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Nancy McWilliams perché la diagnosi?




Per molte persone, inclusi alcuni terapeuti, “diagnosi” è una brutta parola.
 Tutti noi abbiamo osservato il cattivo uso delle formulazioni psicodiagnostiche: la persona complessa che viene disinvoltamente semplificata dall’intervistatore che non tollera l’ansia dell’incertezza; la persona angosciata che viene tenuta linguisticamente a distanza dal clinico che non sopporta di provare dolore; la persona che in qualche modo reca disturbo e viene punita con un’etichetta patologizzante. Razzismo, sessismo, eterosessismo, classismo e numerosi altri pregiudizi possono essere (e sono stati) abilmente rafforzati dalla nosologia. Attualmente, negli Stati Uniti, in un’epoca in cui le compagnie assicurative indicano un numero specifico di sedute in funzione della diagnosi di un paziente, spesso senza tener conto del giudizio del terapeuta, il processo di valutazione è particolarmente soggetto a degenerazione.
 Un’obiezione alla diagnosi è che la terminologia diagnostica risulta inevitabilmente peggiorativa. Ad esempio, Paul Wachtel (2009) si è recentemente riferito alle diagnosi come “insulti dall’illustre pedigree”; Jane Hall, a sua volta, ha scritto che “le etichette sono per i vestiti, non per le persone” (1998, p. 46). I terapeuti esperti fanno spesso questo tipo di commenti, ma ritengo che durante il loro periodo di formazione sia stato loro utile avere a disposizione un linguaggio in grado di racchiudere all’interno di quadri più generali le differenze individuali, nonché di fornire indicazioni utili per il trattamento. Una volta che si è imparato a osservare configurazioni cliniche ricorrenti che sono state descritte nel corso di decenni di studi, si può buttar via i libri e apprezzare l’unicità degli individui. Certamente, la terminologia diagnostica può essere utilizzata in modo reificante e offensivo, ma io credo che se riuscirò a descrivere in forma rispettosa le differenze individuali, i lettori non saranno affatto tentati di utilizzare la terminologia diagnostica per esprimere una qualche forma di superiorità rispetto agli altri; piuttosto, sarà loro fornito un linguaggio di base per mentalizzare diverse possibilità soggettive, aspetto critico della crescita sia personale sia professionale.
 È facilmente dimostrabile l’abuso del linguaggio psicodiagnostico; ciò, tuttavia, non ne legittima l’abbandono. Ogni tipo di malvagità si può compiere nel nome di grandi ideali, come amore, patriottismo, cristianesimo e altro ancora, non perché sia difettosa la visione originaria, ma per una sua perversione. La domanda importante è: l’applicazione attenta e corretta dei concetti psicodiagnostici aumenta le possibilità del cliente di essere aiutato?
 La diagnosi, quando sia fatta con sensibilità e con un adeguato addestramento, offre almeno cinque vantaggi: (1) è utile nella pianificazione del trattamento; (2) fornisce un’informazione implicita sulla prognosi; (3) contribuisce a proteggere gli utenti dei servizi di salute mentale; (4) aiuta il terapeuta a comunicare empatia; (5) contribuisce a ridurre la probabilità che il trattamento venga abbandonato da quelle persone che si spaventano facilmente. Inoltre, il processo diagnostico presenta una serie di vantaggi collaterali che facilitano indirettamente la terapia.
 Quando parlo di processo diagnostico intendo dire che nelle sedute iniziali con un nuovo cliente, a meno che non si tratti di situazioni di crisi, si devono raccogliere un’ampia gamma di informazioni di tipo oggettivo e soggettivo. La mia tendenza (vedi McWilliams, 1999) è quella di dedicare il primo incontro con un paziente ai dettagli del problema per cui si è rivolto a me e alle sue origini. Alla fine di questa prima sessione, verifico la disponibilità della persona rispetto alla possibilità di lavorare insieme.
 Successivamente spiego che potrei comprendere maggiormente il problema se potessi osservarlo in un contesto più ampio, e generalmente mi accordo per avere una ricognizione più ampia della storia del paziente durante l’incontro successivo. In quella sede, ripeto che farò molte domande, chiedo il permesso di prendere appunti (sottolineando che resteranno confidenziali) e dico al cliente che sarà libero di non rispondere alle domande che ritiene disturbanti (ciò accade raramente, ma i clienti sembrano apprezzare questa possibilità).
 Non sono convinta che consentire lo sviluppo di una relazione crei un clima di fiducia in cui tutto il materiale pertinente alla fine verrà in superficie. Una volta che il paziente si senta molto vicino al terapeuta, potrebbe essere più difficile per lui (e non più semplice) rivelare certi aspetti della propria storia personale o del comportamento. Le riunioni degli Alcolisti Anonimi (AA) sono piene di persone che hanno passato anni in analisi o che hanno consultato un gran numero di professionisti senza aver mai parlato o essersi sentite chiedere dell’abuso di sostanze. Per coloro che associano una seduta diagnostica con immagini di autoritarismo e superiorità morale, mi sia consentito sottolineare che non c’è nessuna ragione per cui un colloquio approfondito non possa essere condotto in un’atmosfera di sincero rispetto e pariteticità (Hite, 1996). I pazienti di solito sono grati di fronte a un atteggiamento professionalmente accurato. Una donna che venne da me dopo aver incontrato diversi terapeuti fece questo commento: “Nessuno si era mai interessato così di me!”



Bibliografia

McWilliams, N., La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio Ubaldini Editore, Roma, 2012

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