Il
termine tempo (dal latino tempus, voce d'incerta origine), indica
l'intuizione e la rappresentazione della modalità secondo cui i singoli
eventi si susseguono e sono in rapporto l'uno con l'altro (per cui essi
avvengono prima, dopo o durante altri eventi). Tale intuizione
fondamentale è condizionata da fattori ambientali (i cicli biologici,
il succedersi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni ecc.) e
psicologici (i vari stati della coscienza e della percezione, la
memoria) ed è diversificata storicamente da cultura a cultura.
sommario: La percezione del tempo. I. Fatti. 2. Teorie. Concezioni del tempo. l. Tempo e coscienza mitica. 2. Tempo relativo e tempo assoluto. □ Bibliografia.
La percezione del tempo di Giovanni Bruno Vicario
Per
quanto riguarda l'uomo, il termine tempo si riferisce a un certo numero
di esperienze soggettive che sono materia di studio della psicologia.
Si tratta di contenuti mentali a volte semplici, a volte complessi, le
cui relazioni non sono facilmente determinabili. Il problema è
costituito dal fatto che quelle esperienze sono designate con termini
(istantaneità, simultaneità, successione, durata ecc.) identici a
quelli in uso nelle scienze fisiche e biologiche. In quest'ultime le
relazioni fra i termini sono chiare ed è pertanto difficile resistere
alla tentazione di trasferire le relazioni esistenti tra i vari aspetti
del tempo fisico e biologico al tempo psicologico. Come si vedrà,
l'operazione conduce a paradossi insostenibili, onde è preferibile
trattare l'argomento cominciando con un elenco dei fatti accertati, ed
esponendo successivamente le teorie proposte a spiegazione dei fatti
medesimi.
l. Fatti
a)
Istantaneità. L'istantaneità psicologica, cioè percepita, è
caratteristica di eventi puntuali, dei quali non si riesce a
distinguere l'inizio dalla fine (un lampo di luce, il rumore prodotto
da una goccia che cade). L'istantaneità percepita corrisponde tuttavia
anche a stimolazioni che non sono affatto puntuali, perché al di sotto
di una durata fisica di circa 100 ms, qualsiasi presentazione appare
istantanea, tanto in campo visivo che uditivo. Di più, l'improvvisa
apparizione nel campo visivo di un oggetto, seguita da immediata
sparizione, viene accompagnata dall'impressione che l'oggetto dapprima
si espanda e poi si contragga (movimento gamma: per es.,
l'illuminazione prodotta da un flash). Il problema è come l'impressione
di istantaneità possa andare d'accordo con l'evidenza di un'evoluzione
(espansione/contrazione), che come tale deve occupare un certo tempo.
b)
Durata. È la caratteristica di eventi estesi nel tempo, siano essi del
mondo esterno oppure del mondo interiore, omogenei o variamente
articolati. Se questi eventi sono relativamente brevi (fino a 1 s
circa) la durata è percepita, se sono più lunghi essa viene stimata.
Nella percezione di durate esiste una corrispondenza tra lunghezza di
un evento fisico e lunghezza di un evento percepito, nel senso che la
discriminazione è abbastanza fine. Nella stima di durate, invece, i
fattori che intervengono sono così numerosi e variamente interagenti da
non permettere una soddisfacente sistemazione dei dati emersi dalla
ricerca sperimentale. Per es., l'ammontare della durata trascorsa
dipende dall'attenzione, dal numero di eventi in essa percepibili,
dalle condizioni di osservazione, dai metodi impiegati per studiarla. È
osservazione comune che il tempo della noia è lungo e quello del
divertimento breve, che gli eventi attesi giungono 'tardi' e quelli
temuti 'troppo presto', che l'isolamento induce macroscopiche
sottovalutazioni, che i compiti ripetitivi non finiscono mai, mentre
quelli variati giungono presto al termine. La percezione e la
valutazione della durata sono attualmente spiegate con l'esistenza, nel sistema nervoso centrale,
di una sorta di orologio biologico, cioè di un 'contatore' di impulsi
neurali ciclici. Tale ipotesi, che si ritiene verificata per
comportamenti o per contenuti mentali elementari, deve tuttavia
misurarsi con un'enorme quantità di fattori che sembrano modulare
pesantemente l'operato di tale contatore.
c)
Fluire. È la caratteristica distintiva del tempo, e tutte le metafore
che lo riguardano (per es., tempus fugit) impiegano termini che
denotano movimento. La genesi di questa impressione è ignota: potrebbe
dipendere dal contrasto tra il ritmo di successione dei cambiamenti
interni all'Io e il ritmo di successione dei cambiamenti esterni
all'Io. Si dà anche l'impressione che il tempo fluisca a diverse
velocità: come si diceva, il tempo della noia è lento e quello del
divertimento rapido. L'impressione è tuttavia paradossale, perché non
si riesce a immaginare un tempo superordinato sull'asse del quale si
possa misurare la velocità di quello ordinario. Esiste poi un
dimorfismo nella metafora del fluire del tempo: secondo alcuni esso
sarebbe generato da una 'finestra viaggiante' su un ambiente
sostanzialmente immoto e immutabile, secondo altri la finestra, cioè
l'osservatore, sarebbe ferma, e al di fuori di essa si vedrebbe lo
scorrere degli eventi. Il fluire del tempo è contraddistinto
dall'inarrestabilità: al soggetto in stato di veglia è impossibile
sospendere il succedersi degli istanti.
d)
Continuità. È la proprietà del tempo psicologico che permette di
compiere discriminazioni come stabilità, mutamento, contemporaneità,
successione. Per quanto riguarda le esperienze di stabilità e di
mutamento, si è ancora fermi alle indagini di W.L. Stern sulla
percettibilità del mutamento e alle analisi fenomenologiche di A.
Michotte (Vicario-Zambianchi 1998) sulle diverse forme assunte dal
mutamento (permanenza di anteriorità, di posteriorità, di continuità).
Per quanto riguarda la contemporaneità e la successione, giova dire che
le ricerche in argomento sono tra le più antiche che si abbiano in
psicologia, essendo iniziate ai primi dell'Ottocento in sede di
osservazioni astronomiche. Studi sempre più approfonditi sulla capacità
dei soggetti sperimentali di discriminare le relazioni temporali tra
eventi puntuali hanno portato alla seguente conclusione: soltanto
quando gli eventi sono della stessa natura, e quando sono disposti in
un qualche ordine, le relazioni di prima/dopo percepite trovano
riscontro nelle relazioni tra gli stimoli corrispondenti. Suoni e
rumori simultanei vengono percepiti come successivi, o viceversa.
