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Pesce




In varie culture antiche il pesce è associato alla divinità e
assume il valore di salvatore del mondo, secondo una
tradizione che influirà, tra l’altro, sul simbolismo cristiano.
Nella tradizione induista, Visnù s’incarna in un pesce e salva
il mondo dal diluvio universale, apparendo a Manu,
legislatore dell’attuale ciclo; dei dalla forma di pesci
adoravano anche i Babilonesi (Ea), i Fenici e i Filistei
(Dagon). Nel mito classico il pesce è sacro non solo ad
Afrodite, che assume proprio queste sembianze per sfuggire
a Tifone, ma anche a Poseidone. Nelle feste dedicate al dio
Vulcano (Volcanalia) il 23 agosto, gli antichi Romani
sacrificano pesciolini sul fuoco, ritenendo così di risparmiare
vite umane, poiché i pesci vanno a sostituire simbolicamente
le vite degli uomini (Maspero 261). Dall’acqua in cui è
immerso, il pesce trae anche il valore simbolico della
fecondità e presso alcuni popoli rappresenta l’emblema
dell’organo sessuale maschile, come ancora accade in alcune
zone dell’Africa (Cattabiani 2002, 41 ss.). Sulla scia di una
lunga tradizione, i cristiani lo rendono simbolo di Gesù; le
lettere del termine ἰχθύς («pesce» in greco) diventano le
iniziali di «Gesù Cristo figlio di Dio salvatore». I Padri della
Chiesa, secondo una consolidata metafora evangelica,
considerano gli apostoli «pescatori di uomini» (Matteo 4,19),
mentre i fedeli sono «piccoli pesci» che seguono il «Pesce»
per eccellenza: Cristo (cfr. Ambrogio, Sui Sacramenti 2,2).
La classificazione dei pesci è ispirata spesso alle analogie
d’aspetto o di comportamento con gli animali terreni, più
familiari all’uomo: così troviamo, come in un mondo
metaforico che funge da specchio di quello emerso, il pescecane,
il pesce-tordo, il pesce-ragno, persino il pesce-donnola.
Al di là degli aspetti legati al mito o al simbolismo, i pesci
costituiscono un alimento molto apprezzato nell’antichità: i
Romani li allevano anche nei vivaria. Ai pesci e alla pesca
sono dedicate opere specifiche (tra queste, il poemetto
Halieutica di Ovidio e un’opera dallo stesso titolo di Oppiano
di Anazarbo).
La società degli animali esopici, calata in un mondo
pastorale, è ovviamente una società di terra piuttosto che di
acqua. Tuttavia, gli esseri marini compaiono in diverse
favole: va puntualizzato che gli antichi sono piuttosto
imprecisi nella classificazione e non distinguono tra pesci,
cetacei e altri animali acquatici. Quanto ai crostacei, per la
loro ambiguità sono guardati con sospetto (lo stesso accade
per i coccodrilli), perché vivere una doppia natura, sulla
terra e in acqua, significa, nella semplice mentalità esopica,
essere poco affidabili (v. GRANCHIO); inoltre, il mondo del
mare appare qualcosa di «altro» e misterioso, secondo una
mentalità ampiamente radicata nel mondo antico. Nelle
favole i pesci, quando sono definiti in modo generico,
appaiono sempre in rapporto dialettico non tra di loro (a
eccezione della favola 38 di Aviano: v. GHIOZZO) ma con il
pescatore, figura che li collega a una dimensione meno
indefinita: peraltro, questo dualismo è rappresentato di
frequente a partire da Omero (v. PESCATORE). Nella favola
esopica 25 Ch., i «pesci piccoli» si salvano nel momento del
pericolo, mentre i «pesci grossi» non trovano via d’uscita:
l’immagine – e in particolare la stessa espressione –
sopravvive ancora oggi nell’immaginario collettivo. La
morale è consolatoria per le classi subalterne e perciò
appare tipicamente esopica. Del resto, nell’antichità esiste
anche il motivo proverbiale, di segno opposto, secondo cui
«Spesso il pesce grande mangia i pesci piccoli»: è attestato
nelle Satire Menippee di Varrone (289,2 Bücheler). In
un’altra favola, la 24 Ch., i movimenti dei pesci che si
dimenano dopo la cattura, molto simili a una singolare
danza, diventano motivo per una vicenda che ha larga
fortuna nella letteratura antica ed è attestata già in Erodoto
(1,141): poiché gli Eoli e gli Ioni non hanno accettato le
condizioni dei suoi ambasciatori prima di essere costretti
dagli eventi, Ciro, re persiano, li paragona ai pesci che si
decidono a danzare quando finiscono nella rete. Appare qui
evidente il processo di dissacrazione tipico della favola: i
pesci sono soltanto un cibo ambito e diventano persino
motivo di scherno. Infatti, paradossalmente non danzano
sentendo l’aulòs, strumento originario dell’Asia, caro a
Dioniso, «dal suono eccitante e sensuale» (accostabile
all’oboe a canna doppia: cfr. Pahlen 44; altri studiosi
riscontrano somiglianze anche con flauti – il termine più
usato nelle traduzioni – e clarinetti), ma solo dopo la cattura.
Questa tecnica di pesca è attestata da Eliano (De natura
animalium 1,39) per la cattura delle pastinache
(osservazione simile anche in 17,18). In altre favole, il profilo
dei pesci, o degli esseri a loro assimilati, emerge con
maggiore precisione, anche se prevale, per lo più, un
generico significato simbolico (v. BALENA, DELFINO,
GHIOZZO, SARDELLA, SMARIDE, TONNO). Anche nel
Pañcatantra (tantra primo, racconto dodicesimo), troviamo il
conflitto pescatori-pesci, in una narrazione dai chiari
significati simbolici. Tre grandi pesci che vivono in un lago
reagiscono diversamente quando si rendono conto che
stanno per arrivare i pescatori con le loro reti: uno (dal nome
significativo: «Organizzatore-del-futuro») se ne va, gli altri
due restano. Quando arriva il momento della pesca, uno di
questi («Pronto-di-spirito») con l’astuzia si salva, fingendosi
già morto, mentre l’altro («Ciò-che-avverrà») non trova
scampo e paga così la sua superficialità.






Bibliografia


Stocchi C. Dizionario della favola antica, BUR, 2012

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