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Postmoderno





POSTMODERNO (postmodern; postmoderne; postmoderne; postmoderno). – La parola postmoderno designa un concetto in uso nella critica letteraria, artistica, architettonica per descrivere opere che variamente e secondo differenti significati si oppongono a canoni «moderni»; è anche sfruttata da alcuni filosofi per indicare certi stili di pensiero contrastanti con alcune caratteristiche proprie della riflessione filosofica «moderna»; è infine usata da alcuni sociologi e storici dell’economia per indicare i tratti culturali tipici delle società postindustriali. All’interno del concetto di postmoderno alcuni, tra cui Terry Eagleton (The Illusion of Postmodernism, Blackwell, Oxford, 1996), distinguono postmodernità, intesa come periodo storico, da postmodernismo, inteso come insieme di posizioni teoriche. La costellazione concettuale del postmoderno è utilizzata fin dall’inizio e generalmente per distinguere il contesto culturale in atto per contrapposizione rispetto a un precedente contesto definito «moderno» o proprio della «modernità». Si incontra forse per la prima volta in Rudolf Pannwitz (cfr. Die Krisis der Europeischen Kultur, Nurenberg 1917, p. 64) per designare l’epoca di nichilismo che distinguerebbe l’inizio del secolo. A partire dagli anni trenta troviamo sfruttata la nozione di postmoderno in diversi ambiti disciplinari: nella teoria della critica da parte di Federico de Onís (Antología de la poesía española e hispanoamericana, 1882-1932, Centro de Estudio Históricos, Madrid 1934, pp. xviii-xix) per indicare opposizione al modernismo letterario; nella ricerca storica da parte di Arnold Toynbee (A Study of History, London 1939, vol. V, p. 43; 1954 vol. VIII, p. 338) per denominare il periodo avviato dall’imperialismo tardo ottocentesco; più genericamente in ambito storico-teologico da Bernard Iggings Bell per significare un ritorno al religioso che seguirebbe al «fallimento» del processo di secolarizzazione moderno.