Brevissime note musicali disposte in scala vengono udite tutte, e tutte
al loro posto; le stesse note prodotte alla stessa velocità, ma in
disordine, non permettono di percepire chiari rapporti di prima/dopo
tra di esse, e molte volte non vengono nemmeno udite tutte.
e)
Irreversibilità. L'irreversibilità del tempo ha due significati. Per il
primo, essa è la caratteristica secondo la quale gli eventi non possono
essere ripercorsi dalla fine all'inizio. Questa formulazione opera
un'ingiustificata identificazione del tempo con gli eventi: poiché noi
siamo perfettamente in grado di vedere un film dall'ultima alla prima
scena, o di udire una melodia dall'ultima nota alla prima, non ci
accorgiamo che le versioni 'retrograde' non sono inversioni di quella
'diretta', ma semplicemente altri eventi che noi osserviamo in un tempo
che corre sempre in avanti. Per il secondo significato,
l'irreversibilità postula l'impossibilità di rivivere una seconda
volta, in tutti i dettagli, esperienze pregresse. Tale formulazione
confonde una pretesa impossibilità materiale con un'impossibilità di
carattere logico: il rivivere una determinata esperienza in tutti i
dettagli è una percezione di identità tra due eventi che deve essere
contenuta anche nell'esperienza originaria. L'irreversibilità del tempo
viene di solito accomunata all'inarrestabile aumento di entropia
(passaggio dall'ordine al disordine) che si verifica in un sistema
chiuso, e di questo aumento sarebbe in sostanza il riflesso. C'è da
osservare che gli esseri viventi sono al contrario isole di 'entropia
negativa', poiché dalla nascita alla morte creano ordine infliggendo un
più rapido aumento di entropia positiva nell'ambiente circostante: il
senso del tempo sarebbe, di conseguenza, da ascriversi all'aumento
dell'ordine, e non del disordine.
f)
Tempo e coscienza. Esiste un legame indissolubile tra tempo e
coscienza: il tempo cessa di esistere non appena ci si addormenta, e
riprende a fluire non appena ci si risveglia. Non c'è poi percezione di
alcunché se non nel flusso del tempo: tutto avviene come se i
meccanismi che assicurano la percezione del Sé e dell'ambiente fossero
gli stessi che producono la dimensione del tempo. Ciò appare anche nei
legami che esistono tra l'attenzione e la percezione: oggetti ed eventi
ai quali non si presta attenzione semplicemente non esistono.
g)
Il presente psichico. Il presente psichico, o fenomenico, o specioso,
detto anche tempo di presenza, è il tempo fisico in cui gli stimoli
appartenenti a una sequenza danno origine a una successione di eventi
fenomenicamente compresenti. L'esempio classico è quello della melodia,
che viene percepita come una successione di note in cui, arrivati alle
ultime, si odono ancora, 'in qualche modo', le prime. Siccome la
melodia nasce dai rapporti tra le note, noi non potremmo udirla se il
presente fosse puntuale, o limitato alla durata di una singola nota.
L'ampiezza del presente psichico varia notevolmente, a seconda dei
contenuti percettivi e dello stato attentivo del soggetto. Il presente
psichico è una grandezza fisica, dato che la sua ampiezza è espressa in
termini di millisecondi. Di tutt'altra natura è invece l''ora', cioè
questo presente psichico, quello che si sta vivendo, il quale ha una
connotazione affettiva (come un colore o un'emozione). Di più, esiste
un solo 'ora', i cui contenuti cambiano in continuazione, mentre in
memoria esistono parecchi presenti psichici generati dalle successive
incarnazioni dell''ora'.
h)
Il tempo della memoria. È la rappresentazione del passato. Solitamente
è sufficientemente corretta, nel senso che permette un comportamento
adattativo: la rievocazione delle proprie esperienze pregresse consente
di valutare le situazioni passate, presenti e future, in modo da
evitare errori nell'agire concreto e risparmiare tempo ed energia
nell'esecuzione dei comportamenti. Di tanto in tanto il passato è
rievocato in maniera imprecisa, cosicché l'ordine temporale in cui sono
collocati i ricordi non è quello dei fatti realmente accaduti; errori
di questo tipo sono attribuiti a diverse patologie (traumi, carenze
biologiche, droghe), a fattori motivazionali (maggiore o minore
importanza attribuita ai ricordi medesimi) o a meccanismi di difesa
(rimozione di ricordi sgradevoli o minacciosi). L'impossibilità di
rievocare il proprio passato (amnesia) ha un effetto catastrofico sulla
stabilità dell'Io, amputato della sua parte, per così dire, sommersa:
si manifestano esperienze angosciose, come quella di non essere mai
esistiti prima, o quella di essere impotenti ad affrontare il
succedersi degli eventi imminenti (disorientamento).
i)
Il passato. Il carattere di passato inerisce a certi contenuti mentali
in modo non diverso da aspetti sensoriali (colore, forma ecc.) e da
connotazioni 'terziarie' (favorevole/sfavorevole, gioioso/lugubre
ecc.). La discussione su questo punto sembra essersi arenata ai primi
del Novecento: secondo F. Brentano ed
E. Husserl, un processo automatico (proterestesi) provvederebbe a
marcare i contenuti mentali mano a mano che escono dalla coscienza del
presente e sprofondano nella memoria; secondo V. Benussi,
il carattere di passato non deriva da una marcatura estrinseca dei
contenuti mentali (una specie di timbro datario interno), ma dalla
relazione intrinseca (Gestalt) che si viene costituendo tra i contenuti
appena vissuti e quelli che popolano il presente fenomenico.
