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Motivazione




In psicologia, per motivazione si intende l'insieme dei bisogni, desideri, intenzioni che concorrono alla determinazione del comportamento e che conferiscono a quest'ultimo unità e significato. La m. assume particolare rilievo in una cultura, come quella diffusa nelle società occidentali di fine Novecento, basata sull'affermazione (sia pure spesso astrattamente ideologica) dell'individuo come soggetto di diritti e come artefice di scelte. Come suggerisce la stessa ricerca psicosociale (Simon 1997), l'idea della centralità dell'individuo si è sviluppata proprio in rapporto alla struttura complessa e altamente differenziata della società contemporanea, nella quale i singoli sono indotti a percepirsi come un sistema unico e irripetibile di caratteristiche soggettive, anche a causa della possibilità, sperimentata nella vita quotidiana, di aderire simultaneamente a un numero crescente di gruppi diversi, indipendenti, quando non addirittura in conflitto tra loro.

I processi motivazionali si avviano dunque a diventare l'oggetto di un'articolata riflessione multidisciplinare, che chiama in causa il loro substrato neurofisiologico (è stato sottolineato, per es., il ruolo di alcune strutture del sistema limbico nel "tradurre le motivazioni in azioni", Duffy 1997), le dimensioni sociologiche, le conseguenze per le scienze dell'educazione, per i processi economici, per lo studio delle organizzazioni. Il ruolo cruciale della m. viene sempre più riconosciuto all'interno di molteplici contesti applicativi e in rapporto ai più vari fenomeni della vita sociale (v. oltre).

Anche da un punto di vista strettamente psicologico, del resto, il termine motivazione evoca una grande varietà di temi e processi: parlando di pulsioni, di rinforzo o di scopi, studiosi diversi hanno messo in luce i diversi livelli del comportamento motivato, che implica altrettanto bene meccanismi psicofisiologici, reazioni a stimoli e processi cognitivi. Pur nella loro diversità, quasi tutte le teorie si soffermano sul carattere finalizzato dei comportamenti e analizzano la m. in termini di risultati potenziali. In tale quadro, continua a rivestire notevole importanza l'attenzione ai processi associativi attraverso cui stimoli e incentivi connessi alle prime reazioni emotive si svilupperebbero, dando luogo a motivi via via più complessi (McClelland 1985). Tuttavia, la ricerca più recente si è soffermata sull'importanza e il valore degli scopi, sull'intensità con cui si tende a una meta, nonché sull'influenza che stati affettivi come la soddisfazione, la vergogna o l'orgoglio possono esercitare sulla motivazione.

L'affermarsi della prospettiva cognitivista ha determinato una crescente attenzione al ruolo degli scopi sia nell'elaborazione delle informazioni sia nella strutturazione del linguaggio e nella definizione dei comportamenti (Motivation, thought and action, 1986; Weiner 1986; Miller, Galanter, Pribram 1960; Castelfranchi, Parisi 1980; Trzebinski, Richards 1986; Brewer, 1988). Gli scopi sono, in effetti, rappresentazioni cognitive di stati finali desiderati o temuti, e la categorizzazione semantica che a essi si applica viene ormai considerata come un momento essenziale nello sviluppo dei processi motivazionali. Gli stessi autori che sostengono questa impostazione (Hamilton 1983) propongono comunque di superare la classica dicotomia fra dimensioni cognitive e non cognitive del comportamento, che vengono piuttosto considerate come strettamente interagenti fra loro. Il legame fra queste diverse dimensioni non è univoco: particolari stati affettivi possono, infatti, a loro volta, contenere importanti implicazioni sul piano motivazionale e cognitivo.

Alcuni studi (Schwarz, Bohner 1996) mostrano, per es., che uno stato affettivo negativo (depressione) determina anche modalità particolari di elaborazione delle informazioni (per es., eccessiva focalizzazione su dettagli irrilevanti a svantaggio di una procedura più euristica), che si differenziano nettamente dalle procedure impiegate in condizioni affettive favorevoli.

