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Normalità




«Normalità» è una parola vuota, un contenitore in cui può entrare tutto e, di conseguenza, non indica nulla di preciso. E non può pertanto essere la misura della a-normalità e della follia. Altrimenti si finisce per cadere in un altro luogo comune: il dualismo normalità-follia. Sarebbe come usare un metro elastico per misurare in maniera precisa un oggetto. È un inutile gioco di finzione e sarebbe drammatico se il gioco venisse definito oggettività.

   Il termine «norma» (dal latino norma, squadra) si impone con la statistica e indica la misura più frequente di una caratteristica appartenente a una popolazione. In medicina è assunto come un paradigma, una sorta di ordinatore.

   Basti pensare agli esami ematochimici, per i quali il «valore normale» serve per definire gli scarti tra la media della popolazione e le misurazioni nei singoli pazienti. Gli esempi più comuni sono la glicemia, la colesterolemia, il cui dato elevato in confronto a quello della norma ha come conseguenza la diagnosi di diabete oppure di sindrome metabolica, che ha, a sua volta, un peso enorme per il rischio dell’infarto cardiaco o cerebrale.

   In questa dimensione si può dire che, pur rimanendo indefinibile la normalità, si tratta in ogni caso di un riferimento utile dal punto di vista empirico.

   Un valore nella norma è un indice di funzionalità di sistemi organici: al livello di glicemia contribuisce l’istinto alimentare che richiede di ingerire zuccheri ma, se l’assunzione è eccessiva, viene automaticamente stimolata la produzione d’insulina nel pancreas che riporta il sistema nella norma. È una regolazione interna condizionata anche dall’ambiente e dall’attività che l’uomo svolge. Se per esempio corre, il consumo di glucosio aumenta e quindi avverte la fame come stimolo a un nuovo approvvigionamento.

   Qualcosa di analogo avviene anche per il colesterolo che, oltre a un apporto dall’esterno, ha una formazione endogena e un consumo che si definisce fisiologico, parte della macchina.

   Il rapporto uomo-ambiente assume una dimensione molto più ampia quando ci si riferisce alla normalità del comportamento umano.

   Stride persino parlare di uomo normale in assoluto, tanto è importante il suo rapporto con il mondo. Un uomo fuori dal mondo è un assurdo, poiché il suo esserci senza l’ambiente non sarebbe.

   Se riconosciamo che la nascita avviene già nel momento dell’unione tra le due cellule generative (cellula uovo e spermatozoo), dobbiamo precisare che esse generano a un’unica condizione: se e solo se si impiantano nell’utero materno.

   Da questo momento inizia un legame tra feto e madre, continuo e necessario.

   Il parto segna la fine di questo tipo di rapporto, ma ne avvia uno nuovo. Si taglia il cordone ombelicale e si attiva quello che John Bowlby, in maniera efficace, chiama l’attaccamento madre-bambino. È la stessa unità che si realizza in maniera differente. Successivamente si giunge al legame sociale, poiché, oltre a un ambiente fisico (che pure è molto importante), si generano relazioni interpersonali e di dimensione più ampia che dalla microsocietà portano alla macrosocietà.

   Il concetto di individuo-sociale, che sembra una contraddizione in termini, esprime il principio che, per essere individui, occorre al contempo essere altro, trovarsi in uno spazio geografico e in una rete di relazioni.

   In base a queste considerazioni, si potrebbe persino discutere se il pronome «io» sia corretto, o se non debba invece essere più adeguato il «noi».

   Credo che il concetto di adattamento (fitness), che Charles Darwin ha indicato come condizione esistenziale, si leghi proprio alla condizione dell’uomo, alla sua impossibilità di essere senza essere «accettato» dall’ambiente. Un’accoglienza che ha riferimenti fisici: la temperatura corporea intorno ai 36 gradi fa sì che, se l’ambiente avesse una temperatura di 90, i limiti della capacità di adattamento non permetterebbero di viverci. Avviene lo stesso per l’aria, per il rapporto tra ossigeno e anidride carbonica.

   È altrettanto necessario, però, adattarsi all’ambiente umano, rappresentato dalla comunità dei propri simili, ma anche degli altri viventi: predatori, serpenti velenosi, animali domestici.

   Darwin, a questo proposito, si spinge a parlare di «lotta per l’esistenza», ipotizzando che l’ambiente sia talmente nemico da indurre nell’uomo un meccanismo di reazione del tipo mors tua, vita mea.