Alternativa è la visione cognitivistica, secondo cui il carattere di
passato emergerebbe dalla posizione che possiedono le tracce mnestiche
nel magazzino della memoria: il recupero di ricordi situati sempre più
in basso, in una catasta ordinata, porterebbe con sé il segno del luogo
dal quale sono stati estratti, sotto forma di maggior distanza dal
presente. Nel caso del carattere di passato, tuttavia, il problema non
è quello dell'identificazione del meccanismo che assicura un'ordinata
collocazione dei ricordi, ma quello di capire come l'operare di un
simile meccanismo sia compatibile con la specifica 'colorazione'
temporale assunta dai ricordi.
l)
Prospettiva temporale. Si dà questo nome alla rappresentazione del
futuro, tanto del soggetto come dell'ambiente circostante. La sua
'profondità' dipende da molti fattori, tra i quali importanti sono
l'età e la personalità del soggetto. Essa è popolata di scopi (per es.,
la fine degli studi, l'assunzione di un lavoro, l'acquisto della casa,
il matrimonio, i figli ecc.), nonché di eventi inevitabili, quali le
malattie, la guerra, la morte. La prospettiva è di regola commisurata
all'età del soggetto: lunga o indefinita per il giovane, breve per il
vecchio. Ma risente anche della personalità dell'individuo: certi
giovani non hanno rappresentazione nemmeno del futuro immediato (vivono
alla giornata), e certi vecchi hanno una prospettiva lunghissima, che
va al di là della propria morte fisica, coinvolgendo i familiari o le
attività intraprese (quanto più minuziose sono le disposizioni
testamentarie, e destinate a durare, tanto più profonda è la
prospettiva temporale del soggetto testatore). Fattori sociali
influiscono in modo peculiare sulla prospettiva temporale: di norma,
chi ha un grado di cultura superiore, o appartiene a un ceto sociale
alto, ha prospettive temporali più protese e articolate. Occupazioni di
basso livello, ristrettezze economiche, precarietà del quadro sociale
accorciano e immiseriscono la prospettiva temporale. Esistono test che
permettono di obiettivare e di misurare la prospettiva temporale di un
soggetto. È denominata 'pressione temporale' l'azione esercitata dai
compiti o dalle minacce a breve scadenza, quando il tempo per eseguire
i primi o per annullare le seconde viene stimato come troppo breve.
m)
Il tempo dei sogni. È un tempo che si caratterizza per lo
sconvolgimento dei nessi causali tra gli eventi in esso rappresentati:
nel sogno sono liberamente mescolate tracce di eventi pregressi senza
alcun rispetto per la loro effettiva cronologia. Ma il fenomeno più
notevole è costituito dalla scissione del tempo degli eventi che si
svolgono nel sogno dal tempo dell'orologio. Tipico il
caso delle persone che vengono ridestate dalla suoneria della sveglia:
non di rado il pieno possesso della coscienza è preceduto da sogni a
volte lunghi ed elaborati, comprendenti vicende il cui tempo proprio è
di ore, e magari di giorni. Queste vicende terminano con la
rappresentazione di rumori che alludono alla suoneria della sveglia.
Siccome il sogno, stando a S. Freud, ha il compito primario di
proteggere il sonno, queste vicende hanno il ruolo di guidare la
persona al risveglio senza eccessivi traumi. Il problema di tali casi è
costituito dal fatto che quelle ore o giorni sono manifestamente
'compressi' nel lasso dei pochissimi minuti secondi che intercorrono
tra l'inizio della suoneria e la presa di coscienza, e non si ha idea
di come ciò possa avvenire.
n)
Il tempo nella malattia mentale. È opinione diffusa tra gli psichiatri
e gli psicanalisti che le psicosi deteriorino irreparabilmente il senso
del tempo, come conseguenza della dissoluzione della personalità (in
ciò confermando la natura temporale dell'Io). Non esiste tuttavia una
chiara relazione tra le caratteristiche del tempo vissuto e patologie
definite. Si parla, per es., di 'rallentamento del tempo' nella schizofrenia (v.), alludendo all'impressione che questi malati hanno che i propri pensieri scorrano a inusitata velocità. Ma la depressione (v.),
che rende faticosi e lenti a svolgersi i pensieri (ed è accompagnata da
un notevole accorciamento della prospettiva temporale, per
l'affievolirsi o il cessare delle motivazioni), si accompagna
egualmente all'impressione che il tempo scorra troppo lentamente. In
definitiva, se si considerano le anomalie riscontrate (disorientamenti
nel collocare sé stessi e gli eventi nel flusso del tempo sociale, idee
deliranti riguardanti le connessioni tra eventi o la stessa durata
della propria esistenza) e l'assenza di anomalie per quanto riguarda
l'adattamento del comportamento (gli psicotici governano benissimo i
propri atti, commisurandoli efficacemente con i cambiamenti che
avvengono nell'ambiente), non sembra impropria la conclusione che la
malattia mentale colpisce la rappresentazione cosciente del tempo,
piuttosto che la sua esperienza concreta.
o)
Il tempo e l'età. È esperienza comune che il tempo dell'esistenza
sembra passare lentamente fino alla tarda giovinezza, e quindi subire
un'accelerazione sempre più grande nella maturità e nella vecchiaia.
Anche in questo caso non si può parlare di modi diversi di vivere il
tempo che siano propri dell'uomo adulto e dell'anziano (l'adattamento
al mutare degli eventi nell'ambiente si deteriora soltanto in pochi
casi limite), ma di una rappresentazione del passato che fa ricorso a
contenuti di memoria sempre più radi e privi di importanti significati.
Tranne ben definite eccezioni (riconducibili all'apprendimento
latente), la memoria conserva soltanto i contenuti dell'esperienza che
sono stati vissuti in maniera consapevole, cioè avendo per guide
l'attenzione e la motivazione. Il tempo del giovane è 'lungo'
probabilmente perché il mondo viene
osservato con continua curiosità, e i ricordi sono numerosi e
dettagliati. Diminuendo invece nell'uomo adulto l'attenzione verso le
peculiarità dei fatti che lo circondano (l'esigenza di fornire risposte
pronte alle circostanze della vita rende stereotipati e intercambiabili
i ricordi delle medesime), e cessando nell'uomo anziano e vecchio ogni
motivazione alla comprensione del mondo circostante, i contenuti di
memoria si riducono in numero e in chiarezza. È verosimile che
qualsiasi funzione cognitiva deputata alla rappresentazione del tempo
passato sulla base della quantità e della qualità dei contenuti
mnestici, trovandosi a operare su materiale scarso e mediocre nello
stesso modo in cui operava su materiale abbondante ed eccellente,
fornisca rappresentazioni del tempo passato rimpicciolite o contratte.