Alla luce della stretta interazione tra fattori cognitivi e non cognitivi appare destinata ad attenuarsi anche la rigida distinzione fra i concetti di m. e di personalità (l'interdipendenza fra questi costrutti è stata illustrata in alcune ricerche sulle m. aggressive: Caprara 1987). La personalità rinvia infatti all'insieme delle strategie di risposta caratteristiche di un determinato individuo; può essere vista cioè come una sorta di gerarchia (idiosincratica) delle mete preferite (il potere, il successo, l'intimità ecc.), legata ai processi motivazionali che rendono possibile l'azione. Lo studio della m. concerne dunque "tutto ciò che innesca, mantiene, intensifica, interrompe o alterna le varie tendenze d'azione" (Caprara 1988).

Sono proprio i motivi a qualificare l'attività e a darle un senso. Non a caso, le varie teorie dell'azione (Hacker 1973; von Cranach, Kalbermatten 1982; Ajzen 1985; Goal-directed behavior, 1985; Wegner, Vallacher 1986) convergono in genere nel sottolineare la dipendenza dell'analisi dell'azione da un'analisi gerarchica degli scopi. La psicologia dell'azione non può che proporsi infatti di collegare cognizioni e m. al comportamento (Bargh, Barndollar 1996).

In quest'ambito, alcuni modelli teorici sottolineano come il solo fatto di rappresentarsi dei piani d'azione possa assumere grande forza nel determinare l'intenzione di realizzare un'azione (Anderson 1983). Altri autori (Heckhausen, Gollwitzer 1987; Heckhausen 1991) propongono invece una teoria delle fasi dell'azione nella quale il pensiero si focalizzerebbe inizialmente sulle aspettative e gli incentivi, e in seguito sui problemi procedurali connessi alla realizzazione dell'azione. Si parla così di 'motivazione realizzativa' per descrivere le modalità di controllo dell'azione in funzione delle specifiche circostanze in cui questa si trova a svilupparsi (Kuhl 1983; Schmalt 1986). I due modelli non sono comunque fra loro inconciliabili (Gerjets, Heise, Westermann 1996).

Il rinnovato interesse per i processi di volizione che sottendono la realizzazione effettiva (si parla talora di una vera 'riscoperta della volontà' nello studio della m.: Heckhausen, Kuhl 1985; Schmalt, Heckhausen 1987) consente di integrare il classico modello del valore-aspettativa: quest'ultimo, messo a fuoco soprattutto nello studio degli atteggiamenti (Fishbein, Ajzen 1974), suggerisce che la m. può essere vista come funzione del valore attribuito a un determinato scopo e della probabilità soggettiva di raggiungerlo. Le aspettative e la valutazione degli scopi sembrano avere un effetto moltiplicatore rispetto alla m. (Atkinson 1964; Lewin 1951): se uno di essi manca, la m. può risultare insufficiente a produrre il comportamento.

Il nesso inscindibile fra motivi e azione è riconosciuto da quegli autori (Buss 1978) secondo cui, senza un riferimento almeno implicito ai motivi dell'azione, quest'ultima perderebbe la propria caratteristica essenziale e si trasformerebbe in una mera 'occorrenza' (definibile solo in senso negativo e speculare, appunto come atto o evento non intenzionale). In questa linea, m. e intenzioni sono messe a fuoco dalle teorie dell'attribuzione (per una rassegna, Deschamps 1986; De Grada, Mannetti 1988). Molte di queste teorie suggeriscono (sulla scia di F. Heider) che l'intenzione è il vero criterio organizzante della spiegazione ingenua degli eventi e dei comportamenti.