Il termine postmoderno è oggi fortemente polisemico, impiegato in diversi contesti culturali (il dibattito statunitense sul «postmoderno», tuttora vivace, è profondamente diverso da quello sviluppatosi in Europa a partire dagli anni settanta del Novecento) e in differenti campi disciplinari (architettura, pratiche artistiche e letterarie, sociologia, filosofia ecc.). In ogni caso il termine «postmoderno» implica posteriorità, ovviamente non meramente cronologica, rispetto al moderno, ma ciò non chiarisce affatto il significato del termine, perché non è determinabile un concetto di modernità rispetto al quale il postmoderno in generale possa essere definito. Nel contesto del dibattito sul postmoderno la «modernità» non può, infatti, essere pensata come generico contenitore caratterizzabile da alcune semplici qualità ideali (quali il mito del progresso, la fiducia nella razionalità umana e storica, il progetto di dominio scientifico-tecnologico sulla natura, l’universalismo e il cosmopolitismo): si pensi soltanto, per avere un’idea della difficoltà di tracciare i caratteri del «moderno» nel nostro contesto, che per alcuni critici americani che si servono della nozione di postmoderno, «moderni» sono innanzitutto i principali rappresentanti del cosiddetto High Modernism, Yeats, Eliot, Pound, Joyce – ma Joyce può essere anche considerato, così in Lyotard, un prodromo della postmodernità; oppure che Fredric Jameson (cfr. Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, in «New Left Review», 146, 1984, pp. 59-92) considera emblematicamente «moderni» Rimbaud, Rilke o lo Heidegger che interpreta van Gogh in L’origine dell’opera d’arte – ma d’altro canto lo Heidegger di Essere e tempo è stato indicato da William V. Spanos, in uno dei testi fondativi della critica letteraria postmoderna, come tipico autore postmoderno. Inoltre ciascun campo disciplinare disegna una propria modernità cui contrapporre, non in modo assoluto e banale bensì secondo complicati processi di rimescolamento stilistico, una propria concezione di postmoderno: così l’architettura «modernista» di Le Corbusier, Mies van der Rohe, F. Lloyd Wright contra i casinò di Las Vegas o Disneyland (cfr. R. Venturi, D. Scott-Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas, Cambridge [Massachusetts] 1972), oppure il cinema classico di Hollywood contra il cinema «postmoderno» di Godard (cfr. B. McHale, Postmodernist Fiction, London-New York 1987). Oltre alla semplificazione del concetto di «moderno», un altro errore da evitare consiste nel considerare parte della cultura filosofica europea, segnatamente francese, del tardo Novecento come l’espressione di un movimento filosofico definibile «postmoderno». Non soltanto autori quali Foucault e Barthes, Deleuze e Derrida, tra l’altro assai differenti e sovente tra loro in aperta polemica, non possono affatto essere considerati filosofi aderenti a un tale supposto movimento, ma è davvero difficile stabilire se esistano filosofi «postmoderni» e soprattutto se esista una corrente filosofica che possa essere etichettata come «postmoderna»; e ciò vale anche per autori quali Lyotard, che al concetto di postmoderno ha dedicato studi celebri, o Baudrillard, la cui analisi della nozione di simulacro ha avuto peso notevole per la koiné postmoderna. Di fatto il termine «postmoderno» sembra funzionare assai più come descrittore di campo, in taluni casi utile e non privo di valore ermeneutico, che come proposta teorica costruita o fatta propria, o comunque promossa da qualche più o meno noto filosofo contemporaneo. È invece corretto affermare che la critica letteraria americana che si è servita della nozione di postmoderno è stata in parte influenzata da alcuni di autori francesi, soprattutto Foucault e Derrida, a partire dalla fine degli anni sessanta, per lo più in relazione alla crisi dello strutturalismo inteso come aspirazione alla determinazione di codici universalizzabili di spiegazione efficace dei fenomeni letterari e artistici. Se quindi intendiamo la nozione di postmoderno non come una proposta teorica, ma come l’indicatore di una situazione culturale, possiamo esibirne i tratti distintivi così come emergono da alcuni celebri studi, ormai quasi canonici. Innanzi tutto dai lavori di JeanFrançois Lyotard, che usa la categoria di postmoderno alla fine degli anni settanta del secolo scorso, quando questa era ormai diffusa da un decennio nella critica statunitense, con scopi analitici e descrittivi della situazione contemporanea (La condition postmoderne, Paris 1979, tr. it. di C. Formenti, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano 1981: è un «Rapporto sul sapere nelle società più sviluppate», scritto su commissione da parte del presidente del consiglio universitario coadiuvante il governo del Quebec). L’ipotesi di lavoro di Lyotard è che «il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età detta postindustriale e le culture nell’età detta postmoderna». In questa società e in questa cultura – argomenta Lyotard – il sapere è divenuto «la principale forza produttiva», ma si tratta di un sapere sottoposto a processi di informatizzazione e mediazione che giungono a costituirne la natura, alterandone i precedenti processi di legittimazione: nell’epoca postmoderna il sapere può «divenire operativo, solo se si tratta di conoscenza traducibile in quantità di informazione [...] Da ciò è possibile aspettarsi una radicale esteriorizzazione del sapere rispetto al “sapiente” [...] L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso. Questo rapporto fra la conoscenza e i suoi fornitori ed utenti tende e tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce e i suoi produttori e consumatori, vale a dire la forma valore. Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato» (ibi, pp. 11-12). In quest’epoca non funzionano più le forme narrative di formazione (Bildungen), e in particolare i grandi racconti e le metanarrazioni che in passato legittimavano percorsi di vita, istituzioni sociali, criteri di verità degli enunciati. Nella situazione culturale odierna «la funzione narrativa [...] si disperde in una nebulosa di elementi [...] ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis» (ibi, p. 6); da questo punto di vista, sostiene Lyotard, «semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (ibid.), cioè di quei dispositivi che producono legittimazione attraverso la costruzione di configurazioni o quadri generali all’interno dei quali acquistano significato i concetti chiave della narrazione «come la dialettica dello Spirito, l’ermeneutica del senso, l’emancipazione del soggetto razionale o lavoratore...», quadri insomma stando all’interno dei quali un soggetto poteva intendere il significato, almeno relativamente stabile e condiviso, di termini come ragione, storia, verità ecc. Al contrario nell’epoca postmoderna esistono soltanto «molti giochi linguistici differenti, che costituiscono l’eterogeneità degli elementi» (ibid.). A un livello più decisamente critico che analitico, ma anche efficacemente descrittivo nei confronti della «condizione postmoderna», si muove il già citato lavoro di Jameson del 1984 (Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di S. Velotti, Milano 1989), che interpreta il postmoderno come «logica culturale del tardo capitalismo», intesa generalmente come espressiva di un «senso della fine»: «fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali; la “crisi” del leninismo, della socialdemocrazia o del welfare state, ecc...» (p. 7). Jameson coglie bene, anche analizzando l’influente testo di Robert Venturi Learning from Las Vegas, una caratteristica tipica dei fenomeni culturali definiti postmoderni: «la cancellazione del confine (essenzialmente modernoavanzato) tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale, e l’emergere di nuovi tipi di “testi” pervasi di forme, categorie e contenuti di quell’Industria Culturale tanto appassionatamente denunciata da tutti gli ideologi del moderno [...] Il postmoderno ha infatti subito tutto il fascino di questo paesaggio “degradato” di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da Reader’s Digest... materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente “citati”, come sarebbe potuto accadere in Joyce o in Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza» (p. 10). Jameson disegna così efficacemente il postmoderno come l’epoca di una nuova «mancanza di profondità» o nuovo tipo di superficialità, in cui la soggettività ormai decentrata e incapace di produrre uno stile di vita e di opera personale, può produrre soltanto tonalità affettive derivate e mimetiche: non «l’orrore del Kurtz di Conrad» ma la frammentazione schizofrenica, non l’angoscia ma la depressione, non la nostalgia ma la «nostalgia della nostalgia» emblematicamente rappresentata dalla «Casa» di Frank Gehry a Santa Monica o addirittura dal revival; un’irrimediabile perdita del «tempo profondo» della coscienza così come della capacità di collocarsi nella dimensione spaziale per produrre una «cartografia cognitiva», tutto ciò all’interno di una pervasiva e prepotente mercificazione della cultura che tende, secondo Jameson, ad abolire ogni distanza critica.



Bibliografia


Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006

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