p)
Il tempo delle droghe. È noto che l'assunzione di droghe può causare
anche vistose distorsioni del tempo vissuto, come rallentamento nel suo
fluire, accorciamento o cancellazione della prospettiva temporale,
generico disorientamento (impossibilità di collocare l''ora' nel tempo
della memoria personale e nel tempo sociale). Ricerche sperimentali
condotte su abituali consumatori di ogni genere di droghe (marijuana,
cocaina, allucinogeni, oppiacei, alcol ecc.) non sono tuttavia riuscite
a stabilire fondate correlazioni tra il tipo di droga e il tipo di
disturbo temporale dimostrato: quest'ultimo sembra dipendente anche
dalla dose assunta e dalla personalità del soggetto. Ricerche
sperimentali eseguite su animali dimostrano soltanto un decremento
nell'accuratezza dell'esecuzione di compiti in cui il tempo concesso
per produrre determinati comportamenti risulta la variabile
indipendente.
q)
Il time gap. Il time gap (falla nel tempo) è l'esperienza di aver
smarrito un tratto del proprio tempo personale: si tratta di
un'esperienza abbastanza rara, ma del tutto normale. Mentre si è in
viaggio in automobile, per es., può capitare di immergersi in
importanti pensieri: non appena si torna alla realtà si scopre, con una
certa sorpresa, di essere giunti a un punto del percorso in maniera
improvvisa e di aver perso completamente il ricordo del tratto
immediatamente precedente. In realtà non esiste alcuna falla nel tempo
soggettivo: è semplicemente accaduto che l'attenzione prestata ai
propri pensieri ha messo fra parentesi l'evoluzione delle percezioni
dell'ambiente circostante; nel momento in cui si riprende a considerare
quello che accade all'esterno, si rende manifesta una soluzione nella
continuità di quell'evoluzione, che è per l'appunto il fatto che genera
la sensazione del time gap.
r) Il déjà vu. Il fenomeno del déjà vu (v.)
è la caratteristica di certi segmenti dell'esperienza quotidiana,
fortunatamente non frequenti, di apparire come meccaniche e
incoercibili ripetizioni di eventi già accaduti in passato. Poiché è
lecito supporre che nessuna vicenda umana si ripeta in tutti i
dettagli, si ammette che il déjà vu sia la conseguenza di false
identificazioni dell'esperienza del momento. In tal senso, il déjà vu
verrebbe accomunato ai 'falsi ricordi', perlopiù riferentisi
all'infanzia, e spesso emergenti nelle sedute psicoanalitiche: malgrado
la loro vivezza e l'incrollabile persuasione che si riferiscano a
episodi realmente accaduti, risultano elementi di scenari senza
fondamento nel passato del soggetto. Un'altra plausibile spiegazione
del fenomeno si ha supponendo che i processi percettivi, invece di
essere inviati in memoria, ritornino all'ingresso come altri processi
percettivi: ciò renderebbe ragione, oltre che dell'identificazione,
dell'incoercibilità del déjà vu, e del senso di smarrimento che
l'accompagna. Un fenomeno simile si verifica inviando a un soggetto,
negli auricolari, le parole che sta pronunciando, con un ritardo
opportunamente calcolato (shadowing): il soggetto entra in crisi e
smette di parlare.
s) La nozione di tempo. Lo sviluppo della nozione di tempo è stato oggetto di indagini da parte di J. Piaget (1946).
Da esse appare che la nozione di tempo, come schema di riferimento
universale per tutti gli eventi, è un'acquisizione piuttosto tardiva (a
infanzia inoltrata): nei primi stadi di sviluppo del pensiero, il tempo
è 'locale', nel senso che simultaneità, successione, durata, omogeneità
del fluire ecc. sono giudicate soltanto all'interno di un medesimo
evento, e non tra eventi che scorrono parallelamente. Giova osservare
che ciò ha un riscontro anche sul piano storico: la simultaneità o la
successione temporale di battaglie avvenute in luoghi lontani erano
nell'antichità greca fonte di incertezze o di spiegazioni portentose.
2. Teorie
Nella
storia del pensiero si sono manifestate due tendenze nella soluzione
dei problemi posti dalle esperienze di tempo. La prima affonda le sue
radici in Pitagora (6°-5° secolo a.C.) e in Aristotele (4° secolo
a.C.), è stata sviluppata da I. Newton e I. Kant ed è quella che troviamo sostanzialmente rispecchiata nel pensiero dei fisici antichi e moderni.
Secondo tale opinione, il tempo è un fatto di natura, cui la mente più
o meno si adegua. La seconda tendenza ha le sue radici in Plotino (3°
secolo d.C.) e in Agostino (4°-5° secolo d.C.), ed è stata sviluppata
principalmente da due filosofi e psicologi a cavallo tra l'Ottocento e
il Novecento, Brentano e Husserl. In questa prospettiva, il tempo è un
fatto che appartiene alla mente, e il tempo di cui parlano i fisici
sarebbe un'idealizzazione di contenuti mentali. In altre parole, nella
prima soluzione il divenire sarebbe 'reale', nella seconda 'illusorio'.
Il punto di vista corrente, nella psicologia attuale, è che la
coscienza del tempo sorga dal materiale adattamento dei processi
fisiologici dell'organismo al divenire dell'ambiente fisico, tramite
attività biologiche (per es. i ritmi circadiani) o neurali (onde
cerebrali) di carattere ciclico. Nel sistema nervoso avrebbe sede una
sorta di orologio biologico che fornirebbe le informazioni necessarie a
un proficuo adattamento al mutare delle condizioni ambientali e alla
generazione di tutte le esperienze temporali. In seguito, il
diffondersi dell'informatica e della scienza dei calcolatori nella
psicologia ha portato a un'impostazione cognitivistica dei problemi
posti dalle esperienze temporali. Secondo quest'impostazione, il tempo
psicologico sarebbe una copia imperfetta del tempo fisico (l'unico a
essere 'reale'), e le discrepanze tra l'uno e l'altro troverebbero
spiegazione nei modi in cui il sistema nervoso centrale acquisisce,
elabora, immagazzina e gestisce l'informazione (ottenuta dagli organi
di senso) sul mondo circostante. Teorie del tempo psicologico
eccentriche rispetto a quella comunemente accettata sono sviluppate,
per es., da E. Minkowski (1933),
il quale vede nelle intuizioni primarie di eguaglianza e di diversità,
di continuità e di reiterazione le radici dell'esperienza di tempo, e
da E. Jaques (1982), il quale propone una teoria bimodale del tempo
psicologico, contrapponendo il tempo della successione, chrònos, al
tempo dell'intenzione, kairòs.