Anche lo sviluppo delle teorie dell'attribuzione è strettamente legato all'affermarsi di una prospettiva cognitiva in psicologia e in psicologia sociale. L'individuo vi appare non come il luogo di pure reazioni a stimoli esterni, ma come un soggetto dotato di una certa autonomia e capacità di scelta, responsabile dei propri atti. In realtà, già C. Rogers, dagli anni Cinquanta, sottolineava i limiti di approcci teorici in cui l'individuo appariva sottoposto alla spinta di opposti determinismi. Da un lato il determinismo dei fattori inconsci, messi in risalto dalla prospettiva psicoanalitica, dall'altro il determinismo ambientale teorizzato dai comportamentisti finivano in effetti per porre in secondo piano le capacità di autoregolazione dell'individuo. Nondimeno, l'analisi dei processi di attribuzione ha pure evidenziato che, nella loro incessante attività di interpretazione, gli individui possono manifestare una preferenza sistematica (bias) verso certi tipi di spiegazione in grado di soddisfare specifici bisogni a proposito di se stessi: autoaffermazione, autostima e salvaguardia di un'immagine positiva di sé, bisogno di percepirsi come persone in grado di esercitare un qualche controllo sul proprio ambiente e di agire in modo competente e positivo (Greenwald 1980 descrive quest'ultimo concetto come beneffectance). Tali bias di natura egocentrica e/o autoprotettiva (self-serving) rispondono probabilmente a una qualche funzione adattiva di tipo generale, anche se il loro specifico contenuto può essere modulato da fattori culturali e norme sociali particolari (Tajfel, Turner 1979a, 1979b; Markus, Kitayama 1991).

Un tema molto studiato in ambito attribuzionale riguarda in questo quadro i modi in cui gli individui spiegano i propri successi o insuccessi. In genere gli individui tendono a mantenere un livello elevato di autostima, attribuendo a se stessi (cioè a cause interne) i propri successi e sopravvalutando il proprio ruolo in situazioni e compiti dall'esito positivo (Rotter 1966; Greenwald 1980; Zuckerman 1979). Viceversa, esisterebbe una generale tendenza a spiegare i propri insuccessi ricorrendo a cause esterne, indipendenti da sé. All'origine di questa tendenza potrebbe esservi sia la ricerca edonistica di uno stato affettivo positivo, sia l'esigenza, più propriamente cognitiva, di valutare (positivamente) la propria prestazione e la propria capacità di esercitare un controllo sugli eventi.

La percezione soggettiva della causalità e dell'origine di un determinato evento non può non rappresentare un elemento decisivo nello strutturarsi di specifiche motivazioni. Così, l'attribuzione di un insuccesso a cause stabili, siano esse interne (mancanza di capacità) oppure esterne (difficoltà del compito), può modificare le aspettative incidendo sulla probabilità soggettiva di realizzare i propri scopi. Viceversa, l'attribuzione a cause instabili, siano esse interne (sforzo insufficiente) oppure esterne (fortuna), consente di mantenere alto il livello di aspettativa perfino in presenza di un fallimento (per la distinzione fra questi diversi tipi di cause, Weiner 1986). In sostanza, le modalità di attribuzione del successo e dell'insuccesso sono anche da collegare alle aspettative a proposito della propria prestazione (Feather 1986).

Per una persona è di fondamentale importanza poter sperimentare l'efficacia della propria azione. Quando questa possibilità viene sistematicamente negata, possono instaurarsi situazioni lesive, talora, per la sopravvivenza stessa degli individui. Non solo, infatti, un insuccesso percepito come dovuto a cause interne e stabili (cioè alle proprie capacità) produce una perdita di autostima e uno stato d'animo negativo. Ricerche sulla cosiddetta inadeguatezza appresa (learned helplessness) mostrano, sia attraverso dati di laboratorio sia attraverso osservazioni naturalistiche, che quando gli individui non possono percepire una qualche correlazione fra le proprie azioni e la probabilità di ottenere certi risultati si può instaurare un deficit motivazionale, cognitivo, emozionale: un'esperienza di perdita di controllo che porta ad accettare passivamente gli eventi, anche i più minacciosi (Overmier, Seligman 1967). Parallelamente, molti studi dimostrano che una visione ottimistica rinforza la m. ad agire, migliora la performance e facilita il raggiungimento del risultato. Un'ipotesi, questa, che, sfrondata da connotazioni ideologiche e dai rischi di un'eccessiva semplificazione, conserva tutta la sua suggestione e il suo notevole interesse teorico (Oettingen 1996).