   Da questi richiami si evince che la normalità non è qualcosa di insito nel corpo, poiché la macchina si muove in un luogo preciso e tra altre macchine. Il «mio» comportamento dipende dal modo di agire sociale. La parte così importante assunta dai legami è una condizione essenziale per ciò che chiamiamo «emozioni» e «sentimenti». Non è possibile parlare di affettività senza l’altro, e infatti si è soliti ricorrere alla definizione dell’amore come unione (che arriva a un vero aggancio tra i corpi nel rapporto sessuale).

   E lo stesso vale anche per la ragione, che è a fondamento della comprensione del mondo, della consapevolezza di essere in un luogo con gli altri.

   Il linguaggio è una funzione della macchina, ma si attiva solo nel processo di adattamento, che vuole dire vivendo con gli altri in un dato ambiente fisico.

   Nei casi in cui si è potuto assistere allo sviluppo di un bambino in sensory deprivation – che può essere considerata, almeno in parte, la cancellazione di un ambiente poiché manca la stimolazione sensoriale – non si sviluppano né il linguaggio né le funzioni più tipicamente umane come l’affettività e la razionalità.

   Il «ragazzo selvaggio» dell’Aveyron (studiato all’inizio dell’Ottocento), vissuto fino a undici-dodici anni nella foresta senza contatto umano, mostrava una deambulazione quadrupede, non parlava (emetteva solo suoni) e rifiutava ogni tipo di vicinanza.

   Un ulteriore esempio dell’indissolubilità del rapporto tra individuo e ambiente si trova negli studi di Margaret Mead su alcune ragazze cresciute nell’isola di Manus, ubicata nel nord di Papua Nuova Guinea, in cui la popolazione viveva in una condizione simile a quella del 30.000 a.C. (Paleolitico superiore), che, condotte a New York, nel giro di pochi mesi hanno mostrato una vera metamorfosi fisica e mentale.

   Mi pare davvero incredibile che si continui a parlare di normalità di Tizio o di Caio, come se un individuo fosse un ente astratto, autonomo, indipendente, alla maniera delle idee platoniche dell’Iperuranio.

   Se è già difficile dare un senso all’aggettivo «normale» per gli organi del corpo umano (pure condizionati dall’attività in un dato ambiente), è addirittura impossibile farlo quando ci si riferisce alla dimensione più specifica dell’uomo, quella della mente, che è l’insieme di comprensione, sentimento e comportamento sociale.

   L’inconsistenza del termine «normalità» coniugato al comportamento deriva dalle osservazioni quotidiane, soprattutto nel tempo presente, in cui si frequentano molteplici ambienti molto differenti tra di loro.

   Già a partire dal rapporto interpersonale, si possono osservare modalità di essere contrastanti a seconda di chi abbiamo di fronte. Si notano atteggiamenti di accoglienza o segnali di allontanamento in base alla simpatia o all’antipatia, oppure in funzione di esperienze passate con quella stessa persona, che incidono anche sull’incontro presente.

   La percezione di qualcuno come nemico ci dispone a un incontro totalmente differente dall’attesa di un legame d’amicizia. Un’analoga diversità si evidenzia anche con gli ambienti sociali: il comportamento in famiglia può essere distante da quello che si ha sul lavoro, e non solo per le molteplici funzioni che si attivano, ma proprio per gli atteggiamenti che si assumono.

   Ulteriori metamorfosi possono essere osservate nella frequentazione di un ambiente sportivo oppure religioso, e così via per tutte le possibili combinazioni tra un soggetto e le comunità in cui è inserito.

   Quello stesso individuo mostrerà «volti» che possono sembrare così diversi da appartenere a io tra loro sconosciuti.

   Non siamo certo lontani dall’Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, e di fronte a questa moltiplicazione di identità (per cui si parla anche di «personalità multipla»), il termine «normalità» perde di significato, a meno che non ci si voglia spingere all’assurdo di sostenere, per uno stesso individuo, l’esistenza di «centomila normalità».

   Nonostante l’inconsistenza del termine «normale» come metro del comportamento, nella storia si è sempre cercato di difenderlo, e ciò è avvenuto in particolare attraverso l’uso di un’antica disciplina, l’etica, che esprime un giudizio su ciò che un uomo è, e su quanto di appropriato egli compie: un vero e proprio manuale di comportamento che divide l’area del bene da quella del male.

   La normalità si situa, in base all’etica, nella zona del bene e l’anormalità in quella del male.