Esiste una International society for the study of time (fondata da J.T. Fraser nel
1966) nel cui seno si confrontano opinioni e ricerche di studiosi di
discipline scientifiche, letterarie e artistiche, le quali abbiano per
oggetto comune il tempo. L'idea emergente, dopo più di trent'anni di
discussioni, è che il termine tempo venga usato in maniera
indiscriminata nel trattare fenomeni sostanzialmente diversi, perché
appartenenti a livelli di complessità crescente del reale. Fraser
(1987) distingue almeno sei di tali livelli. Il primo livello è quello
dell'atemporalità: in un mondo costituito da sola radiazione
elettromagnetica che procede alla velocità della luce, il tempo non
esiste, almeno nel senso da noi conosciuto. Il secondo livello è quello
della prototemporalità: in un mondo costituito da radiazione, ma anche
da particelle elementari,
il tempo esiste, ma è discontinuo e immobile; l'individuazione di
istanti precisi non ha significato e gli eventi possono essere
localizzati soltanto in maniera probabilistica. Il terzo livello è
quello della eotemporalità: nel mondo della materia dotata di massa il
tempo è continuo, ma immobile e privo di freccia. Il quarto livello è
quello della biotemporalità: in un mondo che possieda anche materia
vivente, il tempo è dotato di freccia ed è possibile fare una
distinzione tra passato, presente e futuro; gli orizzonti del passato e
del futuro sono limitati e il presente ha un'ampiezza variabile a
seconda delle specie animali. Il quinto livello è quello della
nootemporalità, cioè della mente umana matura: gli orizzonti del
passato e del futuro sono illimitati e il presente ha un'ampiezza
variabile a seconda dell'attenzione selettiva. Il sesto livello è
quello della sociotemporalità: è il mondo degli orologi, dei calendari
e della storia, cioè del tempo che gli esseri umani condividono e
valutano allo stesso modo. A ciascun livello, il tempo possiede tutte
le proprietà del livello sottostante e in più una proprietà nuova, che
non si riscontra in nessuno dei livelli sottostanti (Lorenz 1973). Per
es., il tempo sociale possiede tutte le proprietà del tempo soggettivo
(fluire, freccia ecc.), ma presenta un aspetto che il tempo degli
animali non ha, e cioè la condivisione (la sensazione di vivere tutti
nello stesso tempo). A sua volta, il tempo psicologico si caratterizza
per l'esistenza dell''ora', proprietà che nel tempo della fisica non si
ritrova.
Allo
stato attuale delle conoscenze dei fatti, e dell'elaborazione di
teorie, almeno tre cose appaiono ragionevolmente sostenibili. La prima
è che il senso del tempo, nell'uomo, è il risultato dell'evoluzione di
processi che hanno per scopo un sempre più vantaggioso rapporto con i
mutamenti che occorrono nell'ambiente circostante. Sotto questo
profilo, si spiega l'insistenza degli psicologi cognitivisti nel
comparare il tempo psicologico con quello fisico. Fino a un certo
livello quei processi sono strettamente biologici e silenti, ma
diventano mentali (coscienti) allorché si rende necessaria una
rappresentazione dell'immediatamente trascorso e dell'immediatamente
successivo, onde regolare 'in tempo reale' l'azione. Poiché
nell'ambiente esistono altre fonti autonome di comportamento (altri
uomini, ma anche animali), l'esigenza di armonizzare o di concordare le
rispettive azioni porta alla fine a una sorta di condivisione dei
diversi tempi soggettivi, formandosi così un tempo sociale (orologi,
calendari, storia) unico per tutti. La seconda cosa è la sostanziale
identità di costrutti affatto diversi, quali il tempo vissuto, la
coscienza e l'identità personale. Non c'è tempo senza stato di veglia,
e non c'è identità personale senza tempo vissuto; di più, il
deteriorarsi del senso del tempo è sintomo certo della dissoluzione
della personalità. La terza cosa è che non si otterrà mai una
spiegazione delle caratteristiche del tempo vissuto indagando quelle
del tempo della fisica (classica o moderna) o del tempo fisico dei
processi fisiologici. Allo stesso modo, le caratteristiche dei fotoni
non rendono ragione di quelle dei colori, e gli spikes registrabili
lungo il nervo acustico non spiegano quelle dei suoni. Parafrasando Aristotele, gli orologi non misurano il tempo, se non c'è nessuno a guardarli.
Concezioni del tempo di Paolo Casini
l. Tempo e coscienza mitica
Il
tempo, come oggetto di studio interdisciplinare, ha avuto definizioni
assai diverse sotto una varietà di punti di vista: mitico, religioso,
psicologico, filosofico, storico, biologico, astronomico,
fisico-matematico, musicale. Non è possibile tracciare una successione
lineare di queste varie definizioni del tempo, che si presentano in
realtà come stratificate nella storia del pensiero e sono in molti casi
compresenti nella coscienza moderna. In età tardoantica l'evanescenza
della nozione di tempo fu colta da Agostino (4°-5° secolo d.C.) nel
soliloquio delle Confessioni (11,14): "Che cos'è il tempo? Se nessuno
me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo
so". Saper usare la parola tempo e i termini connessi - prima, poi, e
presente, passato, futuro - non significa spiegare chiaramente
quest'uso, né rispondere alla domanda: "Che cos'è il tempo?". La
questione passa così dal piano della psicologia empirica al piano della
metafisica e della cosmogonia, dal monologo al dialogo con Dio, nel più
vasto contesto esistenziale ed escatologico che fa da sfondo alle
Confessioni agostiniane.