Anche se, in generale, le persone appaiono motivate a impegnarsi in direzioni in cui si attendono di sperimentare sentimenti positivi di competenza e autostima (per una rassegna, v. The physical self, 1997), esistono notevoli differenze individuali nel modo di guardare al futuro e di orientare i propri comportamenti. Fattori individuali sono pure implicati nella capacità di rinunciare a una soddisfazione immediata a favore di una gratificazione più lontana nel tempo ma maggiormente valorizzata (Mischel 1974). Questa capacità di autoregolazione, sviluppata nei diversi individui in misura differenziale, chiama infatti in causa la personalità, l'intelligenza, oltre ai processi cognitivi ed emozionali che svolgono un ruolo di mediazione rispetto alla motivazione. Anche la consapevolezza di sé (Wicklund 1975) influenza la costanza nel mantenere salienti le proprie mete, e la capacità di controllo nella realizzazione dei propri fini.

A. Bandura (1969) aveva già analizzato la capacità degli individui di controllare e orientare i propri comportamenti, suggerendo che essa può essere l'oggetto di uno specifico apprendimento, basato anche sull'osservazione e l'imitazione di modelli più o meno efficaci. Le nozioni di self-regulation e di self-efficacy sono state poi, anche più recentemente, al centro della riflessione di questo autore (Bandura 1989, 1990). Lo studio dei processi di autoregolazione viene giustamente accostato all'analisi della motivazione intrinseca (Deci 1975). Con questo termine si vogliono designare quelle m., indipendenti da incentivi esterni (premi, punizioni ecc.), che esprimono appunto l'autonoma capacità delle persone di darsi dei fini, degli obiettivi, anche in modo non strumentale e al di fuori di una logica di scambio. Se si considerano le m. intrinseche non solo in base ai contenuti dell'attività, ai risultati, ma anche come processo, questi due ambiti di ricerca appaiono in effetti assai simili (Sansone, Harackiewicz 1996).

Alla m. intrinseca si applicano alcune osservazioni già enunciate in senso più generale: essa dipende dagli scopi (in parte legati a caratteristiche del compito), dalla persona e dal contesto; può modificarsi nel tempo, e può venire influenzata da alcuni importanti mediatori, come l'esperienza positiva vissuta durante la performance (Murray et al. 1990). L'interesse intrinseco per ciò che facciamo è un aspetto essenziale della nostra capacità di mantenere un livello di m. adeguato al raggiungimento degli scopi per noi importanti. In effetti, anche se la m. intrinseca viene tradizionalmente descritta soprattutto come tentativo/desiderio di padroneggiare cose nuove, essa non è meno importante nel mantenere un coinvolgimento in attività già avviate. Il bisogno di conoscenza e il bisogno del risultato, del raggiungimento dei propri fini (achievement), sono i due aspetti cruciali della m. intrinseca.

Lo studio della m. intrinseca ha grande importanza per la comprensione di alcune essenziali manifestazioni dell'attività umana, come per es. la creatività (Amabile 1983; Cropley 1995; Andreani Dentici 1994, fra gli altri). L'attenzione degli studiosi si è concentrata infatti non solo sul ruolo del coinvolgimento personale e dell'orientamento nell'azione, ma anche sulla capacità di mantenere un'apertura nei confronti di diverse alternative (Gollwitzer, Wicklund 1985; Kruglanski, Klar 1985). Evidentemente, anche la m. intrinseca viene influenzata dal sentimento della propria efficacia e da una capacità di rappresentazione che spesso va al di là del sé attuale, per comprendere i molti 'sé possibili' (Markus, Nurius 1986).