   Questa antinomia ha posto da un lato i vizi e dall’altro le virtù: gli uni sono formati dalle categorie dei comportamenti malvagi, le altre da categorie non solo positive, ma da promuovere.

   Possiamo considerare strumenti destinati a mettere insieme comportamento ed etica le Tavole della Legge date da Jahvè a Mosè, e le Beatitudini, riportate nei vangeli e attribuite a Gesù: vero Uomo e vero Dio.

   In questi pur rapidi riferimenti, si delinea un sistema che tende a fissare in modo preciso il concetto di normalità e di anormalità, inserendoli in un contesto etico che definisce e insegna ciò che si deve fare e ciò che invece va evitato. E, per dare forza a questa operazione e toglierle ogni dubbio, se ne attribuisce l’origine alla Verità, che è promulgata dalla massima autorità che si possa immaginare, il Creatore del cielo e della terra e, quindi, anche dell’uomo, di cui Egli solo può parlare perché lo ha creato.

   Per questa via siamo arrivati a Dio, alla dimensione teologica, a cui però non tutti credono, ma che rimane in ogni caso un’espressione del potere. Solo chi può indicare la giusta direzione può infatti decidere ed essere giudice.

   La morale ha bisogno di essere «certificata», di andare oltre alla visione personale. Escludendo Dio, si eliminerà il potere di Dio, ma non certo quello attribuito al re, al dittatore, alle oligarchie e alle democrazie. Tutti questi sistemi sono accomunati dall’esercizio del potere che viene mantenuto sempre, sia pure in forme differenti.

   Nel caso di Dio si potrà definire ciò che è normale (bene) o anormale (male), in rapporto alla vera vita, che è quella eterna.

   Negli altri casi il bene e il male avranno una funzione terrena, delle finalità storiche, ma in ogni modo ingloberanno il potere che diventa «norma», che indica ciò che si può o non si può fare.

   Ogni potere, per essere morale, deve promuovere il bene, imporlo e punire chi non lo persegue.

   Per dare valore assoluto all’etica, nella storia si sono seguite due, e solo due, strade. La prima è quella dell’ipse dixit, che significa: non sta a te singolo esprimere ciò che è bene e male, ma spetta a chi ne ha l’autorità. È il principio alla base dell’educazione e il fondamento del potere, nelle sue varie declinazioni.

   La seconda via per fissare in modo indiscutibile il campo del bene e del male consiste nel riconoscerlo insito dentro la nostra stessa natura, che potremmo chiamare, in termini più vicini a noi, il «nostro genoma». Si tratterebbe in questo caso di qualcosa di costitutivo.

   A esprimere questa seconda via è stato Immanuel Kant con la sua celebre espressione «la legge morale dentro di me». Il filosofo sosteneva che, perché una società potesse formarsi, dovevano attivarsi i princìpi «stampati» nella natura e nell’uomo, che ne è la più alta espressione.

   Non sono naturalmente mancate delle interpretazioni che hanno cercato di conciliare le due strade.

   Dio ha fatto l’uomo a propria immagine (il Sommo bene) e non era quindi necessario che promulgasse le regole etiche, poiché sono scritte dentro di noi. Questa è la dimensione dominante (la normalità), alla quale fanno eccezione i casi di dissenso, cioè i soggetti che si possono chiamare con i termini equivalenti di peccatori-anormali.

   Cambia solo la tinta che distingue una religione del cielo da una religione della terra: potere di Dio o potere del re.

   Non è un caso che in molte società si è cercato di unificare i due poteri.

   Nella sua realizzazione più semplice, il re stesso è considerato un’emanazione di Dio. Quando, invece, Dio è stato estromesso, lo si è fatto subito rientrare nella forma del governo assoluto, fondato sul mito della personalità: Stalin con i poteri di vita e di morte, la Rivoluzione francese, con i princìpi «liberté, égalité, fraternité», con il Direttorio e la dea Ragione.

   Abbiamo descritto un percorso che nega significato alla «normalità» (termine vuoto), ma al contempo esprime il bisogno di reinventarla, riempiendola di regole e confondendola con la parola «potere».

   Se la normalità avesse un fondamento biologico (stampato nella carne) oppure un’origine divina, acquisterebbe un senso assoluto, non modificabile. La storia invece ha mostrato che la normalità assume le connotazioni più differenti anche se è correlata al bene, perché anch’esso assume connotazioni non solo nuove, ma persino opposte fra di loro. Il potere gli attribuirà ogni senso possibile, pur di rispondere al bisogno primario di essere mantenuto e incrementato.