Nonostante il carattere prevalentemente religioso della sua ricerca, Agostino non ignorava la problematica, assai antica, della misura empirica
del tempo, ossia il confronto tra il flusso interiore della coscienza e
il moto di oggetti reali nello spazio. Si poneva così a metà strada tra
la concezione qualitativa del tempo, caratteristica della mentalità
mitico-religiosa in generale, e la concezione quantitativa o
'matematica', che privilegia la scansione della durata in cicli,
intervalli, momenti misurabili essenzialmente in base a movimenti
oggettivi e costanti: per es., la pulsazione cardiaca, la caduta di una
certa quantità di sabbia nella clessidra, il moto oscillatorio di un
pendolo, i moti celesti. I fenomeni astronomici osservabili a occhio
nudo, ancor prima di diventare criteri di misura e oggetto di analisi
quantitativa o matematica - nella mentalità mitica, nelle fedi
religiose, nell'astrologia - ebbero uno status privilegiato ma
qualitativo, come manifestazioni di poteri sovrannaturali. Fin dai
primi albori della coscienza in Homo sapiens, un'oscura memoria
ancestrale del ruolo del tempo nell'evoluzione della specie e nel
divenire della natura si presentò certamente avvolta nel senso
primordiale del sacro e del mistero. L'alternanza della luce e delle
tenebre, i percorsi del Sole e della Luna, i moti regolari dei pianeti
e delle costellazioni, il ciclo delle stagioni hanno ritmato non
soltanto le pratiche agricole e gli usi della vita sociale, ma si sono
riflessi nei miti circa le origini del mondo, la creazione e la fine di
tutte le cose, l'intervento di divinità o di poteri sovrannaturali
nelle vicissitudini della natura. In tal modo la percezione soggettiva
della durata interiore e quella oggettiva dei mutamenti nel mondo
fisico si proiettarono in eventi di portata universale, tali da
coinvolgere non solo l'esistenza naturale dell'uomo, ma le domande più
inquietanti circa le proprie origini, il significato della vita, le
ansie, i timori, le speranze per il presente e il futuro individuale e
della comunità. Considerando tutto ciò, la percezione della durata e la
meditazione sul tempo si sono intrinsecamente legate sia alle attività
produttive, sia ai culti, ai miti e alle speculazioni escatologiche,
sia, infine, alla previsione razionale degli eventi naturali, mediante
leggi deterministiche. Il carattere qualitativo della
temporalità si coglie con la massima evidenza nei miti, nei culti,
nelle teogonie, che collocano nella sfera del sacro figure o eventi
remoti, irripetibili, enigmatici e perciò venerabili, quali la
creazione dell'Universo e dell'uomo, i patriarchi di nazioni e di
famiglie, la genesi di stirpi, la fondazione di
religioni, di città e di ordinamenti civili. L'evento originario
giustifica di per sé tutto ciò che ne consegue; si configura come un
fatto sovrannaturale, miracoloso che introduce una cesura nel flusso
indifferenziato della durata, segna la data d'inizio di un tempo
qualificato, dà il proprio senso a una storia, crea un calendario che
si ripete ciclicamente, con le sue cerimonie e celebrazioni
simboleggianti la replica rituale dell'evento stesso, ossia un
periodico ritorno alle origini che assume valore memorativo ed
edificante.
Come esempi, nell'ambito del paganesimo occidentale, si pensi alla mitologia olimpica di Crono (il dio-tempo), di Zeus e
dei Titani; ai riti agrari della Terra-madre; ai miti della generazione
degli uomini; ai riti immemoriali che celebravano la fondazione di
città-Stato come Atene e Roma,
la deduzione di colonie, i giochi olimpici; miti e rituali connessi a
specifici calendari che scandivano i tempi della vita sociale,
affidandone la tutela ad apposite magistrature e caste sacerdotali. In
tal senso i miti della creazione trasfigurano la percezione della
durata sub specie aeternitatis, assegnando la genesi dei tempi a un
inizio assoluto al di fuori del tempo. Nelle narrazioni degli assiri,
dei babilonesi, degli egizi circa l'origine del mondo, il primordiale
culto magico di molteplici potenze demoniche cede alla venerazione di
un ordine astrologico, dove l'osservazione dei regolari cicli celesti
rientra in una scienza arcana soggetta alla sacralità dei numeri. Nel
pantheon egizio il dio della misura e del tempo è Toth, scriba degli
dei, ministro supremo della giustizia e dei buoni costumi. Nel
politeismo indoeuropeo l'introduzione della nozione di tempo segna il
passaggio dal caos all'idea, presente nei Veda e negli Avesta,
di un ordine regolare e benefico, responsabile sia delle leggi dei moti
celesti sia di quelle del giusto e dell'ingiusto. Nel monoteismo
ebraico la genesi del mondo fisico dal caos, la creazione di Adamo, il
mito della caduta e la storia del popolo eletto disegnano una coerente
visione escatologica del tempo, coronata dall'attesa messianica della
redenzione e del riscatto. Tale concezione qualitativa, comune a
numerose altre mitologie e religioni, fu accolta dal cristianesimo, il
quale proiettò entro un ciclo temporale concluso il destino del mondo
della natura e della storia umana, ossia il dramma della caduta, della
redenzione e del giudizio finale, che dà un senso sia ai grandi eventi
della storia sia ai minimi accadimenti della vita umana e contribuisce
a orientare ogni azione verso un'unica finalità. Una cognizione opposta
del tempo, puramente contemplativa e ascetica, è presente in altre
religioni orientali. Si pensi alle Upanishad indiane, dov'è dominante
la seduzione del dissolvimento dell'essere in una dimensione
extratemporale. Una volontà di fuga dal tempo si ritrova nelle fonti
della dottrina di Buddha,
che relegano nascita e morte, con tutto ciò che diviene ed è
transitorio, nella sfera del dolore e dell'assurdo: la liberazione dal
tempo e dall'agire nel tempo apre l'accesso al Nirvana, totale
annichilimento che rende perfetto il possesso della verità.
Inversamente la mistica del Tao, propria della religione cinese,
riassume sia l'eredità del passato sia il senso del futuro nella
dimensione eterna di un presente illimitato, ossia di una pienezza dei
tempi, permanente e priva di cesure: concezione che sottende l'etica di
Confucio e il connesso culto degli antenati.
Dalle
religioni orientali, in forme più propriamente speculative, passò agli
esordi del pensiero greco l'opposizione tra il senso effimero,
ingannevole dello scorrere del tempo e la pienezza di un presente
extratemporale. Così, nel 5° secolo a.C., nel poema di Empedocle l'apparenza
della temporalità si identifica con la ferrea legge del fato e della
necessità, e l'espiazione del male si attua nella condanna ai castighi
di una metempsicosi delle anime destinate a reincarnazioni senza fine.
Nel lògos extratemporale e immobile di Parmenide,
sotto la forma concettuale puramente speculativa dell'essere, si
celebra un totale distacco dal divenire e dal tempo. Una negazione del
tempo così radicale però pose d'altra parte l'esigenza di una
dialettica più complessa tra i termini di una dicotomia fondamentale:
da un lato il mondo dell'apparenza, dell'opinione, del divenire;
d'altro lato il dominio extratemporale peculiare dei modelli di tutte
le cose. Sia gli atomi di Democrito sia gli archetipi ideali di Platone
(5°-4° secolo a.C.) hanno in comune una medesima esigenza formale di
assolutezza e permanenza, che non annulla tuttavia l'effimera vicenda
della nascita, della vita e della corruzione delle cose nel tempo.