Il ruolo dei processi di autoregolazione e della m. intrinseca è cruciale in una società che punta sulla comunicazione e sulla persuasione come principali strategie di influenza e di cambiamento. La persuasione ha infatti il vantaggio (rispetto a incentivi o sanzioni dirette) di instaurare un controllo interno, che non richiede dunque una sorveglianza continua; inoltre, una strategia basata sul convincimento appare ideologicamente più in linea con i principi di libertà individuale e di autodeterminazione cui si richiamano le moderne democrazie.

L'interesse generale per il ruolo di questi processi nella vita quotidiana è documentato da una grande quantità di esperienze specifiche, realizzate nei più vari contesti sociali e organizzativi (educazione, sport, turismo e tempo libero, fenomeni migratori, comportamenti a rischio ecc.). Ricerche condotte in ambito clinico si interrogano, per es., sui fattori che determinano i comportamenti sanitari e che consentono l'adozione di nuove abitudini, efficaci in termini di prevenzione: più che come risultato di una decisione circoscritta, il cambiamento si presenta come un processo comprendente le diverse fasi di un'azione diretta a uno scopo, costituito in questo caso, appunto, dalla salute (per es., Gebhardt 1997). Altri studi vertono sulle aspirazioni e i motivi di individui appartenenti a specifiche categorie sociali (donne che si dedicano a studi scientifici o a una carriera solitamente considerata 'maschile', atleti impegnati in attività agonistiche, studenti universitari ecc.).

Un altro esempio riguarda lo sviluppo della capacità di pianificare nei bambini messo in relazione con la percezione di poter esercitare un controllo personale sui risultati dell'azione (The developmental psychology of planning, 1997); un fattore, come si è detto, decisivo nella generazione e organizzazione di piani d'azione efficaci. Lo studio della m. intrinseca e della capacità di autoregolazione rappresenta, in definitiva, un importante punto di riferimento anche nelle pratiche educative e nella gestione delle risorse umane.

Molte sono le questioni aperte, destinate a diventare oggetto di una crescente attenzione nel prossimo futuro. È stata evidenziata, per es., la necessità di avviare una ricognizione sistematica delle determinanti cognitive ed emozionali del comportamento che sfuggono alla percezione cosciente. In questo quadro viene ormai largamente riconosciuta l'importanza dei 'processi automatici' nella cognizione sociale e nella m. (The automaticity of every day life, 1997), processi (ancora in buona misura da esplorare) che affiancano il pensiero cosciente nel guidare i comportamenti e nel produrre l'azione (Sorrentino 1996). La natura della consapevolezza, la volontà, l'autodeterminazione e il controllo del proprio comportamento sono alcuni dei temi caldi messi a fuoco da questa linea di riflessione. Secondo Bargh e Barndollar (1996) l'inconscio potrebbe rappresentare, in quest'ottica, una sorta di deposito di scopi e motivi cronici.

Infine, è da segnalare il crescente interesse per la stretta articolazione fra processi individuali e sociali (Tetlock 1986; Stangor, Jost 1997): le forme di socializzazione, i ruoli sociali, le diverse condizioni di interazione evocano strategie cognitive e comportamentali differenti. In questa linea, alcuni contributi recenti (per es. Higgins 1996) sottolineano la natura sociale della self-regulation: la scelta di quali obiettivi perseguire e di quali rischi ed errori evitare, la stessa concezione di ciò che siamo, del nostro posto nel mondo, sono elementi di una realtà condivisa, prodotta collettivamente, attraverso il dispiegarsi dei rapporti sociali e l'interazione con altri soggetti significativi.






Bibliografia


da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it

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