   Il comandamento «non uccidere» è presente in ogni tavola delle leggi. Lo si può altrimenti esprimere anche con la formula «ama il prossimo tuo». E l’amore non solo non è compatibile con il dare la morte, ma ne è addirittura l’antitesi.

   Ho sempre sostenuto la convinzione che anche etimologicamente «amore» sia l’insieme dell’alfa privativo e di «morte», che viene contratto in «mor[t]e» e diviene «a-mor[t]e».

   Ebbene, se il non ammazzare fosse un principio fissato dalla biologia o garantito da Dio, non solo non avrebbe senso il comandamento che lo vieta, ma nessuno ucciderebbe, neppure se lo volesse.

   La storia invece ci permette di osservare che l’omicidio tra specie diverse (inter-specie) è all’interno della lotta per la sopravvivenza, ed è alla base della predazione e della caccia. Generalmente a questa modalità interspecifica si dà la denominazione di aggressività.

   L’omicidio all’interno della stessa specie (intra-specie) è invece raro tra i viventi non umani; ma tra gli uomini è invece esercitato in maniera enormemente maggiore, tant’è che si è coniata l’espressione: homo homini lupus. A questa modalità intraspecifica si dà il nome di violenza.

   Il comandamento «non uccidere» è abitualmente inteso in quest’ultimo senso; del resto non può essere altrimenti, se si tiene conto che in onore degli dèi o del Dio dei monoteisti si devono offrire sacrifici. E sappiamo che Jahvè ama il sacrificio degli agnelli.

   È bene però anche ricordare che Jahvè arriva a chiedere ad Abramo di sacrificare il figlio unigenito Isacco. E benché appaia incredibile, Abramo pensa che sia una richiesta legittima da parte del suo Dio, tant’è che prende per mano il proprio figlio e si dirige sul monte per il sacrificio.

   Esclusa dunque l’eventualità teorica di una condizione umana impossibilitata a uccidere, è legittimo concludere che il divieto rientra in un imperativo morale, il cui statuto è nel potere umano.

   Ma ecco il paradosso: se uccidere viene sanzionato «di norma», ci sono condizioni in cui non solo è possibile, ma diventa imperativo farlo.

   Basterebbe rievocare le Crociate, indette per eliminare i turchi, gli infedeli che occupavano i territori ritenuti sacri dalla religione cristiana: era proprio a Gerusalemme che il loro Dio era stato crocifisso, là esisteva il sepolcro in cui era stato deposto.

   Furono dunque delle guerre scatenate da un imperativo religioso, e sostenute al contempo dal braccio civile che vedeva nella conquista dell’Oriente un’occasione per incrementare il proprio potere e possedere terre considerate non solo nemiche ma demoniache.

   Morire combattendo il turco comportava la garanzia del paradiso e della vita celeste.

   Se le Crociate sono un capitolo lontano e dimenticato, nel tempo presente assistiamo a un’identica versione, anche se i protagonisti – combattenti della guerra santa – e il nemico da distruggere si sono invertiti i ruoli.

   La battaglia condotta in nome di Allah è contro l’Occidente cristiano; e diventa morale, addirittura santo, sacrificarsi per provocare la morte degli infedeli e occuparne, anche in questo caso, i territori.

   Gli eroi hanno come garanzia il paradiso e, poiché la guerra è santa ed è voluta da Allah, hanno anche la certezza di vincerla, benché il confronto delle forze in campo sembri decretarne la sconfitta.

   Si inventa così una strategia che rende ridicoli i grandi armamenti, comprese le bombe atomiche. Un kamikaze che si faccia esplodere in un villaggio ottiene una piccola, ma significativa vittoria. Se poi sale su un camion e percorre a tutta velocità una strada in cui passeggiano molte persone che partecipano a una commemorazione festosa, la vittoria è più grande perché si sono ammazzati molti più infedeli, siano essi bambini, adulti o vecchi.

   Allah lo vuole, così come Dio voleva che il turco, l’infedele, sparisse dal consesso umano.

   La religione da sempre rende gli dèi protagonisti della storia umana e si serve del potere in terra e degli alleati in cielo. E, in base a questa alleanza, ci si è spinti anche a inventare l’Inquisizione; e il rogo fa esattamente pendant con certe immagini della cronaca del tempo presente in cui, invece di ammazzare con il fuoco, lo si fa puntando una pistola alla testa e, invece di usare la ghigliottina, ci si serve di una scimitarra. Nel passato esistevano gli autodafé, e Dostoevskij li descrive nei Fratelli Karamazov, con l’uccisione di cento eretici a Siviglia: oggi si assiste a esecuzioni di massa più o meno della stessa entità.