Platone ha presentato in forma razionale la dicotomia tra essere e
divenire, iperuranio e mondo dell'apparenza, come un processo di
imitazione dei modelli eterni nel mondo sensibile; la sua riflessione
sul tempo e l'eternità ha la forma del mito nella visione di Er del
libro 10° della Repubblica, dove il giudizio sulle anime è affidato
alle "figlie della necessità, le Moire che cantano sull'armonia delle
Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente e Atropo il futuro". Il
decreto del fato, che comporta la condanna o l'emancipazione delle
anime, non esclude tuttavia la libertà individuale né l'intervento
della responsabilità etica. Altrove, nel Timeo,
il mito cosmogonico introduce il tempo come elemento mediatore tra le
idee e le cose, grazie all'opera del demiurgo che crea a imitazione
delle idee eterne. Il tempo, mobile copia dell'eternità, è un eterno
divenire, ed è elevato a strumento essenziale di conoscenza del cosmo
che, secondo lo spirito del pitagorismo, Platone presenta come una
complessa costruzione fondata su rapporti armonici e matematici. Nel
sistema aristotelico il tempo è anzitutto, dal punto di vista della
logica, uno dei dieci predicati o categorie, sia del giudizio sia
dell'essere; in senso fisico è misura del movimento, ma solo nella
sfera limitata della generazione e corruzione, in quanto l'Universo,
increato ed eterno, è sottratto al tempo. Il passaggio dalla potenza
all'atto, il gioco alterno delle quattro cause, i fenomeni della
generazione e corruzione delle cose sensibili, sono aspetti di un
processo limitato al mondo sublunare, dove si realizzano solo moti
imperfetti; il moto circolare dei cieli, ritornando perpetuamente su sé
stesso, scandisce i tempi di quei moti imperfetti ma è perfetto e
intemporale, contenuto a sua volta entro l'empireo immutabile ed eterno.
2. Tempo relativo e tempo assoluto
L'uso
di una nozione quantitativa o matematica del tempo nella valutazione
dei fenomeni naturali, benché sporadicamente presente fin
dall'antichità in scienze come l'astronomia d'osservazione, la statica,
la teoria musicale, non ebbe sviluppi significativi fino alla prima
rivoluzione scientifica. All'inizio del Seicento, Keplero e Galileo
introdussero con crescente rigore il calcolo degli intervalli di tempo
nella misurazione del moto come una variabile dipendente da altre
grandezze (massa, gravità, inerzia). La quiete e il moto dei corpi
terrestri e celesti non furono più intesi come momenti qualitativamente
distinti di processi; ma, presupposta l'equivalenza dello stato di moto
o di quiete, come variazioni di stato quantificabili mediante formule
algebriche. Le regole cinematiche dei moti celesti formulate da
Keplero, attorno al 1619, misurano le traiettorie e i tempi periodici
dei pianeti e dei satelliti del nostro sistema in funzione degli spazi
descritti dai raggi vettori che congiungono, rispetto a ciascuno dei
punti dell'orbita ellittica, il centro del sistema al pianeta in
movimento. Qui, come pure nella legge galileiana di caduta dei gravi
formulata attorno al 1604, una precisa nozione di tempo 'quanto' entrò
per la prima volta nell'enunciato di una legge deterministica della
natura. L'assiomatizzazione delle leggi del moto, raggiunta dalla
fisica sperimentale soltanto un sessantennio più tardi come sintesi dei
diversi contributi teorici dovuti a Galileo, R. Descartes,
Ch. Huygens, I. Newton, segnò la nascita di una nuova scienza
matematica: la dinamica, o analisi del moto dei corpi nello spazio e
nel tempo sotto l'azione di forze, con le sue nozioni chiave di
inerzia, forza, momento, accelerazione, velocità, urto. La messa a
fuoco di queste nozioni implicò la discussione di una serie di quesiti
teorici e sperimentali tra loro interdipendenti, tra i quali il
concetto di tempo appare quello più problematico. Lo studio dei moti
dei corpi poneva infatti il problema di definire con rigore i parametri
di riferimento: in sintesi, come parlare del moto di un corpo entro una
certa porzione dello spazio se non facendo intervenire nozioni come
variazione o costanza del moto in funzione degli intervalli di tempo?
Galileo immaginò vari esperimenti mentali per ipotizzare moti
rettilinei uniformi di sfere su piani orizzontali, privi di attriti,
tangenti alla superficie terrestre: moti e piani puramente ideali, data
la sfericità della Terra e la gravità. Descartes affrontò a sua volta
il problema geometrizzando a oltranza lo spazio fisico tridimensionale
della geometria euclidea (la res extensa, intesa anzitutto in senso
metafisico) e riferendo il moto rettilineo uniforme ai moti 'relativi'
di altri corpi, anch'essi in moto nella res extensa. Paradossalmente,
era questo un caso limite della cinematica, puramente tendenziale e
irrealizzabile, data la coincidenza tra spazio e materia e la
conseguente nozione di impulso. Infatti nel plenum cartesiano i moti
inerziali di punti materiali, relativi ad altri punti materiali in moto
e così via all'infinito, sono soltanto virtuali. Fu tuttavia il primo
passo della fisica inerziale. Newton criticò puntigliosamente in tutte
le sue implicazioni la nozione cartesiana di moto relativo,
contraddittoria rispetto al presupposto dello spazio pieno, e fece del
principio d'inerzia (spazi eguali percorsi in tempi eguali da un punto
materiale che si muove di moto rettilineo uniforme) uno stato di moto
concettualmente equivalente allo stato di quiete. La prima legge
newtoniana del moto, che assiomatizza questo principio in forma del
tutto astratta, postula il moto 'assoluto' come riferito alle nozioni
di spazio e tempo assoluti. La misura del moto rettilineo uniforme è
possibile soltanto se ciascuno degli infiniti possibili sistemi
inerziali di corpi, che si trovano in stato di quiete o si muovono di
moto rettilineo uniforme, è riferibile non a ulteriori sistemi
inerziali, ma a un contenitore immobile, lo spazio, e a un flusso di
tempo scorrente con rigorosa uniformità. Di qui la classica dicotomia:
il tempo assoluto, vero e matematico, in sé stesso e per sua natura,
scorre uniformemente senza relazione alcuna con alcunché di esterno, ed
è detto in altri termini 'durata'. Il tempo relativo, apparente e
comune, è una misura sensibile ed esterna, divisa con precisione o
meno, della durata mediante il moto, comunemente usata in luogo del
tempo vero: tale è l'ora, il giorno,
il mese, l'anno. Formulato in questo stile dogmatico il concetto di
tempo assoluto, Newton non mancò di registrare le sue perplessità. In
astronomia, aggiunse, è possibile correggere con un'equazione le
anomalie dei tempi 'naturali'. D'altra parte ammise la possibilità che
non esista un moto equabile mediante il quale il tempo possa essere
misurato esattamente; nonostante ciò, tutti i moti possono essere
accelerati o ritardati, ma il flusso del tempo assoluto non è soggetto
a mutamenti. Come si vede, il tempo assoluto era un articolo di fede,
la cui dissimulata natura teosofica affiora in alcuni accenni dello
Scolio generale aggiunto alla seconda edizione dei Principi matematici,
e soprattutto in uno scritto giovanile non pubblicato, dove sia lo
spazio sia il tempo sono definiti esplicitamente come 'emanazioni' o
'attributi' di un Dio eterno e onnipresente.
