del lavoro: le donne svolgono attività fuori dalla sfera domestica e possono assumere ruoli sociali importanti come quello di capo villaggio, mentre gli uomini sono soliti cucinare e non si vergognano di loro eventuali comportamenti che agli occhi degli occidentali parrebbero effeminati. La virilità non è un valore da mostrare in pubblico, anzi gli uomini che esprimono la loro mascolinità esclusivamente attraverso la forza sono considerati stranieri. I tahitiani sono estranei alla logica dell'onore mediterraneo: non amano competere (tanto meno scontrarsi fisicamente), non praticano la vendetta, non condannano la timidezza e inoltre non proteggono le loro donne, anzi, il mito di Tahiti si è imposto in Occidente anche per la propensione dei locali a 'donare' ai visitatori le attenzioni delle proprie donne. Questa categorizzazione dai contorni sfumati non deve far pensare a una confusione nei ruoli nella sfera sessuale, semplicemente i tahitiani sembrano disinteressati alla concettualizzazione della virilità come status distinto dalla femminilità. La virilità non rimanda ad alcun comportamento o ad alcun ambito simbolico specifico.




Bibliografia


da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it

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