   Uccidere è male, ma può diventare sommo bene, e la capacità di capovolgere l’etica sta nelle mani del potere: nelle mani di Stalin, quando ammazza nei gulag della Siberia; nelle mani di Hitler che, in nome di una purezza della razza, brucia nel Krematorium gli ebrei.

   Esiste un’immagine storica che più di tutte dimostra l’origine dell’omicidio inteso come servizio e come dovere: è quella dei soldati tedeschi a Stalingrado. L’esercito di Hitler è stremato, deve attaccare le forze sovietiche, ma si trova di fronte il ritiro dei nemici che cercano di evitare le truppe tedesche fino a chiudersi a Stalingrado, dove si scatena l’assedio che dura dall’estate del 1942 al 2 febbraio 1943, quando avviene lo scontro definitivo.

   L’esercito russo approfitta dell’inverno per colpire anche con il freddo il nemico tedesco. Hitler, di fronte a una prova chiaramente disperata, dà ordine di resistere fino all’ultimo soldato.

   A comandare la VI Armata c’è il generale Friedrich von Paulus che, assecondando gli ordini, comanda ai soldati di morire. Non accenna nemmeno alla possibilità di combattere i nemici, tanto sono distanti le forze in campo. E lo fa con quell’ormai famoso discorso, in cui si rivolge ai soldati chiamandoli «cani» e aggiungendo: «Volete voi vivere in eterno? E allora morite in battaglia».

   Questa dichiarazione non è in nulla differente da «Allah lo vuole»; basta mettere, al posto di quel Dio, Adolf Hitler: una delle espressioni storiche dell’estremo potere terreno.

   Questa immagine, drammatica ma efficace, dimostra che il bene e il male dipendono dal potere, e che, poiché abbiamo visto come normale-anormale si riflettano rispettivamente nel bene-male, sono anch’essi – sia pure all’interno di uno scenario meno estremo – letteralmente nelle mani del potere. «Mani» non in senso metaforico, perché in questo caso intendo riferirmi alla tentacolarità del potere che dipende sempre da una sola testa, allo stesso modo di tutti i serpenti che vibrano a guisa di capelli sul capo della Gorgone Medusa.

   Forse mi sono allontanato troppo dai temi che ci si aspetta in un compendio di psichiatria, ma sono convinto che queste mie riflessioni siano l’unico modo per esprimere in maniera inequivocabile tutte le difficoltà cui va incontro uno psichiatra che si riferisca al concetto di normalità. Inevitabilmente finirà per essere in balia del potere, qualunque esso sia, e si allontanerà dalla dimensione scientifica propria della medicina, che – anche se non significa la verità – deve essere l’unico statuto su cui fondarla e praticarla.

   Avevo pensato di usare, per la stessa dimostrazione, il tema dell’educazione, considerata la disciplina atta a insegnare il bene ed evitare il male, per guidare alla normalità ed evitare gli eccessi della follia.

   In questo caso avrei potuto ricorrere al termine «autorità», anziché «potere», per parlare di un sistema in cui vige l’accettazione a essere ammaestrati, e usare innumerevoli esempi per esprimere sul piano del comportamento la dimensione del bene e, per contrapposizione, del male da evitare.

   Avrei potuto così parlare dell’amore dell’educatore, introducendo termini come «equilibrio» e «buon senso», ma mi sarei sentito un poco incoerente, poiché sono convinto che questo campo rappresenti il potere in tutto il suo significato, sia pure imposto con le «belle maniere», sempre pronto a usare falsità quando non si ottengono gli effetti attesi. Infatti, di fronte alle aspettative deluse, si mettono in atto decisioni che presuppongono la definizione di chi non sia stato alle regole imposte come «cattivo» e «anormale» (o «squilibrato»).

   Se non funzionano le belle maniere, subentrano i collegi, gli istituti di correzione, i sistemi di punizione, per non parlare delle diagnosi di disturbi di personalità, di caratteropatia, con cui si entra nel dominio della psichiatria.

   La normalità, è ormai chiaro, non può essere né il fondamento né il punto di riferimento per la psichiatria, poiché ciò equivale a sottomettere una disciplina (con la maschera della scienza) soltanto al potere (con la maschera dell’autorità).



Bibliografia


Vittorino Andreoli, I princìpi della nuova psichiatria, Rizzoli, 2017

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