Il
tempo assoluto matematico rappresentava una scelta concettuale ad hoc
per la fisica inerziale (scelta quantitativa, ma non priva di
implicazioni qualitative nel tradizionale senso teologico). La
formulazione di Newton, pur sollevando ogni genere di obiezioni
epistemologiche e teologiche tra i suoi contemporanei e successori del
18° secolo, entrò comunque a far parte dell'edificio assiomatico della
fisica classica. L'assioma comportava la simultaneità del tempo in ogni
parte dello spazio: Newton precisa che alle diverse parti dello spazio
non attribuiamo durate diverse, ma diciamo che tutte durano
simultaneamente; identico è un momento della durata a Roma e a Londra,
identico sulla Terra e negli astri di tutto l'Universo. Il postulato
della simultaneità universale di tutti gli eventi in qualsiasi punto
dello spazio è indimostrabile, ma è legato in estrema analisi alla
ubiquità e onnipresenza di Dio; esso non fu mai scalfito dalle numerose
discussioni che sorsero attorno alla sintesi newtoniana. Non lo scalfì
neppure G.W. Leibniz, l'avversario più diretto e determinato di Newton,
che oppose al tempo assoluto una definizione relativistica del tempo
inteso come 'ordine di successione' degli eventi; tuttavia, conservò la
nozione di simultaneità nella celebre formula dell''armonia
prestabilita'. Una riformulazione critica del concetto newtoniano di
tempo (e spazio) assoluto fu data da Kant, che negò la natura oggettiva
o metafisica del tempo, ma ne preservò a suo modo il carattere assoluto
a parte subiecti. Nel quadro della filosofia critica il tempo assunse
infatti il ruolo di forma a priori del senso interno (simmetricamente,
lo spazio di forma a priori del senso esterno; v. spazio),
come condizione trascendentale di qualsiasi esperienza possibile. Ogni
evento fenomenico proveniente dal mondo esterno veniva a collocarsi
così entro il flusso uniforme del tempo: il tempo non è alcunché di
sussistente per sé stesso o di inerente alle cose come loro
determinazione oggettiva, non è altro che la forma del senso interno,
ossia dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno, è la
condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. La
soluzione kantiana ricalca esattamente la nozione di tempo assoluto
della sintesi di Newton, pur interiorizzando il flusso della durata. In
tal modo scomparivano dall'orizzonte dell'esperienza possibile, ed
erano sottratte a ogni possibilità di dimostrazione razionale, le
tradizionali problematiche riguardanti gli attributi divini
dell'eternità e dell'ubiquità, la creazione del mondo nello spazio e
nel tempo, la fine dei tempi, e così via. I ragionamenti della
metafisica e della teologia razionale pro e contro tali asserti sono
relegati da Kant nel dominio delle antinomie 'dialettiche', in quanto
tesi e antitesi risultano contrapposte ed egualmente indimostrabili,
cioè prive di qualsiasi contenuto empirico; sono questioni inevitabili,
imposte dalla finitezza della mente umana ma insolubili.
L'interiorizzazione
del concetto di tempo ha offerto ad altri filosofi ‒ come via di fuga
dall'intellettualismo kantiano ‒ la possibilità di rinnovare la
concezione qualitativa e metafisica della durata su un terreno
'biologico-coscienziale' (come in H. Bergson);
oppure, attraverso il rigetto in blocco della 'storia della metafisica'
intesa come smarrimento dell'essere, la ricerca di una temporalità
pura, enigmatica e sfuggente, cui la finitezza dell'uomo tende in forma
arazionale (come in M. Heidegger).
Kant, come non pochi interpreti hanno inteso la sua impresa, aveva
tentato di consolidare all'edificio della fisica classica mediante un
fondamento speculativo, estrapolando dalla fisica stessa il metodo e i
criteri della sua ricerca. Cercò inoltre di coronare la filosofia
critica con una 'fisica trascendentale' tutta fondata a priori,
tentativo che non può non apparire uno strano paradosso nella
prospettiva della filosofia della scienza moderna. Giacché il punctum
dolens dell'a priori kantiano è appunto l'estetica trascendentale, ove
tempo e spazio sono intesi come forme a priori modellate sull'unica
geometria tridimensionale. Inoltre non ha retto alla critica l'assioma
di origine newtoniana riguardante la simultaneità nel mondo fenomenico
di tutti gli eventi possibili. Un empirismo più rigoroso richiese
all'inizio del 20° secolo di dimostrare, orologi alla mano, la
simultaneità di due eventi in due punti dello spazio lontani tra loro.
Come sincronizzare gli orologi? Come trasmettere la misura esatta del
tempo da un punto all'altro dell'Universo? La velocità della luce
apparve l'unica unità di misura, ma questa scelta comportò la crisi
radicale dell'Universo a tre dimensioni e dell'assolutezza del tempo e
dello spazio. La dinamica newtoniana restò valida solo come prima
approssimazione; la teoria della relatività di A. Einstein eliminò dalla fisica il flusso assoluto del tempo e introdusse lo spazio-tempo come quarta dimensione.
Bibliografia
da Enciclopedia Treccani
www.treccani.it