Nozze
Celebrazione
del matrimonio; denominazione che deriva dal latino nubere (velare,
coprire), perchè nello sposarsi era uso antico di coprire le spose col
velo. Presso gli antichi Romani non ogni giorno era ritenuto adatto
alla celebrazione delle, nozze. In giorni feriali non celebravano
matrimoni; principalmente con vergini era cosa scellerata il far
violenza, e nelle nozze si supponeva, per così dire, venisse fatta
violenza alle vergini. Osservavano pure di non celebrare le nozze nel
giorno antecedente a uno di quelli i quali per decreto dei pontefici
erano giudicati atri, cioè infausti. Nel giorno in cui la sposa doveva
essere condotta alla casa del marito, dopo consultato gli auspici, essa
veniva ornata con trecce e pettinata con la drappella (ferro ritorto)
di un'asta stata infissa nel corpo di un gladiatore ucciso. Le si
metteva una tunica chiamata recta e una cintura di lana di pecora; una
corona le cingeva le tempie, e il capo era coperto con un velo giallo
fiammante chiamato flammeo. La sposa, ornata in tal modo, portando
sotto il mantello una coroncina di fiori, verbene ed erbe raccolte da
lei, e tenendo una rocca col pennacchio e un fuso col filo, era
condotta verso sera nella casa del marito da giovani vestiti di
pretesta: di questi uno portava davanti una fiaccola di biancospino,
due tenevano per le mani la sposa, e un giovane impubere in un vaso
aperto portava gli utensili domestici che servivano per il di lei uso e
ufficio. Il giovane era chiamato Camillo, e il vaso dicevasi cumero o
cumera, o anche Camillo, a cagione del giovane ingenuo che lo portava.
Giunta la sposa davanti alla porta della casa del marito, la qual porta
era ornata di fronde; essa veniva interrogata del suo nome; al che
rispondeva chiamarsi Caja, e la formula solenne era questa: Ove tu sei
Cajo, io sono Caja; indi ornava la porta con la benda di lana e
l'ungeva con olio e con grasso lupino o porcino. Finita questa unzione
che veniva fatta per allontanare gli incantesimi, la sposa entrava in
casa: ma doveva badare attentamente che i piedi non toccassero la
soglia; perciò o la passava d'un salto, o veniva portata da due
compagne.
Durante la cena si gridava ihate lo come fra i Greci gridavasi imene.
La sposa era condotta nella camera preceduta da una fiaccola, la quale
solevano l'un l'altro togliersi di mano gli amici dei due coniugi. Poi
la sposa veniva dalle pronube collocata nel letto nuziale; queste
dovevano essere donne di provata castità, le quali non avessero preso
marito più di una volta, affinchè fossero d'augurio della perpetuità
del matrimonio. Finalmente il marito scioglieva alla sposa la cintura
verginale, fascia o cinto stretto sulla camicia col nodo d'Ercole, come
augurio di essere felici nell'aver figli, come fu Ercole, che ne lasciò
settanta. E nel sciogliere tale nodo, invocava in suo aiuto la Dea
Verginense, la quale aveva la cura di far sciogliere felicemente la
cintura verginale, portata dalle giovani tutto il tempo della loro
verginità, appena che fossero maritate. Nella camera nuziale si
portavano i simulacri di molti Dei, affinchè col loro aiuto la sposa
potesse felicemente congiungersi col marito. E questi Dei erano
presieduti da Venere e Priapo, il quale aveva un incarico speciale, e
in quella circostanza veniva chiamato Mulino, a cui era nella stanza
dedicato un alto sedile al quale si ascendeva per gradini ornati
d'avorio: su questo sedeva la novella sposa per un momento, affinchè
paresse che il Dio ne avesse prima delibata la pudicizia.
Bibliografia
Ronchetti G., Dizionario illustrato dei simboli, Hoepli, MIlano, 1928